IL VARCO

Maurizio Costa è il mio professore di storia e filosofia e potrebbe anche essere considerato un bell’uomo.

È alto quasi come la porta, è magro ma non mingherlino, non ha moltissimi capelli ma quelli rimasti sono ancora scuri, probabilmente aiutati nell’impresa da una qualche lozione colorante da banco del supermercato che uniforma e livella le naturali sfumature dei capelli rendendoli più simili a una colata di catrame che a una chioma giovanile e sana.

Il professor Costa indossa quotidianamente la sua uniforme da docente di storia e filosofia della sezione A di un liceo classico di provincia: pantaloni monocromi con piega, camicia bianca o azzurrina perfettamente stirata, gilet di lana o cotone dello stesso colore dei pantaloni, cravatta regimental e giacca nei toni del marrone o del grigio, perlopiù.

Costa potrebbe essere considerato un bell’uomo se non fosse l’essere più letargico del pianeta.

Probabilmente l’espressione “pausa di riflessione” l’ha inventata lui per indicare l’infinito lasso di tempo che intercorre tra un qualsiasi stimolo e una sua reazione.

Anche dopo una domanda semplice come “Professore, posso andare in bagno?”, lui porta le labbra in posizione di U rovesciata, avvicina la mano al mento per enfatizzare l’elaborazione del dato col gesto, sposta le palle degli occhi dal basso verso l’alto e poi dall’alto verso il basso e alla fine emette un lungo e cavernoso “mmmmsssì”. Come fosse un lapillo o un pezzo di roccia sputato fuori dalla bocca di un vulcano apparentemente spento al cui interno, da qualche parte, alberga ancora una traccia di vita.

Eppure Costa è un buon partito.

Tra i pochi esemplari di vedovo esistenti in Italia, dopo la morte della moglie, Maurizio senza fare assolutamente nulla è stato immediatamente considerato appetibile, un papabile compagno di vita per vedove o single della città.

Gira voce che abbia una tresca con l’insegnante d’italiano, la bellissima Flavia Tiberi, anche lei vedova, che ha sì qualche anno più di lui ma sembra Kristin Scott Thomas.

Ex campionessa di atletica, ex dama dell’annuale sfilata storica in onore del santo patrono, ex moglie adorata, la Tiberi si ritrova a trascinare a forza Maurizio in una pigra relazione come si fa con i muli quando non vogliono andare.

“Non ci hai mai fatto un pensierino?” chiesi una volta ad Adele.

“Non è il mio tipo,” aveva risposto.

Perché il tipo di Adele è un essere speciale e tu, Maurizio, speciale non lo sei.

Costa è così pigro che non ha nemmeno voglia di spiegare. La sua lezione consiste nella lettura a voce alta di pagine e pagine del libro di testo.

Arriva in classe, poggia la cartella sulla cattedra, tira fuori il libro, tira fuori gli occhiali, tira fuori la penna e poi allunga il collo come una tartaruga, scruta la classe fino alle ultime file e srotolando il dito come l’estremità di un metro da sarto indica qualcuno aspettando che il cervello processi l’informazione e dalla bocca fuoriesca, come una lattina da un distributore automatico, un nome: mmmmmTroisi oppure mmmmmBalestra oppure mmmmmAloisi.

Io odio questo rituale.

È una vera tortura.

Ma perché non fa come Adele, che ci interpreta e commenta le letture?

Se devo stare qui a leggermi da sola il libro di testo me ne posso anche rimanere a casa.

Poi se leggo a voce alta non capisco nemmeno quello che leggo e allora è tutto inutile.

Faccio doppia fatica.

Praticamente facciamo il suo mestiere.

Tanto vale che ci giri il bonifico a fine me…

“Contini.”

Cazzo.

Alzo lo sguardo dalla schiena grassa e capiente di Ludovica e vedo il lungo dito nodoso che mi indica prolungando lo sguardo presbite dietro gli occhiali calati sul naso straordinariamente piccolo e rotondo di Costa.

“Leggi tu…”

Cazzo.

Ok. Niente panico.

Leggo io.

“Allora. Pagina 54. Titolo: Critica della ragion pure.”

“Pura,” mi corregge Costa.

“Sì, pura. La Critica della ragion pura è un’opera di Immanuel Kant. L’opera pubblicata nel 1781 e in seguito ampiamente rimodellata…”

“Rimaneggiata…”

“Sì, rimaneggiata… nella seconda edizione del 1787, è suddivisa in due parti… 1. La Dottrina trascendentale degli elementi, che costituiscono…”

“Costituisce…”

“Sì… costituisce…”

Ok, stai leggendo da schifo.

Devi concentrarti, Giulia, stai solo leggendo, calmati. Ce la puoi fare, mi ripeto dentro.

Invece no. Non ce la faccio.

Mi fermo. Sono rossa in volto. Mi si incrociano gli occhi e non riesco a proseguire.

Esce un timido colpo di tosse. Poi subito dopo altri due. Cavalco l’onda.

“Mmm. Contini ce la fai?”

Non rispondo. Faccio sì con la testa e no con la mano.

Ludovica mi porge una caramella, ma è di quelle gommose alla frutta con gli zuccherini trasparenti sopra.

Declino l’offerta. Un altro colpo di tosse e poi un altro. Servirebbe proprio dell’acqua.

“Professore, proseguo io,” interviene la mia compagna di banco.

“Va bene, Narducci. Prosegui tu.”

Sono salva. Silvia mi è venuta in soccorso.

Ancora una volta.

“Grazie, amica, mi hai salvato.”

“Figurati, amica.”

“Mi dispiace che ci sei andata di mezzo tu.”

“Non preoccuparti, amica.”

“Costa ci tortura.”

“Ma no, amica, ci fa solo leggere.”

Poi Silvia mi stacca, col suo passo svelto da stambecco, sull’ultimo tratto di strada verso l’autobus mentre io rallento fino a fermarmi.

Cazzo.

Io non so leggere!

Lo sospettavo già.

Ma non avevo detto niente. Nemmeno a me stessa.

Ma come, non sai leggere?

Certo che sai leggere!

Leggi continuamente!

Ma non è proprio vero.

In pratica succede questo.

C’è un testo da leggere.

I miei occhi guardano il testo nella sua interezza.

Il cervello memorizza il testo sotto forma di immagine, come farebbe uno scanner, e fissa un mucchietto di lettere alla rinfusa, la lunghezza delle parole e l’ampiezza delle frasi.

Dopo la fase fotografica arriva la fase compositiva: il cervello prende le lettere che ha riconosciuto e le ricompone negli spazi che ha memorizzato per ricostruire una versione plausibile del testo.

Capita quindi che a volte la versione originale e la versione rielaborata coincidano, e va tutto bene, ma capita altrettanto spesso che le due versioni non siano uguali.

Succede perché:

1. il cervello non conosce una o più parole, quindi non riesce a collocare bene le lettere e allora le mette come meglio crede, in modo simile all’originale ma non sempre uguale. Così per esempio l’ondata di freddo che colpisce la penisola per te è Burein, per tutti gli altri è Burian;

2. due o più parole sono molto simili per composizione o per lunghezza; allora, nell’indecisione, il cervello prende la prima che trova e viene fuori una cosa tipo “critica della ragion pure” invece di “critica della ragion pura”;

3. a volte invece succede semplicemente che il cervello decide che la sua versione del testo è più bella quindi la sostituisce mantenendo il senso.

Perciò adesso quando ripenso a tutti i romanzi, agli articoli di giornale, ai numeri di Diabolik, ai cartelloni stradali, ai nomi dei gelati sulle insegne di latta appese ai lati dei chioschi mi chiedo se li ho letti davvero o li ho inventati come si fa coi dialoghi nei giochi e i nomi nelle fiabe.

Per me leggere è una questione complessa.

Ma finché lo faccio in privato me la cavo.

Il problema diventa serio quando devo leggere a voce alta, perché per essere certa di attenermi al testo originale devo concentrarmi molto e scandire lettera per lettera, come un bambino che sillaba le sue prime parole. La conseguenza però è che non capisco quello che leggo, e quindi leggo male.

Questa è la situazione.

Ecco perché non so suonare il pianoforte.

Perché quando leggo il pentagramma il cervello vede le note che vuole vedere. E allora riesco a suonare solo quello che sono riuscita a imparare a memoria e nulla più.

Questa è la situazione.

Non posso farci niente.

Non posso dirlo a nessuno.

Nessuno può aiutarmi.

Febbraio 2001.

Adele ha riportato i compiti in classe di greco. Li poggia vistosamente sulla cattedra e prima di distribuirli li commenta, come un allenatore di calcio negli spogliatoi a fine partita.

“È andata abbastanza bene per tutti. Alcuni sono andati benissimo. Alcuni hanno recuperato. Qualcuno invece ha avuto problemi…”

Io credo di essere tra quelli che hanno recuperato. La versione non era difficile. Non ho neanche dovuto copiare.

Inizia la distribuzione dei fogli, che consegna personalmente lei, depositando il compito sul banco col voto coperto come fosse una carta da gioco.

Mi si avvicina, mi sorride amichevole, direi quasi complice, appoggia il compito sul piano di formica verde e prosegue.

Bene. Prendo il foglio protocollo appoggiato sul banco come un gabbiano, lo giro, e in alto a sinistra campeggia grande e rosso un 4 cerchiato come un bersaglio.

Un gabbiano decisamente ferito.

Il mio è uno dei due voti più bassi della classe.

Il secondo è di Caterina, la ragazza che mi chiamava “Gialla”.

Figuriamoci.

Ma come ho fatto a prendere 4?

Silvia ha preso 7.

Nessun altro voto sotto la sufficienza.

Credevo di essere andata bene.

Intanto Adele è tornata alla cattedra. Ci lascia il tempo di guardare i compiti. Ci chiede se abbiamo dubbi o domande. Si sofferma con lo sguardo su di me, ma io mi smarco e la lascio passare.

“Va bene, riportatemi i compiti.”

Inizia la processione.

“Contini e Fanelli, voi restate alla cattedra.”

Io e Caterina ci guardiamo: perché?

“Cerchiamo di capire insieme che cosa non è andato bene nel compito.”

Adele si siede, noi restiamo in piedi sul lato corto della cattedra.

Caterina mi guarda come se potessi lanciarle un salvagente mentre annega.

Io invece sono incazzata nera.

Sono incazzata con Adele perché sta peggiorando una situazione già pessima, perché sta sottolineando davanti a tutta la classe la mia condizione di inferiore, di stupida cronica, di inetta dichiarata.

Lo sta facendo per umiliami pubblicamente? Per deridermi davanti a tutti?

“Allora, Giulia, rileggiamo insieme la prima frase e proviamo a tradurla. Le parole che non sai te le dico io.”

Riprendo il foglio della versione.

Guardo la prima riga. Il cervello la memorizza, la elabora e ne restituisce una sua lettura.

“Giulia, ma dove stai leggendo?”

Silenzio.

“Rileggi da capo, per favore.”

Silenzio.

“Ti senti bene?”

Silenzio.

“Caterina, leggi tu.”

Caterina legge.

Lei almeno sa leggere.

L’interrogazione finisce poco dopo. Scena muta. Torno al banco.

Silvia non mi chiede niente per tutto il resto dell’ora perché ha capito che non voglio parlare.

Al suono della campanella infilo lo zaino e scappo fuori dalla classe sgomitando tra i compagni e tagliando la strada ad Adele, che mi raggiunge prima con la voce poi con un braccio.

“Vieni, tu, parliamo un attimo.”

Non vorrei seguirla, ma obbedisco.

“Che è successo oggi?” Si accende una sigaretta.

Io, seduta sulla solita sedia, non rispondo.

“Mi spieghi che cos’hai?”

Non rispondo.

Adele sbuffa, alza gli occhi al cielo, si mette le mani sui fianchi e fa un mezzo giro sui talloni verso la finestra aperta. “La smetti di fare la bambina?”

“Ma che vuoi tu da me, si può sapere?” Mi alzo. “Vuoi continuare a umiliarmi? Non ti è bastato lo spettacolino che hai messo in scena in classe?”

“Giulia, calmati, e modera i toni.” Spegne la sigaretta nel posacenere sul davanzale della finestra.

“Ma che ti aspettavi?”

“Guarda che io volevo aiutarti, volevo farti alzare il voto del compito…”

“Credevo avessimo un rapporto.”

“Ce l’abbiamo, ma davanti agli altri non posso.”

“Dopo tutto quello che ho fatto per costruirmi una… una… reputazione…”

“I tuoi compagni ti considerano…”

“Non sto parlando dei miei compagni, non me ne frega un cazzo dei miei compagni!”

“E allora di chi parli?”

“Di te!”

SILENZIO.

“Parlo di te.”

SILENZIO.

“È della tua considerazione che mi importa.”

SILENZIO.

“Tutto quello che faccio lo faccio per te.”

SILENZIO.

“Giulia, io non capisco.”

SILENZIO.

Apro lo zaino, infilo il braccio dentro, scavo tra i libri, trovo il quaderno nero.

Lo lascio cadere sulla scrivania, con più sprezzo di quanto vorrei, ma poco importa.

“Adesso capirai.”

SILENZIO.

Mi rimetto lo zaino sulle spalle ed esco.

Cammino veloce, quasi correndo, senza voltarmi.

La scuola si è svuotata in fretta. Nell’atrio Temistocle passa la scopa.

In lontananza sento la voce di Adele che mi chiama.

La ignoro.

Non ritorno.

(Punto di).

SILENZIO.

***

Mia madre mi porta a comprare i vestiti nello stesso negozio dove va lei.

La proprietaria si chiama Antonella e ti guarda, ti parla e ti tratta come se fossi bellissima.

Da lei compreresti qualsiasi cosa.

Antonella ha gli occhi azzurri, i capelli biondi, il punto vita stretto e il sorriso largo, sembra una delle sorelle Carlucci. Ha perso un seno in battaglia come le amazzoni e non l’ha più rivoluto.

Lei è bella anche così.

Anche il marito è bello, ma di quelli belli e inutili, che da giovani facevano le vasche in piazza sfoggiando la bruna chioma fluente, e da vecchio continua a fare le vasche in piazza sfoggiando ancora la chioma fluente, però grigia.

A volte c’è anche lui in negozio, ma poiché è un bello che non balla, non è buono neanche a far sentire bella una donna e allora non vende niente.

Antonella invece ti fa sentire una favola.

Ma quando torni a casa non c’è lei che ti raddrizza il collo, ti tira il giacchino, ti aggiusta i pantaloni, ti sistema la camicia e poi ti spinge davanti allo specchio dicendo: “Ecco.”

Lei non c’è e ti ritrovi a guardarti con addosso diverse centinaia di migliaia di lire che non indosserai mai.

Per capodanno mia madre e Antonella mi hanno convinto a comprare una specie di tutina nera opaca con lo scollo a barchetta e le maniche svasate come un moschettiere del re.

Sono un incrocio tra Eva Kant e Aramis.

Sono inadeguata per la mia età, per il mio carattere, per il mio corpo, ma soprattutto per l’occasione.

Silvia mi ha convinta a fare capodanno con loro.

Loro sono gli altri amici di Silvia che non sono io, gente che sopporto soltanto per stare con Silvia.

Lei lo sa e fa finta di niente solo per stare con me.

Così sono a questa festa dove non conosco nessuno, in uno stanzone disadorno al piano terra di un casolare dove ha sede la proloco. La musica esce alta da un doppio paio di casse disposte agli angoli. Addossati a una parete, due tavoli, uno per il cibo e uno per le bibite.

Sediesediesediesedie a definire lo spazio e un grande vuoto al centro, sotto i festoni colorati di carta velina, dove dovrebbero esserci le danze.

Vicino al dj, sotto la supervisione dei maggiorenni, si accatastano casse di Cola-Cola, Fanta e Sprite, insieme allo spumante caldo per il brindisi, più qualche bottiglia di rum e tre, quattro cartoni di succo di frutta alla pera. Perché quando hai tra i sedici e i diciannove anni sperimenti i cicchetti di rum e pera come fossero la versione da grandi delle tic tac. Un momento che segna il passaggio da quando bevevi il succo dalla scatoletta quadrata con la cannuccetta bianca appuntita a quando berrai cocktail dal nome sofisticato in bicchieri di vetro da cannuccette nere e larghe.

Alla festa è invitato anche Alessandro.

Alessandro è uno dei tre maschi della mia classe. L’altro è il bellissimo Fabrizio, un giovane Kim Rossi Stuart con la media del 9; l’altro ancora lo sfigatissimo Patrizio, raro esemplare di quindicenne più canuto del padre; e poi c’è Alessandro.

Alessandro è carino, e questo probabilmente è il suo problema più grande.

È carino in tutto: nel fisico (minuto, con gli occhiali, le labbra a cuore e i riccioli castani), come nei modi (gentile, educato, timido).

Alessandro è così carino che sta nella zona beige dove fluttuo anche io, tra quelli che se non starnutiscono non ti accorgi che ci sono.

Alessandro è il migliore amico, è il confidente, l’alleato fedele. Alessandro è Anthony Edwards. Quello che fa Ciccio in ER vicino a George Clooney e Goose in Top Gun vicino a Tom Cruise.

Se fossi una ragazza sceglierei Alessandro, mi ero detta una volta.

Poi mi ero ricordata che io sono una ragazza.

Allora sono qui, con la tutina di Antonella mentre tutti gli altri sono in jeans e maglione, a vedere come sarebbe la mia vita se fossi il tipo di ragazza che va alle feste, che tracanna rum e pera come fosse sciroppo per la tosse, che balla in pista, che aspetta un lento, che appende le braccia al collo di Alessandro, che magari lo bacia, che poi si chiamano e si scrivono, che si tengono per mano a ricreazione, che porta il ragazzo a casa, che lo fa conoscere a zia Franca, che lo guarda aiutare a sparecchiare, rifiutare l’ennesimo bicchiere di vino offerto a tavola da mio padre e alzare gli occhi al cielo di nascosto quando le gemelle si distraggono dopo aver sopportato i loro commenti su capelli, barba, vestiti e scarpe.

Sono qui per Alessandro.

Perché se fossi una ragazza è con lui che vorrei stare.

Alessandro arriva tardi, accompagnato dal fratello maggiore che se ne va quasi subito.

Conosce solo me, perché Silvia è in giro con gli altri amici ed è come se non ci fosse.

Lo fa per lasciarci soli in mezzo a tanta gente, vuole vedere se facciamo un patto per sopravvivere alla serata e magari, chissà, per sopravvivere alla vita.

Stiamo in piedi perché le sedie sono tutte occupate, parliamo poco perché la musica è alta e un vero discorso non si può fare. Allora ogni tanto gridiamo qualche parola, lanciata sopra i decibel delle casse come una palla oltre la rete.

Siamo in imbarazzo, non vorremmo essere qui. Io no di sicuro, e di certo non vestita così.

Teniamo goffamente il ritmo con la testa e con un piede, fingendo di essere sintonizzati col mood della serata.

Il tempo non passa mai.

FACCIAMO UN GIRO?” grida Alessandro dal suo lato del muro.

VA BENE,” rispondo io dal mio.

Usciamo, fuori la musica si abbassa di schianto e torniamo a respirare, come se per tutto il tempo il suono ci avesse compresso la cassa toracica.

Sorridiamo. Siamo salvi.

Il casolare è grande. Al piano terra ci sono altre due stanze più piccole dove stanno ammucchiate sedie e altri tavoli. Troviamo una rampa di scale. Saliamo. Sopra c’è silenzio. Troviamo le scorte di cibo, fingiamo di rubarle, poi le lasciamo, ci sono anche le bottiglie di vodka ma noi puntiamo alle patatine.

Ridiamo, finalmente. La tensione si è sciolta un po’, Alessandro è divertente, io sono simpatica, siamo in sintonia.

Potrebbe anche funzionare. In fondo siamo simili: carini e graziosi come due meticci. Potrebbe anche andare bene, io potrei anche piacerti e tu forse potresti anche piacermi.

Ma sì, è tutto così naturale, tutto così spontaneo, tutto così…

Ops! Porta sbagliata.

Alessandro apre e chiude in un unico movimento fulmineo la porta della stanza dove all’arrivo abbiamo lasciato i cappotti, giusto il tempo di vedere una ragazza a seno nudo e un ragazzo chino che glielo mangia.

Fine.

La mia fase etero è durata il tempo dell’apertura e chiusura di quella porta.

Un anno dopo.

Io e Alessandro questa mattina non siamo entrati a scuola.

Vogliamo saltare matematica. Oggi studieremo in biblioteca e poi domani ci offriremo volontari.

Ma in biblioteca non ci arriviamo.

Dopo colazione al Bistrò ci fermiamo al sole in un giardino stretto tra una coorte di palazzi color crema. Le mamme che portano i bambini a dondolarsi sull’altalena ci guardano immaginando la magagna.

Noi ci sentiamo dei ladri che hanno appena rubato la più bella giornata di primavera. C’è silenzio. L’aria è fresca. Non abbiamo voglia di studiare. La scuola ci fa schifo. Vogliamo solo che finisca. Ma oggi si sta bene.

Sì, oggi è proprio una bella giornata.

“Sono felice che sei qui.”

“Anch’io sono felice.”

“Ale?”

“Che c’è?”

“Ti devo dire una cosa.”

“Dimmi.”

Siamo seduti sugli schienali di due panchine intorno a un tavolo di legno, una di fronte all’altro. Abbasso gli occhi e indico una frase incisa con un coltellino o una chiave.

Alessandro la legge:

“Luca è gay.”

“Non Luca. Io.”

Un anno dopo.

“Praticamente è un assedio,” dice Alessandro quando gli racconto di Adele. “È come in guerra: accerchi la roccaforte, controlli le uscite e le entrate, scavi un varco sotto le mura e poi entri.”

“Esatto, è un assedio.”

“Figo.”

Un anno dopo.

“Ale?”

“Giulia, dimmi…”

“L’assedio…”

“Che è successo?”

“Credo che abbiamo perso.”

***

Una volta in una Smemoranda addobbata e carica come un albero di Natale di una compagna di classe delle medie, tra gli aforismi di Jim Morrison e le figurine dei Take That, c’era questa frase: “Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla.”

Alla proprietaria della Smemoranda la frase piaceva tanto perché la fine del mondo per lei era sinonimo di una cosa fighissima, a me invece metteva malinconia perché la fine del mondo era solo sinonimo di fine.

Mi immaginavo questo povero bruco passare la vita a spostarsi strisciando, sognando le ali, flettersi e stendersi, flettersi e stendersi, flettersi e stendersi da un ramo all’altro, passando sopra le foglie, i sassi e le gomme masticate. Me lo immaginavo sognare di guardare il giardino dall’alto, fissare i gatti negli occhi e smarrirsi per una folata di vento.

Me lo immaginavo sopravvivere a tutto, agli uccelli e alle scope, alle scarpe e alle esche, ai contadini e alle mele e poi a un tratto morire. Dopo un unico, solo, imperfetto giorno di vita.

La fine del (suo) mondo.

Oggi mi sento come il bruco.

Quello che per me è stato la fine del mondo, per il resto del mondo era solo martedì.

Martedì. Mercoledì. Giovedì.

Niente.

Giorni, mesi, anni passati a immaginare la scena, a ripetere le parole in testa, a enfatizzare i dialoghi inanellando catene di: se lei dice quello io dico questo, se lei risponde così allora io me ne vado poi lei mi cerca, allora io le dico questo, allora lei dice quello, allora silenzio, allora poi io dico questo e lei dice quello.

Pagine e pagine di copioni pieni di questo e di quello debitamente suddivisi in turni di parola rimasti del tutto inapplicati.

Perché la fine del mio mondo per lei era solo martedì.

Mercoledì.

Percorrendo l’atrio della scuola il cuore mi batte così forte nelle tempie che potrebbe essere in filodiffusione.

Attraversando il corridoio che porta in aula lo stomaco mi fa così tanto male che potrebbe essersi corroso.

Ascoltando la sua lezione alla terza ora le gambe mi tremano così tanto che potrebbero aver compromesso la fondamenta dell’edificio.

Aspettando di essere convocata nel suo ufficio a fine giornata la testa mi fa così male che potrebbe essersi sbeccata.

Camminando sulla strada verso la fermata dell’autobus ho così tanta nausea che mi sento come chi dopo essersi provocato gli spasmi con le dita alla fine poi non vomita.

Giovedì.

Parlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlami parlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlamiparlami

Cinque ore così.

Venerdì.

Sono passati due giorni.

Nulla è accaduto da quando me ne sono andata dal suo ufficio dopo aver depositato la prova inequivocabile del mio amore per lei.

Nulla.

E questo non è concepibile.

Nessuna prova, procedura, pianificazione aveva previsto la possibilità che dopo non accadesse nulla.

Ero pronta per una guerra e invece è arrivata la bonaccia.

E morire di quiete non è dignitoso.

Meglio correre verso le linee nemiche e morire come Lady Oscar, fucilata di fronte alla Bastiglia mentre guida le truppe in battaglia. Meglio raccontare di averci provato, ad Alessandro e Silvia, che fino a questo momento con fiducia e passione hanno seguito le trame.

Domani è sabato e non si viene a scuola perché facciamo la settimana corta, che ci fa uscire mezz’ora dopo tutti i giorni, ma almeno abbiamo il weekend lungo.

Altri due giorni così non ci resto, con questa pozza di liquido freddo che mi ristagna in petto non ci sto.

La campanella sta ancora suonando per annunciare l’inizio del weekend e mezza scolaresca è già all’ingresso, sulle scale, per la strada. La porta dell’ufficio è socchiusa e la vedo dentro, incorniciata nella luce che passa tra gli stipiti.

Mi attraversa per un secondo l’idea di andar via, di correre fuori con gli altri, incontro a un sabato di piazza e di pizza, ma in quel momento lei alza gli occhi, mi vede e sorride.

Il cuore si bagna.

Entro chiedendo permesso.

La sortita dell’ultima volta richiede una reverenza maggiore.

“Vieni, entra.”

Entro. Resto in piedi.

Mi allunga uno sguardo morbido che incrocia il mio corpo rigido.

“Come stai?” mi chiede.

“Bene,” rispondo. “Abbastanza bene,” rettifico.

Adele tiene il sorriso come fosse una nota. Lo tiene dritto e teso come un filo da bucato. Lo tiene fermo, mi accorgo, fin troppo fermo, come fosse un proposito.

Inizio a preoccuparmi. Inizio a vedere delle conseguenze, ma non capisco ancora di che tipo.

Mi accorgo che anche lei sta ripetendo dentro di sé un copione, me ne accorgo da come inarca la schiena sulla poltrona con le rotelle dopo essersi seduta alla scrivania, me ne accorgo da come incrocia le dita per formare un pugno, da come se lo appoggia sotto il mento e dopo aver preso un boccone d’aria comincia: “Ti ho mai parlato dei miei figli di pezza?”

***

Se Adele non mi ama la colpa è di Edoardo Castelli.

Edoardo Castelli è come me, solo meglio.

E se lui non è riuscito a farsi amare da Adele come posso riuscirci io?

Edoardo Castelli ha circa dieci anni più di me, vive a Roma, fa il corrispondente politico per il tg e va in televisione davanti a Palazzo Chigi.

È sposato con un’altra giornalista che ad Adele non piace molto, stanno per avere una figlia, la chiameranno Azzurra e anche questo non le piace molto.

Forse ad Adele non piace niente di ciò che riguarda la donna di Edoardo Castelli perché magari è un po’ gelosa di un’altra donna più giovane e carina, in età da carriera, da moglie e da figli.

Io sicuramente sono gelosa di Edoardo Castelli. A morte.

Io lo odio proprio, Edoardo Castelli.

Edoardo Castelli ha conosciuto Adele nell’estate della sua terza media, quando la madre lo aveva mandato ad apprendere i rudimenti delle lingue morte dalla figlia di un’amica che aveva vinto il concorso ma non insegnava ancora al classico – all’epoca Adele stava al liceo artistico di Perugia a insegnare storia dell’arte (che poi è quello che ama davvero). Ma Perugia è lontana, soprattutto per una che non guida, che non ha la macchina né la patente, così Adele aveva chiesto il trasferimento e quell’anno era riuscita a ottenerlo.

Edoardo e Adele quindi a settembre avrebbero iniziato il liceo insieme, ma in sezioni diverse, per cui Adele insegnante di Edoardo non lo è mai stata davvero.

Era stata la sua tutrice privata e poi col tempo era diventata amica e confidente.

Ma quante belle chiacchierate si sono fatti insieme parlando di D’Alema, Occhetto, Prodi e Berlusconi.

Ma quanti pomeriggi a parlare di bellezza e di giustizia, a discutere di etimologie, di sentimenti e di emozioni. Quante telefonate a parlare d’amore, quello degli adolescenti, che viene e che va come monta una marea, un’eclissi lunare o il bianco dell’uovo.

Perché l’amore di Edoardo è come lui, giovane e brillante, vispo e incostante, onnivoro e bulimico.

Edoardo aveva amato una compagna di classe, un’amica della madre, una compagna di partito ed Eleonora, la figlia complessata della professoressa Tiberi, collega e amica di Adele.

Per lei aveva proprio perso la testa. Lui, bello e sano come un giovane ateniese, aveva scelto di salvare un’orfana di padre con madre emotivamente frigida, restituirle quella figura maschile che troppo presto le era venuta a mancare e farle da manto e da freccia.

Un giorno Edoardo bussa alla porta di Adele, stringe Eleonora per la mano e ritto come un gendarme dichiara: “Anche se non approvi sto con lei, anche se non approvi ho scelto lei.”

Perché Eleonora è bella come sua madre, ma meno altera, porta i capelli lunghi lunghi lisci lisci ed è magra come sono magri solo i malati o gli infelici.

Adele ascolta la dichiarazione d’intenti in silenzio, guarda Edoardo negli occhi e li vede fiammeggiare, guarda Eleonora e vede la cenere.

“Li ho baciati e gli ho dato la mia benedizione, ma non ero d’accordo: per Edoardo era solo una prova di forza, per Eleonora sarebbe stata un’altra perdita da elaborare.”

E poi Eleonora non è abbastanza per lui.

Ma questo non è un pensiero carino, allora non lo diciamo.

Lo diremo solo una volta, per sbaglio, parlando di altro, senza rendercene conto.

Edoardo Castelli è il primo e l’inimitabile. Il figlio di pezza per antonomasia, quello che se è venuto su così bene è anche merito di Adele e lei questo merito se lo prende tutto.

Ne sono seguiti altri, negli anni, di ragazzi speciali che lei aveva in parte cresciuto e di cui poteva rivendicare una forma o un’impronta.

Ma lui era il preferito. Lui era il modello, il numero zero.

“Nessuno sarà mai come lui,” mi dice alla fine del grazioso aneddoto. “Però puoi far parte anche tu dei figli di pezza se vuoi.”

Io la ascolto e per la prima volta da quando la conosco penso veramente che sia stupida.

Non c’è altra spiegazione. Perché solo una persona stupida può pensare nell’ordine:

1. che i figli di pezza siano una roba carina;

2. che una persona possa seriamente scegliere di entrare a far parte di un clan di pulciose bambole di stoffa;

3. che una persona come me possa accettare di essere derubricata a pupazzetto per infanti;

4. che una persona come me possa accettare di venire dopo Edoardo Castelli!

Il discorso è surreale. E se l’era pure preparato!

Adesso è Adele a percepire dal colore e dal taglio che hanno preso i miei occhi che il suo script non ha sortito i risultati sperati.

“Non vuoi essere una figlia di pezza?”

“No, grazie.”

“Guarda che io amo molto i miei figli di pezza.”

“No, grazie.”

“Guarda che loro mi sono affezionatissimi e ci sentiamo spesso.”

“No, grazie.”

Adele sospira. Si abbandona all’indietro sulla sedia come una marionetta.

“Giulia, questa è l’unica alternativa che ti posso proporre, lo capisci?”

Lo capisco. L’ho sempre saputo.

Chi si imbarca in un’impresa come questa non lo fa ignorando i rischi, le difficoltà, le percentuali di successo così esigue e le possibilità di fallimento così alte.

Lo fa come un fedele.

Perché la preghiera non cambia Dio, cambia l’uomo.

Perché l’amore non cambia l’oggetto d’amore, cambia chi ama.

“Io non sarò mai una figlia di pezza.”

“Questo mi rattrista molto.”

“E perché?”

“Perché non voglio che tu soffra.”

“Ma io non soffro.”

“Lo sai che non ci sarà mai niente tra noi, vero?”

“E tu lo sai che questo non cambia ciò che provo?”

“Col tempo lo cambierà.”

“Vedremo.”

“Io spero che col tempo cambi, perché altrimenti non potremo continuare a vederci.”

Fare a meno di te.

Come farò? Mi mancherai, quando sarò andata via, fuori da questo liceo e arriveranno altre classi, altri alunni, altri umani a metà, quando non avremo l’obbligo del calendario per mettere in comune il tempo, il luogo, il taglio dei capelli, il cambio di stagione, gli occhiali da sole, le notizie sul giornale, i caffè macchiati, l’acqua frizzante, le cene al Rotary e le elezioni perse, quando sarà difficile telefonare, mandarsi un messaggio e fissare un incontro al Caffè del Corso, non da sole, magari con Silvia e Alessandro, e raccontarsi che l’università è tutta un’altra cosa.

Mi mancherai, ma così non ti voglio.

Preferisco tenermi questo amore con tutti i suoi dissesti generazionali, sessuali e istituzionali piuttosto che incontrarti per strada ed essere chiamata gioia pensando che forse non ti ricordi il mio nome.

Va bene. Farò a meno di te. Col tempo imparerò. Ma mi tengo il mio amore perché è troppo bello e troppo grande per essere sprecato.

“Adesso devo andare, si è fatto tardi.”

“Va bene. Ci vediamo lunedì.”

Prima di andare però: “Posso riavere il mio quaderno nero?”

“No.”

“Come no?”

“Non te lo ridò.”

“Ma è mio.”

“No, è mio. L’hai scritto per me.”

“E che te ne fai?”

“Me lo rileggo tutte le volte che voglio.”