MIA MADRE (II)
Rientro a casa che sono quasi le due e mezza, in televisione vanno gli ultimi cinque minuti di Beautiful, poi inizia Vivere.
“Come fai a guardare ’sta roba?” mi chiede mia madre servendomi il pranzo in cucina.
“Mi rilassa,” dico io.
Dopo una giornata a scuola, e prima di rimettermi sui libri, voglio staccare il cervello, e niente lobotomizza di più delle vicissitudini della famiglia Forrester.
Io tifo per Brooke perché è bellissima e deve combattere contro i pregiudizi piccolo-borghesi della famiglia bianca della high class americana. Lei, che viene dalla Valley e ha una laurea in biochimica, lotta strenuamente per il diritto di amare chi vuole, anche se fanno tutti parte dello stesso albero genealogico. Lotta per la libertà del corpo, per la libertà di esibirlo a ogni età, anche superati i cinquanta, facendo scandalo con la sua linea di lingerie tutta pizzi e merletti. Brooke lotta per il diritto di seguire il cuore, anche se la porta a sposare per diciotto volte lo stesso uomo in una città con una popolazione di quattro milioni di abitanti.
Brooke è una femminista rivoluzionaria che combatte contro i pregiudizi e la bigotteria.
“È una poco di buono,” chiosa mia madre, mettendo fine ai miei discorsi da pasionaria pop.
Mia madre sta dalla parte di Stephanie, che si oppone alla lussuria e ai facili costumi per mantenere il rigore morale della famiglia, che pensa che l’amore sia solo una forma romanzata di egoismo usato per giustificare ogni bassezza, per soddisfare ogni prurito e assecondare ogni istinto.
“Guarda che si può dire anche di no,” dice. “Uno nella vita si può anche sacrificare.”
Perché la felicità è un po’ come la libertà: la puoi perseguire finché non limita quella di qualcun altro.
Rientro a casa che sono quasi le due e mezza. Siamo sole. Mio padre mangia prima, le gemelle mangiano dopo. Mia madre officia tutti i turni, cronometrando tempi di attesa e di cottura affinché ogni pasto sia caldo e fragrante.
La televisione è accesa. Amber sta andando a bussare alla porta di Stephanie perché è incinta del giovane Rick e dopo che Brooke le ha intimato di stare alla larga dal figlio non sa a chi chiedere aiuto.
“E adesso come la mettiamo? Stephanie aiuterà Amber anche sapendo che è una poco di buono?”
Mamma non risponde, fa scivolare una matassa di spaghetti rossi dalla superficie liscia della padella al mio piatto e poi si volta, apre l’acqua del lavandino e ci annega sotto la pentola prima di infilarla nella lavastoviglie.
Mi arriva un messaggio sul cellulare.
Lo leggo: Già mi manchi. Sorrido. Appoggio il telefono sulla tovaglia, a faccia in giù.
Mia madre si volta, si asciuga le mani sul grembiule come il barista di un saloon e resta a guardarmi in silenzio. A braccia conserte.
Io, la testa alta verso il televisore sopra il frigo, finisco gli spaghetti e spigolo una decina di ciliegie nere, ingoiando la polpa senza masticare.
“Ma tu non mastichi?” mi aveva chiesto una volta, guardando le pennette scendere pressoché intere giù per la gola. Non ci avevo mai fatto caso. Allora avevo preso la forchetta, infilzato due pennette, e le avevo messe in bocca, le avevo spezzate a metà coi denti di dietro e poi deglutite.
“No, non mastico. Non mi piace come diventa il cibo in bocca.”
“Ma così non senti i sapori.”
È vero, ma sento la tenacia del pane, la fragilità delle verdure, la resistenza della carne e la perfezione liscia e rotonda delle ciliegie.
Intanto è iniziato Vivere.
Te l’ho mai detto che somigli a Fiorenza Marchegiani? Finisco di pranzare e ti chiamo, digito sul telefono.
Siamo felici.
Siamo felici e stupide come sono stupidi e ingenui i bambini che ridono e corrono ai funerali e negli uffici postali tra la gente in fila che seria e contrita pensa che arriverà anche il suo turno.
Siamo felici e sazie come sono felici e sazi i cuochi alla fine di un pasto, perché in bocca sentono molto più del boccone: sentono il pizzico di sale e il taglio della lama, sentono gli schizzi d’olio sul dorso della mano e il calore della fiamma che si irradia dal fondo dell’alluminio fino al manico di plastica.
Siamo felici e piane. Come sono felici e piani i corpi dopo aver molto amato e adesso, uno accanto all’altro, a guardarli da sopra, sembrano uguali. Livellati.
I nostri corpi non sono amati perché belli. Sono belli perché amati.
L’uomo felice è un uomo stolto.
La felicità ci ha rese vulnerabili, ci comportiamo come se amarci ci avesse reso ammissibili agli occhi degli altri, come se il miracolo prima ritenuto impossibile e poi invece accaduto non potesse che essere riconosciuto e accettato come tale: un fatto.
Ci comportiamo come se io e te ci fossimo sommate e sottratte in questa complessa matematica dei sentimenti e il risultato fosse un numero pari che va oltre me e oltre te generando noi. A chi importa se la somma di 100 è fatta da tanti +1 o da un secco 50 e 50?
Salgo in camera. Faccio già il numero per le scale. Passiamo al telefono gran parte del tempo che non passiamo insieme. Una comunicazione continua.
Entra mia madre.
“Ti richiamo.”
Poso il telefono sul letto e istintivamente lo sposto un po’ dietro la schiena, come un figlio davanti ai denti aguzzi di un cane.
“Dobbiamo parlare.”
“Dimmi.”
Ho paura. Mia madre ha la faccia tesa, i lineamenti sembrano affilati come quando c’è troppo vento o troppo freddo. Si fa forza. Si dà la carica da dentro, come il motore di una Vespa che non ha voglia di partire. Vorrei che quella forza non la trovasse, che la Vespa si ingolfasse e restasse lì abbandonata, sdraiata su un fianco, aspettando i soccorsi. Vorrei che se ne andasse.
Ma non se ne andrà.
“Giulia, io mi sono messa in mente una cosa. Ma spero che non sia così. Quindi sono venuta qui per chiedertelo perché sennò impazzisco. Quindi adesso tu mi devi dire la verità. Mi devi dire se le cose stanno come penso io o se mi sbaglio. Mi sbaglio?”
Mi passa per la mente di dirle sì, di dirle che si sbaglia. Qualunque cosa pensi di aver capito ha capito male, è tutto un malinteso, un banale errore di comunicazione. Penso che potrei inventare velocemente una storia, penso che crederebbe a tutto pur di essere rassicurata, pur di ricevere in cambio una qualche versione credibile e rasserenante della verità.
Potrei farlo.
Ma poi? Poi cosa succederà domani, o tra un anno, o tra dieci?
Ciao, mamma, ti ricordi quando ti ho detto che ti sbagliavi? Be’, in realtà non ti sbagliavi, in realtà era tutto vero. Allora che faccio, rimando il problema solo di qualche tempo? E dove la trovo poi la forza per riaprire la questione, per riprendere l’argomento una volta che è chiuso?
Oppure potrei rimandarlo per sempre. Potrei non riprenderlo più. Ma a che pro? Vivere una doppia vita per sempre, mentire su ogni chiamata o spostamento? Smettere di avere un legame vero e sincero con tutte le persone che amo? No.
E poi è sempre mia madre.
“No, mamma.”
Capirà.
“Non ti sbagli.”
Ma lei non capisce.
Chiude gli occhi. Si morde le labbra. Si piega un po’.
“Giulia, tu non ci puoi fare questo! Tu non mi puoi fare questo! Giulia, adesso tu mi dici che non è vero. Adesso tu la smetti subito. Adesso tu la smetti e ti rimangi tutto. E questa conversazione non è mai avvenuta.”
“Mamma, ma che dici? Ma io sono così. Mica posso smettere di esserlo. Io sono lesbica.”
“Non usare quella parola! Mi fa schifo! Non la voglio sentire! Tu non sei così. Io ti conosco. Tu sei confusa. Sei una ragazza confusa che è stata raggirata da quella. Da quella stronza. Ma io la denuncio. Io la faccio licenziare, anzi, la faccio arrestare. Io quella la rovino. Quella ti ha fatto il lavaggio del cervello.”
“Mamma, ma che dici? Sono io che le ho fatto il lavaggio del cervello semmai, lei nemmeno mi voleva.”
“Con una bambina! Si è messa a importunare una bambina. Ma che persona è? Ma tu non ti rendi conto che fa schifo? Che fate schifo? Quella è una vecchia e tu sei una bambina! Se lo sapesse tuo padre. Quel pover’uomo. Diventerebbe lo zimbello di tutti. Non ci pensi a tuo padre? Che è una persona conosciuta? Non ci pensi?”
“Mamma, ma che dici? Ma chi se ne frega del giudizio degli altri?”
“STAI ZITTA! STAI ZITTA, TI HO DETTO! NON TI VERGOGNI PER NIENTE?”
Poi si ferma. Si blocca. Guarda un punto oltre me, oltre il mio letto, da qualche parte tra la libreria e la porta, le scende una lacrima sottile come uno spillo che si incanala sulla ruga destra dal naso alla bocca.
“Tu eri una figlia perfetta. Sei la più grande delusione della mia vita. Tu mi hai ucciso.
Tu
oggi
mi
hai
ucciso.”
“Mamma…”
Mi si deforma la bocca nella sillabazione, il mento si aggrotta, gli occhi si allagano in un attimo.
Si alza dallo sgabello grigio sul quale era seduta. Si avvicina di due passi. Sta dritta come un’insegna.
“Adesso tu la chiami e metti fine a questa storia.
Poi non ne parleremo mai più.”
Mamma.
***
“Lo sapevamo che non poteva durare.
Ha ragione tua madre.”
Ho la testa conficcata nel diaframma di Adele, tra il seno e il ventre, come un chiodo in una parete.
Mi nascondo per non farle vedere che piango. Lo capisce dal movimento delle spalle. Da come escono le scapole mentre mi ci stringo dentro. Lo capisce perché faccio rumore. Non vorrei ma faccio rumore con la cassa toracica come le cicale. Non è un verso. È un suono. È un rigurgito sordo come la risacca del mare gonfio e calmo di fine settembre. È uno spasmo, il suono che fanno i panni prima di stenderli ad asciugare, quando sembra che si strappino e invece poi resistono.
Non l’ho chiamata come avrebbe voluto mia madre.
“Devo parlarle di persona,” le ho detto, “almeno questo.”
Ha acconsentito. Non di buon grado, ma ha acconsentito.
Al telefono ho finto.
“Stai bene?”
“Sì, sto bene.”
“Hai la voce strana.”
“È solo stanchezza.”
A fine scuola siamo andate da te.
“Dobbiamo parlare.”
Ti sei incupita subito.
Quando ti si spezza di netto la felicità te ne accorgi subito.
Ti ho raccontato tutto.
Tu hai ascoltato in silenzio.
Sembri arrabbiata. Hai il viso serio serio di quando ti arrabbi o stai per arrabbiarti.
Ho paura. Cazzo, ma possibile che io abbia sempre paura?
Ho paura che adesso urlerai, sbraiterai, ciecamente e furiosamente come quella volta che ero seduta sulla cattedra. Ho paura che mi sgriderai per non essermi comportata bene, per non essere stata adeguata, per non aver avuto rispetto. E avresti ragione.
Hai il viso serio serio. Diventi bianca. Ascolti tutto fino in fondo con il volto immobile come un pezzo di sale. Poi ti frana un lembo di labbro. Poi una palpebra. Poi una guancia. Poi il collo. Ti viene da piangere un po’. Come quando pensi a qualcosa di bruttissimo e diventi triste. Come quando pensi senza motivo alla morte dei tuoi genitori e inizi a piangere anche se lo sai che non sono morti, stanno bene e sono nella stanza accanto a guardare la televisione. Ma ormai è fatta, ormai è partito il pensiero atroce e non te lo levi di testa finché non hai pianto, ma pianto davvero, con i singhiozzi e le lacrime.
Ecco, Adele ha quella faccia lì.
GIULIETTA
Mio Dio, la mia anima ha cattivi presagi!
Mi pare di vederti, ora che sei così in basso,
come un morto al fondo di una tomba.
E se la mia vista non m’inganna, pallido sembri.
ROMEO
E credimi, amore, anche tu sei pallida ai miei occhi.
La tristezza asciuga, beve il nostro sangue.
Addio, addio.
Di chi mi guarda e mi vede distante come in fondo a una tomba. Come se da oggi, da questo momento, fossi morta io o fosse morta lei.
Perché è questo che succede quando due si lasciano. Succede che uno decide di morire per l’altro. Si spegne una luce che prima era accesa e resta al buio una porzione di spazio. La metà di un letto, di un armadio, di un abbraccio.
Hai la faccia seria seria e prima che inizi a piangere tu inizio io.
“Non so che fare,” ti confesso da dentro il tuo stomaco premuto forte sulla mia bocca.
Allora ti rimbocchi la voce, mi accarezzi come faresti con un animale impaurito e dici: “Lo sapevamo che non poteva durare.
Ha ragione tua madre.”
Io ti ascolto. E ti credo.
Lo sapevamo che non poteva durare.
Sì, lo sapevamo. È vero.
Se ci pensiamo. Se ci guardiamo da fuori. Se togliamo il sentimento e usiamo la ragione lo sappiamo che mia madre non ha torto.
Ti ascolto. Con la voce tremula ma ferma. Sento la tua mano lisciarmi il collo e mi rassicuro.
È vero. Lo sapevamo. Adele lo sa.
Che quello che è stato oggi finisce qui.
E non è colpa di nessuno.
“È stato un bellissimo bellissimo sogno.”
Bellissimo. Ma un sogno.
“Quindi adesso non piangere. Su, su, alzati.”
Mi raddrizza le spalle con due colpetti e mi asciuga la faccia con le mani.
“Andrà tutto bene. Adesso tornerai a casa e potrai dire a tua madre di stare tranquilla, che la sua vita è al sicuro e la vostra reputazione è salva.”
Mi sistema i capelli. Me li divide lungo la fronte e li mette in ordine dietro le orecchie.
“Io mi farò da parte e noi non ci vedremo mai più. Ma tu devi farmi una promessa. Mi devi promettere che non cederai a tutti i suoi ricatti, che non le permetterai di farti credere di essere sbagliata. Perché tu sei meglio di loro. Hai capito? Tu sei bellissima. E loro non lo vedono.”
Un singhiozzo. Una pausa.
“Loro non lo vedono come lo vedo io.”
Si allontana come per vedermi meglio, come per avere un’ultima volta una visione d’insieme. Mi passa una mano sulle guance.
“Come farò senza questi occhi da giapponese?”
Mi prende le mani, le bacia.
“Come farò senza queste manine di gommapiuma?”
Si porta i palmi al viso.
“Come farò? Come farò?”
Piange.
Io no. Io non piango più.
Le tolgo le mani dal viso.
Mi guarda.
“Non piangere.
Io non ti lascio.”
Mi cade addosso.
La stringo per rassicurarla, ma lei continua a piangere.
A lungo.
Rientro a casa.
Stremata.
Mia madre mi segue per le scale.
La ignoro. Proseguo.
“Hai fatto?” mi bisbiglia forte da sotto.
“No. Mi dispiace.”
Sono le tre di notte.
Sono salita presto in camera. Mi sono addormentata subito.
Trascino il lenzuolo nel sonno per accompagnare il movimento del corpo, ma il lenzuolo non mi segue. Mi sveglio, sento un peso alla base del letto.
Accendo la luce sul comodino.
“Mamma, ma che fai?”
Resta ferma, a guardare il vuoto. Ha gli occhi piccolissimi e gonfi.
“Mamma?”
“Ti prego,” dice di scatto, “ti prego dimmi che non ci sei stata insieme.”
“Mamma, ma che dici?”
Inizia a piangere, si copre il viso.
“Grazie a Dio,” la sento dire. E io non ho la forza di correggere.
Si alza dal mio letto lentissima. Va verso la porta. Tiro un sospiro di sollievo. Sta per sparire dal cono di luce dell’abat-jour, si volta e nella penombra dice: “Era meglio se stavi male.”
E se ne va.
Opzione numero uno: Era meglio se stavi male.
Perché un figlio malato è qualcosa per cui ti compatiscono, per cui gli amici fanno quadrato e la famiglia ti sostiene. Una figlia malata è una tragedia immane, ma non una fonte di vergogna o di umiliazione. L’omosessualità invece sì. L’omosessualità è motivo di pettegolezzo. Poi dalla malattia puoi anche guarire. Dall’omosessualità no.
Perciò era meglio se eri malata perché almeno sapevo come fare per aiutarti.
Opzione numero due: Era meglio se stavi male.
Perché una malattia sapevo affrontarla, ero naturalmente e culturalmente pronta per curare, nutrire, proteggere e accudire. Questo lo so fare. Stare le notti sveglia in ospedale, cambiarti la padella, cantarti una canzone per farti addormentare. Questo lo so fare. Ma affrontare la tua omosessualità no. Sono impreparata. Non so come comportarmi. E probabilmente sbaglierò.
Perciò era meglio se eri malata perché almeno sapevo cosa fare per aiutarti.
Il giorno dopo lo racconto ad Adele, che con le lacrime agli occhi dice che non glielo perdonerà mai.
In tutte le storie c’è un antagonista.
Madre, in questa mia storia l’antagonista sei tu.
Ma tu non sei solo questo.
Tu sei anche la donna che ha lavato i capelli a Pierluigi sul tavolo freddo di un obitorio.
Adele non ti perdonerà mai.
Io sì.
Scelgo la numero due.
Si alza dal mio letto, lentissima. Va verso la porta. Tiro un sospiro di sollievo. Sta per sparire dal cono di luce dell’abat-jour, si volta e nella penombra dice: “Era meglio se stavi male.”
Poi se ne va.
E solo in quel momento, da sola, ho pianto.
Mia madre.