PRIMO

Avrei voluto che ci fosse un testimone. Avrei voluto che nell’abside della navata di destra ci fosse il coro dei Sette contro Tebe a osservare, discreto e silenzioso, lo svolgersi dei fatti sulla scena. Avrei voluto che ci fosse un faro di luce dall’alto, come nei quadri di Caravaggio, e tutto intorno un mare di buio da cui intuire, al di là del confine del palco, decine di coppie di occhi col fiato bloccato tra la gola e il petto, aspettando l’epilogo.

Avrei voluto che ci fosse un testimone, come negli incidenti stradali, dove tutto succede così in fretta che non lo sai nemmeno tu cosa ci fai con la fiancata sfondata e la schiena a pezzi sul ciglio di una strada. Qualcuno che arriva dal nulla e dice: “Io c’ero. Passavo di qui. Portavo a spasso il cane e ho visto tutto.”

Magari anche uno finto, uno di quei testimoni rimediati dalle assicurazioni per alzare il prezzo del risarcimento, che la racconta così bene, la storia dell’incidente, che alla fine è più vera del vero.

E ti ritrovi a usare i suoi dettagli, il suo punto di vista di spettatore del naufragio, dimenticando che sulla barca, a sentire l’acqua che sale dalle caviglie, non c’era lui, ma tu.

Che cosa è successo?

Io sono arrivata. Lei è salita in macchina. Siamo entrate in chiesa. Io le ho mostrato l’allestimento. Lei si è seduta sulla panca. Io mi sono seduta per terra. Lei mi ha detto prendi ciò che vuoi. Io ho scelto il retro del ginocchio. Poi siamo andate via.

No, Giulia. Non può essere andata così. Stai dimenticando qualcosa. Da capo.

Io sono arrivata. Lei è salita in macchina. Siamo entrate in chiesa. Io le ho mostrato l’allestimento. Lei si è seduta sulla panca. Io mi sono seduta per terra. Lei mi ha detto prendi ciò che vuoi. Io ho scelto il retro del ginocchio. Poi siamo andate via.

Sì, questo l’ho capito. Ma come ci siamo arrivate da “ti faccio vedere dove Filippo Galli ballava Jennifer Lopez” a “prendi qualcosa da portare via”?

Non lo so.

Come ci siamo arrivate dal pavimento della chiesa sconsacrata alla Citroën bianca dove siamo in questo momento, guidando verso casa?

Non lo so.

E soprattutto, perché nel momento in cui lei ci fa scegliere cosa portarci via come souvenir noi scegliamo di prenderci il retro del ginocchio?

In che senso?

Giulia, tesoro mio, è carina la cosa del retro del ginocchio, farà sicuramente un certo effetto quando lo racconteremo a Silvia e Alessandro, è una scelta originale, anche romantica, se vogliamo, ma santoddio, il retro del ginocchio? Potevamo scegliere la bocca, il seno, il fondoschiena…

Che brutto!

Come che brutto?

Non essere volgare.

No, scusa, come volgare?

Giulia, fammi capire, noi siamo state per due anni a dare il tormento a questa povera donna, le abbiamo detto vieni con noi, noi sappiamo cosa fare, noi siamo il massimo, noi siamo l’ideale, e per cosa?

Non lo so, non ci ho pensato. Mi ha colto alla sprovvista.

L’hai previsto, vero, che se le cose si mettono bene – e si metteranno bene, fidati – tra poco dovremo andare un po’ oltre il retro del ginocchio?

Mmm…

Ah, andiamo bene. Questa mi risponde mmm… Senti, lasciamo perdere, adesso le mandiamo un messaggino in cui le diciamo che abbiamo scherzato e che non se ne fa più niente. Poi chiamiamo Silvia e Alessandro e gli diciamo che stavamo giocando, che era la fantasia di una matta e la chiudiamo qui, ok?

No, no. Aspetta.

Aspetta.

Adesso ci penso.

Adesso ci inventiamo qualcosa.

Sono in macchina. Ho lasciato Adele sotto casa sua, davanti alla palma alta fino al cielo. Prima che io riparta lei si gira, si abbassa dentro il finestrino e mi dice: “Fammi sapere quando arrivi a casa.”

È la prima volta.

Che tra noi due ci sono anch’io.

***

Qualche tempo fa ho scritto un racconto, si chiamava L’uomo che faceva l’amore vestito. È la storia di un uomo che nella vita vuole solo dare, senza mai ricevere niente in cambio.

All’inizio è amato e benvoluto da tutti perché tutti pensano che è una bellezza prendere senza dover ricambiare. Pensano che è una bellezza avere uno che fa i peggiori turni sul lavoro, uno che lo mandi a comprare i regali per la tua ragazza, che ti offre la cena quando non sei passato al bancomat, uno che a letto quando vai per slacciargli i pantaloni ti dice no grazie e poi pensa a te.

All’inizio l’uomo che faceva l’amore vestito aveva un sacco di amici, una marea di donne, e vinceva sempre il premio di dipendente del mese.

Ma essere collega dell’uomo che fa l’amore vestito dopo un po’ ti fa sentire un coglione, perché lui è come una macchina, lui non sbaglia mai, lui non ha mai bisogno di niente, lui non si ammala, non chiede un permesso, nemmeno una proroga, lui è perfetto. E tutti gli altri invece no.

È faticoso anche essere amico dell’uomo che fa l’amore vestito perché si alza mentre stai ancora mangiando e va a pagare il conto e ti fa sentire un poveraccio, perché quando hai avuto un’idea per il regalo di Michela lui ha già fatto tutto, l’ha preso, incartato e pure inviato. I regali preferisce non consegnarli di persona.

Dopo un po’ si stancano pure le donne. Perché sono belli gli orgasmi, sono belle le premure e sono belle le attenzioni. Ma l’uomo che fa l’amore vestito non si spoglia mai. Non dorme mai da loro per non dover usare il bagno. Non dice dove abita per non ricevere sorprese. A letto decide tutto lui e sta sempre sopra. Vestito.

Un giorno una donna gli dice che è egoista perché tiene per sé tutto il piacere di dare piacere.

Lui resta di stucco, pensa che forse ricevere può essere bello, se riesce a fidarsi, se riesce a crederci allora anche ricevere può essere bello, anche ricevere per lui può diventare un piacere.

Allora si spoglia e per la prima volta si fa fare l’amore.

Quando alla fine lei chiede ti è piaciuto? dice di sì, ma mente.

L’uomo che faceva l’amore vestito una volta spogliato non ha sentito più nulla, però ha scoperto una cosa: far piacere a chi con piacere pensa di averti dato piacere è esso stesso un piacere.

***

È estate.

Le finestre sono aperte per far entrare il fresco.

L’aria condizionata ancora non c’è.

Ma si sta bene lo stesso.

È un caldo diverso.

Sono le nove e mezza. Abbiamo finito di cenare. Mamma sta lavando i piatti, sentiamo l’acqua scorrere dietro il tintinnio delle gemme di plastica colorata della tenda che divide cucinino e soggiorno.

Le gemelle sedute per terra finiscono un puzzle iniziato giorni prima, mio padre si è appena cambiato gli abiti da ufficio ed è in pantaloncini gialli, canottiera bianca, calzini beige e scarpe marrone coi lacci.

Sta seduto su una sedia bianca coi braccioli a mezzaluna perché il divano di stoffa butta calore. Tra poco mia madre gli chiederà se vuole uscire a fare due passi, arrivare allo stabilimento, prendere un gelato e tornare indietro per le undici, undici e mezza massimo perché non è ancora agosto e domani lui lavora.

Ha poco tempo, forse ancora qualche minuto, prima che la bava di sapone sgoccioli via dall’ultimo piatto pulito nel lavello, e in quel lasso di tempo deve trovarsi qualcosa da guardare in tivù per poter declinare l’invito e restare in déshabillé fino al sonno.

Prima un passaggio rapido sulle reti canoniche, dove non c’è mai niente perché la politica è in vacanza e d’estate le emittenti serie non azzardano format costosi e prime tivù. Poi inizia la vera avanscoperta, attraverso pittoresche improbabili reti private dove tra sgargianti televendite e arrangiati talk show qualcosa di buono si trova sempre.

“Questo è un colosso,” dice allora mio padre a voce alta per farsi sentire fin nel cucinino. Mia madre esce tra le gemme di plastica e si para minacciosa davanti al teleschermo: “Ma che è ’sta roba?”

’Sta roba in genere è una qualunque pellicola sgranata in cui compare un cavallo, un deserto o una pistola, una qualsiasi commedia di varietà, spesso con protagonista il principe Antonio De Curtis, oppure vecchi classici del genere noir come Gilda o La fiamma del peccato.

“Ma l’avrai visto cento volte!”

“Sì, ma non me lo ricordo.”

“Quindi stasera non usciamo?”

“Perché, tu vuoi uscire?”

“Se volevo restare a casa potevo starmene anche in campagna.”

“Ma questo è un colosso.”

A quel punto mia madre smette di replicare e se ne va. E sappiamo entrambi, mio padre e io, che ha circa sessanta secondi per alzarsi, andare in camera, rinfilarsi i pantaloni sopra i calzini e la camicia sopra la canotta, perché se mia madre fa in tempo a spogliarsi e prepararsi per la notte allora è la fine.

“Tu non esci?” mi chiede cercando solidarietà.

“No, io resto a guardare il colosso.”

“Brava, così poi mi racconti.”

E mi lancia il telecomando mentre se ne va.

E così, una sera d’estate, tra Telemontecarlo e Odeon Tv incontro Humphrey Bogart, ed è subito colpo di fulmine.

Forse perché lui è il tipo di uomo che, se io fossi donna, non potrei fare a meno di innamorarmene, come dice il capitano Renault in Casablanca.

E io sono d’accordo con lui.

Perché al mondo esistono due tipi di persone, i Victor Lazlo (o i William Holden in Sabrina) e gli Humphrey Bogart.

I Victor Laszlo sono alti, biondi e con gli occhi azzurri. Fanno i rappresentanti di istituto, vincono le gare di nuoto e hanno sempre al fianco la tipa più carina.

Gli Humphrey Bogart invece non fanno sport, non vanno alle feste, non spiccano per bellezza e nemmeno per savoir-faire, ma ascoltano tanto, osservano molto e capiscono tutto.

Se salvano il mondo nessuno lo sa.

Se si fanno Ingrid Bergman nessuno lo sa.

Tranne loro.

E questo gli basta.

Mio padre è un tipo alla Bogart.

E mi piacerebbe da grande esserlo anche io: il tipo di uomo che, se io fossi donna, non potrei fare a meno di innamorarmene.

Anni dopo guarderò Provaci ancora, Sam e non mi piacerà affatto.

***

Da qualche mese Adele non sta più nell’ufficio odoroso vicino alla sala professori.

Da qualche mese l’hanno spostata in una stanza più grande con le pareti azzurre spugnate e qua e là qualche farfalla pastello.

Nella stanza azzurra c’è spazio per due scrivanie. La prima, appena entri sulla destra, è la sua.

È grande, bianca, ricoperta di fogli, cartelline, libri, fotocopie, penne e matite. C’è lo schermo di un computer, la tastiera, qualche bicchierino di carta sporco di caffè, un pacchetto aperto di sigarette e un posacenere vuoto, trasportato da un ambiente all’altro ma non più utilizzato perché nella nuova stanza non ci sono finestre e anche se ci fossero non potrebbe fumarci perché adesso è cambiata la legge e negli spazi pubblici nessuno fuma più.

“Sono sicura che se tu ci fumassi non ti direbbe niente nessuno,” le ho detto una volta.

“Non è questo il punto. Noi non facciamo le cose perché non vanno fatte, non per paura della sanzione.”

Nella seconda scrivania in fondo alla stanza, parallela alla porta, non c’è mai nessuno.

Dovrebbe starci almeno una volta al mese una psicologa, a nostra disposizione per tutto il giorno, nel caso ne avessimo bisogno. È lei che ha voluto che la stanza fosse ornata come la versione infantile di un cielo di Monet. Ma non viene mai. La sua scrivania è spoglia, non c’è nemmeno il computer. Ogni tanto ci si appoggia la Tiberi a correggere i compiti d’italiano aspettando Adele per andare via insieme.

La porta della stanza azzurra è grande, bianca con un maniglione nero e rosso come quelli delle uscite di emergenza. Quando si apre fa prima un rumore sordo e poi sibilante, come le porte degli autobus quando si fermano.

La porta si apre in due movimenti distinti:

1. ptuf (il maniglione che si abbassa);

2. ssssswwwiiissshhhhh (qualcuno che entra).

Quando busso alla porta della stanza nuova Adele non mi sente quasi mai perché la porta è di metallo e isola tutto quello che c’è dentro da tutto quello che c’è fuori.

Busso di nuovo, ma non molto più forte, perché potrebbe avermi detto avanti e io potrei non aver sentito, oppure potrebbe aver detto un attimo e io potrei non aver sentito.

Appoggio l’orecchio per provare a cogliere un suono. Niente.

Allora abbasso piano la maniglia cercando di smussare solo un po’ la separazione tra i due ambienti e sbirciare dentro come facevo prima, ma niente. La porta della nuova stanza non conosce mezze misure.

Se fai solo ptuf sei ancora fuori, se fai un poco ssssswwwiiissshhhhh sei subito dentro.

Allora ptufssssswwwiiissshhhhh.

La sua scrivania è disposta in modo tale che vedi subito se c’è o non c’è. Poi vedi se c’è qualcuno davanti a lei. Poi vedi se c’è qualcuno nel resto della stanza.

Apro la porta e vedo che c’è. Bene.

Continuo ad aprire e vedo che è al telefono. Meno bene.

Continuo ad aprire e vedo che ha qualcuno in piedi davanti a lei. Male.

Continuo ad aprire e vedo la Tiberi seduta alla scrivania della psicologa. Malissimo.

Istintivamente curvo le spalle e abbasso la testa come se farmi più piccola mi rendesse invisibile, indico la porta e imito l’uscita incontrando l’approvazione delle altre due donne ma non quella della padrona di casa, che intercettando il mio sguardo mi fa cenno di entrare, alza il dito indice e con le labbra scandisce “uno” a indicare il tempo di attesa.

Non vorrei, ma entro.

Accosto la porta alle mie spalle.

Ssssswwwiiissshhhhh. Ptuf.

E mi metto in fila, aspettando il mio turno.

Adele chiude la telefonata e ascolta la segretaria con i fogli, in piedi davanti al suo tavolo, che comincia a parlare di bandi, date e scadenze. Sembra una cosa lunga.

Lo stipite della porta. La libreria grigia. L’angolo azzurro con una macchietta bianca sfuggita alla tintura. L’appendiabiti. Il poster di Kandinskij. La scrivania della psicologa. La Tiberi che mi guarda sopra gli occhiali da lettura. Il malloppetto dei compiti arrotolati. La parete azzurra. La scrivania di Adele. Le spalle della signora Katia. Le mani di Adele sui fogli e di nuovo lo stipite della porta.

Percorro un paio di volte il perimetro della stanza con lo sguardo, poi Katia riprende i suoi fogli, Adele la ringrazia, Katia la saluta, fa due passi indietro poi ssssswwwiiissshhhhh, ptuf ed esce.

“Siediti, cocca,” mi dice Adele dedicandosi a me.

Cocca?

Circumnavigo la poltroncina di pelle e mi siedo.

“Dimmi tutto,” continua, si sporge in avanti e poggia i gomiti sul tavolo.

Io alzo un sopracciglio, piego un angolo della bocca, stiro un mezzo sorriso.

“Ehm…”

“Mi volevi parlare di qualcosa?”

Questa è scema, penso, cercando di chiedere al mio cervello di intervenire quanto prima e approntare una qualunque risposta.

Ma come, volevi parlarmi di qualcosa?

Sì, volevo parlarti di ieri mattina quando stavamo per fare sesso sul pavimento di una chiesa sconsacrata e volevo chiederti se anche tu avevi avuto questa impressione oppure era solo frutto della mia fantasia.

Che dici? Ti sembra un valido argomento di conversazione?

Magari lo chiediamo anche alla Tiberi e vediamo che cosa ne pensa.

Eh?

Mentre succede tutto questo Adele ha abbassato gli occhi per controllare qualcosa sul telefono e la Tiberi, dimostrando una sensibilità e una capacità di lettura delle situazioni superiore a quanto mi sarei aspettata, raccatta le sue cose, si alza e rivolgendosi solo ad Adele dice: “Allora io vado che tu hai da fare. Ci vediamo domani.”

“Va bene, Flavia, scusa, ti chiamo dopo.”

Ssssswwwiiissshhhhh. Ptuf.

Questa è proprio scema.

Ma che le passa per la testa?

Io non mi faccio trattare così. Se pensa che può fare come le pare si sbaglia di grosso.

Io non sono una bamboletta.

Ho una dignità. I miei sentimenti hanno una dignità.

E mentre mi sproloquio addosso a braccia conserte, lei finisce di inviare il messaggio che stava scrivendo, mi guarda, sorride e dice: “Sono felice che sei qui.”

Splash.

È il rumore che fa un corpo quando si scioglie.

***

“Sono felice che sei qui.”

“Dove altro potevo essere?” rispondo.

Da qualunque altra parte del mondo. Potevi essere sulla strada verso l’autobus con Silvia, per esempio.

“Come stai?” mi chiede appoggiandosi allo schienale della poltrona che dondola un po’.

“Bene,” dico subito, come un riflesso condizionato. Poi mi fermo, rallento. “E tu?”

“Ho riflettuto molto su quello che è successo e su quello che poteva succedere.”

TumpTumpTump.

Ho il rumore del cuore nelle tempie.

“Ripensamenti?” trovo la forza di chiederle.

“No.” Alza gli occhi, come se stesse riascoltando dentro l’eco della stessa domanda, poi torna giù. “No, non credo. Ma penso che potresti averne tu.”

“Io?” Di nuovo troppo in fretta.

Come posso avere dei ripensamenti io?

L’ho messa in piedi io, questa cosa. Certo che non ne ho.

È proprio ciò che voglio. O no?

“Lo so che è quello che dici di volere. E io ti credo. Ma a volte succede che quello che desideriamo e quello che poi otteniamo non sempre coincidono. Può capitare che le fantasie non siano all’altezza della realtà, che pensiamo di volere fortemente una cosa ma poi quando ci siamo dentro ci rendiamo conto che siamo incappati in qualcosa di più grande, che non sappiamo controllare. Non ci sarebbe niente di male.”

Hai ragione. Mi sono spaventata. Quando ho capito che qualcosa stava per succedere mi sono pietrificata. E infatti avrei potuto baciarti, ti sarai accorta anche tu che poteva succedere. Ma non è successo. Anche se ho sempre pensato, non chiedermi perché, che tra di noi ci sarebbe stato qualcosa, che c’era qualcosa di speciale, non ho mai preso in considerazione di dover passare dalle parole ai fatti. Questo non vuol dire che mi sto tirando indietro, nemmeno che provo un’oncia d’amore in meno di quanto ne provassi prima. Significa solo che ho paura. E ho paura che se ti accorgi che ho paura poi ti spaventi anche tu e ci ripensi. Allora fingerò di conoscere la strada anche se andrò a tentoni, fingerò di sapere sempre tutto anche se da qui non so più niente, fingerò che non mi spaventino a morte il tuo corpo, la tua pelle, la tua bocca, le tue gambe, la tua vagina.

Fingerò di averne una gran voglia, di non poter più aspettare, di non pensare ad altro, e invece no.

Resta lì. Resta ferma e non toccarmi.

Perché io posso anche capire come funzioni tu, ma ho paura che tu ci metterai molto di più a capire come funziono io.

Questo. Questo mi spaventa.

Avrei dovuto dirti questo.

Invece.

“Nessun ripensamento. Anzi, non chiedo altro.”

Mi siedo sulla scrivania vuota della psicologa.

Adele guarda l’ora mentre si alza dalla sua, di scrivania.

“Fino a quando puoi restare?”

“Ancora un po’.”

Si avvicina alla porta della stanza e per la prima volta la chiude a chiave, poi si avvicina piano a me.

Io allargo le gambe per farle posto.

Provo a guardarla, ma è così vicina che mi dà fastidio agli occhi. Abbasso la testa, ma c’è la sua. Non ho spazio. L’ha invaso lei.

Si fa un po’ indietro. Mi guarda seria e dice: “Vuoi ricevere il tuo primo bacio?”

Come fa a sapere che è il mio primo bacio?

Non distrarti, non adesso. Rispondile.

La voce non esce. Faccio sì con la testa.

Lei mi avvolge.

Sento le labbra. Morbide.

Sento le due file di denti. Duri.

Sento il suo naso che sbatte contro il mio.

Poi sento la lingua cercare e non trovare la complicità di una condivisione intima.

Si ferma. Si stacca. Sorride. Mi dà una carezza sulla guancia e se ne va.

Uno schifo.

Probabilmente il peggior bacio della sua vita.

Probabilmente il peggior bacio della storia.

Sono paralizzata. Non ho mosso niente. Il corpo sente distintamente gli ordini del cervello, ma niente, non reagisce.

Paralisi totale.

Come un aereo in caduta, cerco di riprendere il controllo.

Analisi della situazione.

Zoom. Su Adele. Cosa vedi?

1. Sorrisetto. Interpretazione: delusione delle aspettative.

2. Sguardo basso. Interpretazione: imbarazzo, rimorso.

3. Ritorno dietro la sua scrivania: ritirata, dietrofront.

Responso: la stiamo perdendo.

Occorre reagire subito, se esce dalla stanza con questa sensazione addosso la perdo. Bisogna invertire immediatamente la tendenza.

Bisogna imprimere un nuovo ricordo che annulli e cancelli il precedente.

Dopo questo casino non permetto che vada tutto a puttane per un inutile, stupido bacio.

Scendo con un saltino dalla scrivania, vado diritta a passi tesi verso Adele, che nel frattempo ha spento il computer, rimesso le cose in borsa e sta per aprire la porta.

Ptuf.

“Aspetta.”

La blocco contro la parete.

“Fammi riprovare.”

Sorride e so che sta per dire lascia stare.

Allora la bacio.

Il cervello riprende il controllo del corpo.

Occhi: chiudete le palpebre.

Testa: piegati a sinistra, visto che lei ha virato a destra.

Gambe: portate avanti un ginocchio e infilatelo tra le sue gambe.

Bacino: appoggiati a lei.

Mano sinistra: resta sul suo fianco destro.

Mano destra: sali in alto, fino al collo, e prendile la gola, sotto il mento.

Labbra, lingua: imparate a nuotare.

Il bacio dura a lungo, fino a quando non sento la tracolla della borsa di Adele scivolarle dalla spalla e cadere a terra.

Mi scosto.

La guardo.

Sospira.

Mi guarda e dice solo:

“Cazzo.”

È la prima volta che la sento dire una parolaccia.

Ssssswwwiiissshhhhh.

Ptuf.

***

Stiamo insieme da circa dieci giorni.

Abbiamo iniziato a contare dalla domenica mattina nella chiesa sconsacrata.

Era il primo aprile 2001.

Io sono nata il primo febbraio, tu il primo ottobre. È una bella coincidenza numerica.

“Tu sei il mio primo amore,” dico io. “Però io non sono il tuo.”

“Non è importante essere il primo. È più importante essere l’ultimo.”

“Allora per me sarai il primo e l’ultimo.”

Lei non risponde e sorride.

Adele vive ancora con i genitori, così rubiamo spazi di intimità in rifugi di fortuna, come se fossimo entrambe adolescenti.

Abbiamo il suo ufficio al liceo, la Citroën bianca e il suo studio a casa, dove vado a fingere di prendere ripetizioni, ma dobbiamo stare attente perché sua madre ha l’abitudine di entrare senza bussare per offrire succo di frutta/tè/caffè e biscotti. Adele le urla come farebbe una ragazzina che lotta per i suoi spazi vitali, le dice che deve imparare a bussare e che se ci serve qualcosa saremo noi a chiederlo.

La madre si fa piccola piccola, non risponde agli attacchi verbali e se ne esce camminando all’indietro, come una domestica sgridata.

È vero che non ha bussato, è vero che ha interrotto la lezione, ma in fondo è così che fa da sempre, dai tempi di Edoardo Castelli, è solita entrare a fare quattro chiacchiere con gli alunni speciali di Adele, i randagi che porta a casa per salvarli dalla strada, dalla vita, da loro stessi. Li ha sempre conosciuti e condivisi perché anche lei era un’educatrice, anche lei è stata professoressa di lettere ed è stata amata dai suoi ragazzi come adesso è amata Adele, e la condivisione di questo talento le ha sempre tenute legate.

Adesso non più.

Adesso deve rispettare la sua intimità. Adesso deve bussare a casa sua e chiedere permesso.

Non capisce, ma lo rispetta.

Questa Giulia evidentemente è diversa. Questa Giulia evidentemente richiede una dose di tatto che finora non era mai servita.

Chissà che cosa avrà di speciale, si chiede tornando indietro, verso la cucina, con i bicchieri puliti e il piattino pieno di Gentilini sfusi.

Mi mettono a disagio queste scenette tra Adele e sua madre. È eccessiva la violenza nel tono con cui Adele allontana quella signora gentile, è eccessiva la difesa di una zona che seppur intima non è proibita, è eccessiva l’opposizione al contatto tra i due mondi, come se io e sua madre fossimo due agenti chimici di cui si teme la reazione ipotizzando il peggio.

Mi piacerebbe fare due chiacchiere con la signora Lia, farmi conoscere, farmi apprezzare, provare a rendere normale la mia presenza in casa loro e non essere percepita come un corpo estraneo, come una fonte di stress da contenere e rimuovere.

Ma è la casa di Adele, lo studio di Adele, la madre di Adele e ognuno gestisce i suoi affari famigliari come meglio crede.

Un giorno sono seduta sulla poltrona di velluto verde bosco dello studio. La poltrona è a destra della porta. Non la vedi subito, devi proprio girarti. Davanti alla porta c’è la scrivania e tutto intorno librerie a coprire le pareti.

Io sono seduta sulla poltrona, Adele ha poggiato un cuscino per terra e si è messa in ginocchio, ha allungato la testa sulle mie gambe e sta lì a cercare di spiegarmi quanto sia irreale per lei questo stato emotivo. “Ma com’è che io ti adoro?” dice, più a se stessa che a me.

In quel momento entra sua madre, va dritta con gli occhi a cercare Adele al centro della stanza, dove sta la scrivania vuota, e non trovando corrispondenza sposta lo sguardo.

Nella frazione di secondo che la signora Lia impiega per roteare gli occhi, Adele si alza scomposta facendo perno sui gomiti, poi sui polsi e infine sulle gambe, si getta con un movimento sgraziato verso il centro della stanza e finisce in piedi come alla conclusione di un esercizio ginnico malriuscito, ma comunque portato a compimento.

Senza parlare, la signora Lia si volta verso di me, che sono rimasta immobile, seduta sulla poltrona come su un trono mentre la figlia saltella per la stanza, e quello che pensa glielo leggo negli occhi: “Ma chi sei tu?”

Il tipo di uomo che, se io fossi donna, non potrei fare a meno di innamorarmene.

***

Stiamo insieme da circa venti giorni.

Non ne abbiamo parlato, ma sappiamo che succederà oggi.

I genitori di Adele sono andati al matrimonio di un cugino di secondo o terzo grado. Sarebbe dovuta andare anche lei, ma all’ultimo momento ha trovato una scusa ed è rimasta a casa.

È diventata capricciosa, ultimamente, hanno pensato i signori De Angelis salendo sul taxi che li porta in chiesa; passerà.

È domenica mattina. Ho detto ai miei genitori che vado alle prove, ho detto a quelli delle prove che sono con i miei genitori.

Ho parcheggiato lungo la strada. C’è il sole. Fa caldo. Le ombre degli alberi da decoro nei giardinetti dei palazzi striano la via mentre cammino fino al portone di Adele.

Citofono. Mi apre senza chiedere chi è.

Quando entro mi bacia subito, come fosse una pratica da svolgere e accantonare. In corridoio non ci baciamo mai, solo di rado, prima di uscire, velocemente, sulla porta.

Stavolta invece siamo sole e possiamo baciarci in corridoio tutto il tempo che vogliamo.

Guardo le porte color crema lungo il corridoio: quella di fronte è della camera di Adele, l’altra, quella verso la cucina, è della camera dei genitori. Lo so, ma non le ho mai viste. Nessuna delle due.

Anche oggi le porte sono chiuse, la casa è buia, le luci spente, il sole entra dalle tende tirate. Sotto le finestre aperte passa un po’ d’aria che muove fili di luce sul pavimento di marmo come alghe su un fondale marino.

Adele mi sospinge verso il salotto, dove è accesa la tivù, ma a volume bassissimo, quasi impercettibile. Ci sediamo sul divano.

“Vuoi qualcosa?”

“No, sto bene.”

“Un caffè, un tè, dell’acqua?”

“Sì, dell’acqua.”

“Te la porto.”

“Va bene, grazie.”

Bevo un sorso d’acqua infinitesimale, il livello del liquido non scende di un millimetro. Non avevo sete, era solo un gesto qualunque per riempire lo spazio.

Il tempo passa e anche se abbiamo più o meno tutto il giorno non è che abbiamo davvero tutto il giorno.

Siamo qui per un motivo. Siamo qui perché avvenga.

“Andiamo in camera tua?” le chiedo.

“No, restiamo qui.”

La sua risposta mi confonde.

Ok, restiamo qui.

Mi siedo composta e guardo la tivù.

C’è un programma sugli agrumi siciliani. Limoni grandi come teste di bambini.

Adele prende il telecomando e spegne la tivù.

La guardo infastidita. In camera no, la tivù no, quindi? Che dobbiamo fare?

Lei si alza e si toglie le scarpe.

Poi si toglie la maglia a righe bianche e rosse con tre bottoncini dorati sulla spalla. Poi si toglie i pantaloni blu.

È alta. Me ne accorgo adesso per la prima volta. Per essere una donna è alta. Ha il corpo di un’atleta anche se non ha mai fatto sport. Ha il seno piccolo e sceso. La parte dello sterno è lunghissima e un po’ esposta, quando la tocco si formano delle macchiette bianche che pian piano svaniscono come le orme bagnate sulla sabbia.

Ha le ginocchia a punta e il bacino un po’ largo, ma non tanto. Comunque più del mio. Come se ne fosse la custodia.

Ha piedi e mani grandi. Come il David di Michelangelo, che anche se non è perfettamente proporzionato è comunque bellissimo.

Sta in piedi. Biancheria nera. Si lascia guardare a lungo, sembra che aspetti un responso. Io mi alzo, la raggiungo e l’abbraccio.

Lei mi abbraccia, affonda il viso tra i miei capelli e la spalla.

È più alta di me di almeno dieci, quindici centimetri.

Non me n’ero mai accorta.

Si risolleva dall’abbraccio e porta con sé la mia maglia, tolta di colpo, come un cerotto.

Mi sbottona i jeans e li accompagna fino alle caviglie. Si accovaccia, mi fa alzare prima un piede e poi l’altro. Adesso siamo uguali, ma diverse.

Lei è più bella.

“Perché la tua pelle è liscia e la mia è porosa?”

“Perché la tua è giovane.”

Mi fa stendere sul divano che è di velluto verde bosco come la poltrona nello studio. Sopra, prima di sdraiarci, poggia un asciugamano grande da doccia. È scomodo, si sposta di continuo e mi graffia la schiena. Vorrei trovare un’altra soluzione, ma non è il caso, non è il momento.

Ultimiamo la svestizione. Sono nuda per la prima volta, e non mi piace. Ma è così che si fa, mi hanno detto. È così che dovrebbe essere fatto.

Penso che vorrei essere un ragazzo, per facilitare le cose a tutte e due, penso che forse tra un uomo e una donna è più facile capire il da farsi perché in fondo è una questione meccanica, di forze e di leve.

Vorrei essere un ragazzo per avere un’erezione e usarla come la guida luminosa nei cinema che serve per trovare il proprio posto in sala. Vorrei essere un ragazzo per conoscere l’istinto della penetrazione e non il terrore di essere penetrata.

Mi accorgo che io e Adele abbiamo la stessa paura.

“Non voglio farti male,” mi dice.

Allora resta fuori e io gliene sono profondamente profondamente profondamente grata.

Quando invertiamo i ruoli lei mi sussurra all’orecchio: “Vai dentro.”

“Non voglio farti male,” le ripeto, come lei ha detto a me.

“Tranquilla, non mi fai male.”

E in quel momento divento ragazzo.

L’uomo che faceva l’amore vestito una volta spogliato non ha sentito più nulla, però ha scoperto una cosa: far piacere a chi con piacere pensa di averti dato piacere è esso stesso un piacere.

“Sei stata bene?”

“Sì.”