Premessa
Una serie di testimonianze epistolari documenta la gestazione, lunga e disseminata di incertezze, attraverso cui Verga, scrittore sino a questo momento noto per romanzi erotico-borghesi e soprattutto per la Storia di una capinera, arriva a definire l’impianto dei Malavoglia. Il 21 settembre 1875 egli scrive al suo editore:
Caro Treves, Vi manderò presto Un sogno per l’Illustrazione Universale e in seguito Padron ’Ntoni, il bozzetto marinaresco di cui conoscete il principio, per il Museo delle Famiglie. Avrei potuto finirlo e mandarvelo anche prima, ma vi confesso che rileggendolo mi è parso dilavato, e ho cominciato a rifarlo di sana pianta, e vorrei riuscire più semplice, breve ed efficace. Spero che sarete contento.
Queste righe sono, a posteriori, particolarmente notevoli. Nel 1874 Verga aveva pubblicato la novella Nedda sulla «Rivista italiana», sottovalutandone lui stesso la portata. La lettera a Treves dimostra come i futuri Malavoglia nascano da un iniziale bozzetto, alla maniera di Nedda: un bozzetto questa volta di argomento non contadino ma marinaresco, e che ha per titolo Padron ’Ntoni, incentrato dunque su un personaggio unico, al maschile. Informa anzi che Treves a quella data ne conosce già il principio, il che permette di risalire a quasi un anno prima, a una lettera di accompagnamento del 18 dicembre 1874 nella quale a Treves annunciava: «Eccovi la Novella; anzi una e mezza. Vi ho mandato anche il principio della seconda perché possiate farvi un’idea del genere diverso, e vedere liberamente se fa per voi. Il seguito della seconda ve lo porterò io stesso, quando l’avrò finita, venendo fra breve a Milano».
Se vogliamo ricavarne le conseguenze, I Malavoglia sono nella cellula iniziale «una mezza novella», poi un bozzetto marinaresco. Verga è assai cauto, e la sua cautela è determinata dal fatto che si avventura in un «genere diverso». Cerca di darne un’idea all’editore, ma un’idea chiara non ce l’ha nemmeno lui. È cauto e anche insoddisfatto: sentimenti che con la consueta onestà non esita a confessare all’editore, il quale avrebbe potuto diffidare di un testo letterario di cui l’autore stesso non era contento. Dalla citata lettera del settembre 1875 risulta che quel testo gli pare «dilavato» e che ha cominciato a riscriverlo di sana pianta, che manderà «presto» Un Sogno e, «in seguito», il bozzetto. Lo scrupolo verghiano e le novità dell’impresa sono inversamente proporzionali alla possibilità di rispettare la tabella di marcia, come tanti anni dopo succederà alla Duchessa di Leyra, che non vedrà mai la luce.
Padron ’Ntoni, comunque, è il protagonista: il rappresentante di un mondo e l’indizio di una genesi. All’origine, c’è Padron ’Ntoni. L’intento di poetica dell’autore è di essere «più semplice, breve ed efficace».
Ed ecco una nuova lettera, questa volta all’amico Salvatore Paola Verdura, in data aprile 1878:
Ho in mente un lavoro, che mi sembra bello e grande, una specie di fantasmagoria della lotta per la vita, che si estende dal cenciaiuolo al ministro e all’artista, e assume tutte le forme, dalla ambizione all’avidità del guadagno, e si presta a mille rappresentazioni del gran grottesco umano [...]. Il primo racconto della serie, che pubblicherò fra breve, ti spiegherà meglio il mio concetto, se ci riesco. Per adescarti dirò che i racconti saranno cinque, tutti sotto il titolo complessivo della Marea [...].
Ciascun romanzo avrà una fisionomia speciale, resa con mezzi adatti. Il realismo, io, l’intendo così, come la schietta ed evidente manifestazione dell’osservazione coscienziosa; la sincerità dell’arte, in una parola, potrà prendere un lato della fisionomia della vita italiana moderna, a partire dalle classi infime, dove la lotta è limitata al pane quotidiano, come nel Padron ’Ntoni, e a finire nelle varie aspirazioni, nelle ideali avidità dell’uomo di lusso (un segreto), passando per le avidità basse, alle vanità del Mastro-don Gesualdo, rappresentante della vita di provincia, all’ambizione di un deputato.
Sono trascorsi circa due anni e mezzo, e il bozzetto non solo si è sviluppato nel respiro di un romanzo, ma questi non è più pensato come episodio singolo e invece si presenta come il primo tempo di un ciclo che ne conterà cinque e che a questa data porta il titolo complessivo di Marea. La fantasia che domina Verga è evidentemente legata al mare. Questa fantasia è esattamente una «fantasmagoria della lotta per la vita», dal livello più umile al più elevato, dal Padron ’Ntoni (il cui titolo si conferma) al Mastro-don Gesualdo all’Uomo di lusso. Nel Padron ’Ntoni la «lotta» è limitata al «pane quotidiano», quello che si invoca nella preghiera del Padre Nostro.
Nelle sue grandi linee il ciclo si è definito nella mente di Verga, il quale lavorando al suo primo romanzo non soltanto concepisce e svolge una storia, ma si preoccupa che questa storia stia all’interno di un disegno più generale, di cui deve condividere i caratteri e la pendenza.
Il 24 agosto 1879, sul «Fanfulla della domenica» esce Fantasticheria, a metà tra la novella d’invenzione e il documento di poetica, annuncio e anche ballon d’essai, indirizzato a una dama del bel mondo, che tra l’altro incarna il ceto di lettori a cui in gran parte il romanzo dovrà rivolgersi. Fantasticheria alterna e contrappone una visione da vicino e una visione da lontano, una visione dall’esterno e una visione dall’interno. I personaggi sono individuabili, ma non ancora nominati. Il carismatico Padron ’Ntoni, per esempio, bisognerà riconoscerlo sotto queste deludenti ma realistiche spoglie:
Vi ricordate anche di quel vecchietto che stava al timone della nostra barca? Voi gli dovete questo tributo di riconoscenza perché egli vi ha impedito dieci volte di bagnarvi le vostre belle calze azzurre. Ora è morto laggiù all’ospedale della città, il povero diavolo, in una gran corsìa tutta bianca, fra dei lenzuoli bianchi, masticando del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore di carità, le quali non avevano altro difetto che di non saper capire i meschini guai che il poveretto biascicava nel suo dialetto semibarbaro.
In ragione del suo spessore teorico, Fantasticheria esplicitamente divulga alcune immagini fondamentali che non si troveranno in seno al romanzo: l’“ideale dell’ostrica” attaccata allo scoglio, la “religione della famiglia”, infine la morale del racconto chiaramente condensata: «Un dramma che qualche volta forse vi racconterò e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: – che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dal gruppo per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace com’è, se lo ingoiò, e i suoi prossimi con lui». Morale che dimostra che la dinamica narrativa ormai sposta l’attenzione da Padron ’Ntoni a quello che conosceremo come ’Ntoni il giovane, colui che – quale ne sia la motivazione – ha la responsabilità di staccarsi dal “gruppo”.
Qualche critico ha messo in dubbio l’attendibilità della novella, con obiezioni filologiche e brillanti verifiche sui dettagli (il treno ad Aci Trezza prima della battaglia di Lissa, il 20 luglio 1866, quando morì Luca Malavoglia) e ha richiamato in crisi il rapporto tradizionale con I Malavoglia, che invece mi pare vada nella sostanza conservato. Più rilevante semmai è che Verga dichiari di aver conosciuto a uno a uno gli «attori plebei» di quel dramma e di averli incontrati insieme alla nobildonna. Esisterebbero perciò ad Aci Trezza a uno a uno i componenti di una famiglia che ha ispirato la storia dei Malavoglia, romanzo “a chiave”. Ad ulteriore compromissione, Fantasticheria viene ripresa in volume nella raccolta di Vita dei campi, nell’agosto 1880, presso Treves.
Tralascio altri documenti epistolari, da cui emergono i dubbi verghiani, i ripensamenti, le fasi della riscrittura. Nel gennaio del 1881 esce in anteprima sulla «Nuova Antologia» il brano Poveri Pescatori, che riproduce l’episodio della tempesta, e infine nel febbraio per le edizioni Treves esce il romanzo, accompagnato dalla celebre prefazione, scelta da Treves, con la data Milano 19 gennaio 1881, che definisce il ciclo una volta per tutte: I Malavoglia, dove si ingaggia «la lotta pei bisogni materiali»; il Mastro-don Gesualdo, dove ormai è in gioco l’«avidità di ricchezze» nel quadro di una cittadina di provincia; quindi la «vanità aristocratica» nella Duchessa di Leyra; l’«ambizione» nell’Onorevole Scipioni e l’estetismo sublime nell’Uomo di lusso. Il ciclo non si chiama più della Marea, anche se a riaffermare questa natura di flusso inarrestabile stanno le espressioni «corrente» e «fiumana». Che cos’è questa Marea? È «il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso», cammino «grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano». Il Verga lo dichiara alzando i toni, come concessione allo spirito del tempo, ma non deve esserne tanto convinto. Quello che domina il quadro è la «lotta per l’esistenza», che lascia per strada cumuli di Vinti, travolti come da una massa d’acqua, mentre levano in alto le braccia, in una successione di stragi, in una fantasia che ha una plasticità dantesca e michelangiolesca. In ogni caso, di progresso nella vicenda dei Malavoglia se ne vede poco, la denominazione di Vinti si attaglia certamente meglio alla tranche che sta per venire alla luce.
Come sintetizzare questa vicenda? A differenza che nei Promessi Sposi in cui Manzoni arretra al Seicento, I Malavoglia sono un romanzo di attualità, che rappresenta l’urto della storia con un tempo mitico. I Malavoglia non a caso cominciano così: «Un tempo...». Dal passato deriva l’incertezza della selezione, ma la certezza di una famiglia unita, come le dita di una mano, dove «il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo». La similitudine corporale, sulla falsariga di un apologo alla Menenio Agrippa, scandisce una verità implicitamente reazionaria. Chi può impunemente intaccare la necessità del rapporto anatomico?
Il dito grosso della mano è Padron ’Ntoni, «che comandava le feste e le quarant’ore». Se lui dice al figlio Bastaniazzo «Sòffiati il naso», il figlio Bastianazzo, che pure era «grande e grosso quanto il San Cristoforo che c’era dipinto sotto l’arco della pescheria della città», se lo soffia. Come si vede da queste immagini, la legittimazione è di tipo anche religioso. L’identificazione fondamentale del personaggio scaturisce comunque dal suo essere «Padron». Egli detiene un potere economico, possiede la barca e la casa del nespolo. Un’altra cosa che Padron ’Ntoni dice, è questa: «Il motto degli antichi mai mentì», che è un omaggio di Verga a Pitré, il grande studioso dei costumi popolari, ma soprattutto la pietra angolare di ciò che sta sotto il cielo.
Due sono gli elementi dinamici, che modificano l’equilibrio esistente e lo perturbano. Il primo, che nel dicembre 1863 ’Ntoni, il maggiore dei nipoti, viene chiamato per la «leva di mare». È una svolta, per gli affetti e la prosperità della famigliola. Tolstoj ha lasciato testimonianza del dramma di queste partenze nella società russa legata alla servitù della gleba, delle soluzioni a volte crudeli per rimediare a quel guasto. Padron ’Ntoni corre dai maggiorenti del paese, da don Giammaria, il quale ne approfitta per dare la colpa alla «rivoluzione di satanasso» del tricolore; e da don Franco lo speziale, che fa propaganda alla repubblica. Padron ’Ntoni cerca di ungere qualche ruota, ma ’Ntoni aveva il difetto di «essere piantato come un pilastro». Si noti: è appena stata fatta l’Italia, bisogna pagare un duro pedaggio facendo il soldato, c’è già l’abitudine di far scivolare «un certo gruzzoletto» nelle tasche giuste per essere riformati.
Questo evento determina una serie di reazioni a catena. ’Ntoni parte, lascia cioè lo scoglio, e cominciano i guai. Arriva a Napoli, fa gli inevitabili confronti con il paesello. La sua prima lettera è di entusiasmo: a Napoli si vedono per strada donne seducenti, c’è il teatro di Pulcinella, ci sono le pizze napoletane, e c’è scialo e bisogno di soldi. Nelle lettere successive cambia musica: egli si lagna della vita di bordo, della disciplina militare, dei superiori, delle ristrettezze eccessive. Non sarà mai più quello di prima. Padron ’Ntoni, che non sa leggere né scrivere, corre di qua e di là per farsi leggere quelle lettere, e per sicurezza ricorre giudiziosamente a due campane.
Il secondo elemento dinamico, parzialmente collegato al primo: l’annata è magra, le esigenze aumentano, mancano per giunta le braccia robuste di ’Ntoni. È in queste condizioni che matura il disegno di tentare la speculazione con i lupini, concessi a credito dall’usuraio zio Crocifisso. Ma la barca, la Provvidenza, beneaugurante e antifrastica come l’appellativo Malavoglia, naufraga, Bastianazzo annega, è il disastro per la famiglia.
Da questo momento, tutto precipita, per successivi crolli. Ma in sostanza, due energie e due ragioni si confrontano e si scontrano: quella di Padron ’Ntoni e quella di ’Ntoni il giovane. Di Padron ’Ntoni dicono che è un «codino marcio, un reazionario di quelli che proteggono i Borboni, e che cospirava pel ritorno di Franceschello», ma è lui che regge la famiglia, che si sostituisce al figlio morto, che disperatamente tenta di garantire un futuro ai nipoti. ’Ntoni invece ha un’altra personalità, uscire dal paese e dalla Sicilia ha fatto scoppiare in lui una febbre, è lui il giovane, che non si accontenta, che vuole di più, che si apre, al nuovo e al rischio.
Un grave contrasto è in atto tra nonno e nipote, esasperato dal legame affettivo. Non a caso i due portano lo stesso nome, a ribadire e a lacerare un’appartenenza, una sorta di drammatico monologo interiore, che suona nella mente e nel cuore di Verga.
L’inquietudine giovanile, il viaggio, le circostanze hanno determinato la crisi individuale; ma è l’intera società a essere investita da segnali allarmanti: il vapore, la ferrovia... Non c’è soltanto il balzello del servizio militare, c’è la gragnuola di tasse imposte dal nuovo Stato italiano: il dazio del sale, il dazio della pece, del pelo, del vino, della carne «che nessuno mangia» esasperano gli animi, sino alla «rivoluzione» spontanea delle mogli, mentre i mariti sfruttati si rompono la schiena al lavoro. ’Ntoni non ce la fa più a stare nel suo piccolo mondo, è attraverso lui che il vento della storia entra e sparpaglia gli uomini come se fossero foglie. Il dilemma dello scrittore e del suo personaggio è: partire o restare? Con la lunga litania dei guai dei Malavoglia, Verga dice che bisogna restare, comunque ritorna, opta per la tradizione, non per il cambiamento. La famiglia, prima unita, si disgrega: sarà Alessi, non ’Ntoni, a ricostituirla; la Mena, non Lia. In un’epoca di trasformazione tumultuosa, lo scrittore dei Malavoglia è il profeta della conservazione, dell’immobilismo. Con il suo fatalismo, è – se si vuole – il profeta sbagliato, della non modernità.
Ma la sua testimonianza storica e artistica rimane di grande portata: il destino di ’Ntoni è struggente, nella sua sorte personale si nasconde la divaricazione tra emigrazione e brigantaggio, che è stata di larghe masse di diseredati nel Sud dopo l’unità; alla fine del romanzo, l’estrema partenza all’alba di lui, che non può più restare, ora che sa, a fronte del villaggio e del coro che lo esclude, è un salto di qualità nell’ordine appunto della conoscenza.
Le novità strutturali e linguistiche del romanzo, che attaccava direttamente la realtà e operava il tentativo di dare dignità letteraria al «dialetto semibarbaro» di una comunità di pescatori siciliani, non mancarono di sconcertare i lettori. L’11 aprile 1881, in una lettera a caldo indirizzata a Capuana, Verga così si sfogava: «I Malavoglia hanno fatto fiasco, fiasco pieno e completo... Il peggio è che io non sono convinto del fiasco, e che se dovessi tornare a scrivere quel libro lo farei come l’ho fatto».
SERGIO CAMPAILLA