GIRA, IL MONDO GIRA

Io pensavo che saresti tornata.

Non sapevo quando.

Ma pensavo che saresti tornata a prendermi, che avresti combattuto per me come io avevo combattuto per te.

Ma forse l’hai fatto.

Forse era quello il tuo modo di combattere.

Quel cadere piano piano piano davanti ai miei occhi era il tuo modo per dirmi salvami.

E invece io non ti ho salvata.

Ho salvato solo me.

***

28 luglio 2018. Sabato.

Sono al mare con Cristina, stiamo cercando un regalo per il compleanno di mia madre. È il regalo da parte dei fidanzati delle figlie, e tra Domenico e Andrea c’è anche la mia fidanzata, Cristina.

Sono le cinque, è ancora presto per la cena, ma in realtà è già tardi, perché faremo il barbecue in giardino e c’è da preparare la brace, salare la carne, tagliare e cuocere le patate di contorno, spellare e arrostire le pannocchie di mais, apparecchiare, allestire.

Io non faccio niente di tutto questo, non rientra tra le mie mansioni. Le mie mansioni attengono tutte al campo della comunicazione e delle public relations, perciò compro i regali, scrivo i biglietti, tengo compagnia a mia nonna, faccio conversazione con la badante rumena o polacca, non mi ricordo, rispondo ai messaggi di auguri che arrivano a mia madre su WhatsApp da parte di amiche e parenti.

Siamo al mare, dobbiamo comprare una bella cornice dove mettere una bella foto di famiglia, sono le cinque, fa caldo ma non così tanto, siamo già vestite per la sera, è una giornata piacevole, sarà una serata piacevole, come sempre in queste circostanze, mangeremo tanto e berremo vino rosso.

Ma io non ci sono.

Cammino parlo rido scherzo, ma non ci sono.

In fondo a via Orefici c’è un bel negozio di arredamento, non di quelli da quattro soldi che hanno aperto adesso dove trovi dal tostapane al divanetto di finta pelle alle sdraio da mare tutto a 19,99 euro. È il posto dove arrederei la mia casa se avessi abbastanza soldi per ricominciare da capo e poi da capo ancora.

Il negozio visto da fuori è al buio e sembra chiuso. Entriamo. È vuoto. La padrona, alla cassa, è sbrigativa e scorbutica, si fa forza dell’unicità della merce, si lamenta del malfunzionamento del Pos. Le chiedo una cornice di certe dimensioni e mi liquida con un superficiale “Non c’è”.

Intanto Cristina ha fatto un giro e ha trovato un portafoto che andrà benissimo.

Mi stranisco.

Mi stranisce la bellezza buia e immobile del negozio.

Mi stranisce la maleducazione di questa custode della cripta sciatta e respingente.

Mi stranisce che il suo Pos abbia problemi e mi tocchi andare a trovare un bancomat lungo questa via assolata.

Mi stranisce che la signora del negozio mi tratti come una pezzente perché non ho quarantacinque euro nel portafogli, ma solo venticinque.

Mi stranisce che le gemelle con i loro ragazzi siano già a casa con i miei genitori a darsi da fare, come tanti figli perfetti.

Mi stranisce che l’ultima volta che ti ho vista era in questa strada, davanti a questo cazzo di negozio buio.

E l’unica cosa che vorrei in questo esatto momento è che tu passassi ancora.

***

26 ottobre 2017. Giovedì.

Aspetto davanti alla Rinascente di piazza Fiume.

Sono qui da quindici minuti.

Dieci minuti il mio anticipo, cinque minuti il suo ritardo.

Gli mando un messaggio: Io ci sono.

Glielo mando non per sollecitarlo, ma per avvertirlo, perché in fondo siamo due sconosciuti e al di là delle foto profilo di Facebook potremmo non riconoscerci.

Faccio 10 minuti di ritardo, un problema con la Vespa.

Gira, il mondo gira

Nello spazio senza fine…

Scende dalla Vespa e lo riconosco subito.

Non so se lui mi riconosce, ma gli vado incontro, e questo lo aiuta.

“Ciao.”

“Ciao.”

Non ci presentiamo, non ci stringiamo la mano.

Lui ha un sorriso dolce, io non lo vedo, il sorriso che faccio, ma nella mia testa vorrebbe essere cameratesco, come due che hanno frequentato la stessa scuola e si ritrovano dopo anni.

È più magro di come sembrava in foto, vorrei dirglielo ma evito.

Ha le Adidas bianche, un giubbino di jeans abbottonato fino al collo e una borsa di pelle marrone tenuta a bandoliera.

“Scusa, ma mi si è staccato il parabrezza sulla Flaminia. Ho comprato un rotolo di scotch dal tabaccaio per tenerlo. Ci prendiamo un caffè?”

L’ho cercato io. L’ho rintracciato su Facebook e una notte in cui non riuscivo a dormire gli ho scritto un messaggio privato. Uno di quelli lunghi un po’ deliranti in cui speri di non sembrare né folle né allarmante. Mi ha risposto la mattina dopo, prestissimo.

Adesso ho una diretta da Montecitorio. Ti scrivo dopo.

Poi non mi ha più scritto.

Sono passati quasi dieci giorni.

Ipotesi e congetture sparse:

1. mi ha scritto d’istinto, poi ha capito di aver fatto una cazzata ed è sparito;

2. mi ha scritto subito, poi si è dimenticato ed è sparito;

3. mi ha scritto e ho ricevuto, poi mi ha riscritto e non ho ricevuto.

Non è mai la terza ipotesi, quella dei disperati che non capiscono che anche il silenzio è esplicito come la parola scritta e si attaccano ai difetti della tecnologia, ai singhiozzi della linea, al mancato recapito per non accettare il mancato reciproco.

Gli ho riscritto, ancora di notte, ancora tardissimo, col fuso orario degli insonni, e lui ha risposto scusandosi e rilanciando subito con un dove e un quando.

“C’è un bar qui vicino. Vieni, ti faccio strada.”

Il bar è molto piccolo, con il bancone addossato alla porta d’ingresso, ma ha uno spazio esterno grazioso, in un giardinetto ricavato tra il cortile dei palazzi signorili del quartiere Trieste. Una decina di tavoli di ferro battuto coperti da grandi ombrelloni di stoffa a quadrati bianchi.

“Io mangio qualcosa, che muoio di fame,” dice lui.

“Io no, sto bene così.”

“Allora io prendo un tramezzino e un’acqua tonica.”

“Io un caffè.”

Lo guardo bene mentre si sistema i capelli ancora arruffati dal casco, aggiusta la linea delle spalle del giubbino di jeans e trova una posizione comoda per allungare le gambe senza interferire con le mie.

Non è bello, Edoardo Castelli, ma capisco che ad alcune donne possa piacere. È uno di quegli uomini bambini alla Leonardo Di Caprio che sembreranno avere per sempre ventidue anni, ha lineamenti arrotondati e gommosi che la vita non ha scalfito né limato.

Il perfetto figlio di pezza.

“Scusa se ti ho scritto così dal nulla, ti sarò sembrata una matta.”

Lui scuote la testa come farebbe un grosso cane davanti a un tubo d’acqua. Ci mette un po’ a dire qualcosa perché intanto ha addentato un angolo del tramezzino e il pane spugnoso, reso viscido dal ripieno tiepido, gli impedisce di emettere suoni.

“No,” dice dopo aver deglutito, “mi sei sembrata una persona che aveva bisogno d’aiuto.”

“Ma tu lo sai chi sono io?”

“Onestamente no, ho capito che sei una persona legata ad Adele.”

“Lei non ti ha mai parlato di me?”

“Mmm, no.”

“Io sono stata la compagna di Adele per quasi dieci anni.”

Edoardo mi guarda mentre versa l’acqua tonica nel bicchiere stretto e lungo in cui galleggia il giallo del limone. Io cerco nel suo sguardo un accenno di stupore, un trasalimento. Ma niente. Resta impassibile, come se non ci fosse nessuna drammaticità nella frase appena pronunciata.

“Non lo sapevo. Immagino che non sia stato facile.”

“Niente affatto.”

Addenta un altro angolo di pane bianco.

“Non lo so nemmeno io perché ti ho cercato. Mi è sembrata una buona idea. Ma davvero non ti ha mai parlato di me?”

“No, mi dispiace.”

Ha un neo di maionese sopra il labbro. Mi sale un sentimento di rabbia e tenerezza.

“Lei invece di te mi parlava sempre. E io ero gelosa, perché tu eri il suo preferito. EDOARDOADORATOTUTTOATTACCATO ti chiamava. Una volta vi siete incontrati in Campidoglio. Tu eri lì per registrare un servizio, noi per vedere i Musei Capitolini. Vi siete visti per un saluto rapido in cima alle scale, sotto la statua di Marco Aurelio, lei ti è venuta incontro allargando le braccia e ti ci sei tuffato dentro. Avevi già il microfono in mano e il completo grigio da telegiornale. Ti ha stretto le guance e da dove ero potevo quasi sentirle dire quanto sei bello. Ti sei guardato addosso come fanno i bambini molto amati e poi vi siete staccati da un abbraccio lungo e sinuoso come sono lunghi e sinuosi gli abbracci tra le persone molto alte, che a guardarle da lontano sembrano punti esclamativi alla fine di una frase enfatica. Io vi osservavo. E sognavo il momento in cui mi avresti conosciuta e avresti saputo che non eri tu il suo preferito, ma io. L’ho immaginato a lungo, questo momento.”

“E non è come te l’aspettavi?”

“No.”

“Perché?”

“Perché a distanza di anni io non sono ancora nessuno e tu sarai per sempre il suo preferito. È ironico.”

“Non dovresti prenderla così. Da quello che mi dici anche tu sei stata importante.”

“Io SONO l’amore della sua vita e lei È l’amore della mia,” rettifico con decisione.

Edoardo si pulisce il neo di maionese con un fazzolettino di carta.

Intanto il cielo si è fatto nero all’improvviso e inizia a piovere.

“Non ho portato l’ombrello,” dico osservando le prime gocce che perimetrano il tavolo.

“Nemmeno io. Dovremo aspettare che spiova.”

“Hai fretta?”

“Non molta, e tu?”

“Non molta.”

Restiamo in silenzio ad ascoltare la pioggia che batte forte e minacciosa sulla tela bianca degli ombrelloni.

“Quando l’hai vista per l’ultima volta?” gli chiedo alzando il tono della voce per andare sopra il rullio dell’acqua.

“A fine agosto. Io stavo per tornare a Roma, e lei mi ha dato appuntamento in un bar vicino a casa sua al mare. Lo sapevi che aveva comprato casa al mare?”

“Certo.” Non è vero, non lo sapevo.

“E niente, ci vediamo in questo bar su via Cavour che adesso non mi ricordo come si chiama.”

“Caffè Mastroianni?”

“Sì, quello.”

È il mio bar preferito, penso.

“Stiamo lì, ci prendiamo un caffè e facciamo due chiacchiere. Poi l’ho accompagnata dal parrucchiere, ci siamo fatti una bella camminata perché stava al centro, verso la fine. Una bella sfacchinata davvero. E poi niente, ci siamo salutati. Io le ho parlato di Azzurra, mia figlia…”

“Lo so chi è Azzurra.”

“Sì, le ho detto che Azzurra ha fatto il primo anno del classico ma non si trova bene e volevo che ci parlasse lei. E poi niente, l’ho lasciata lì e me ne sono andato.”

“Ma lei come stava? Ti sembrava serena, felice? Com’era vestita, di che avete parlato?”

“Stava… stava bene. Com’era vestita non me lo ricordo. Aveva ricominciato a tingersi i capelli, li aveva biondastri, sì, tipo biondi. Era dimagrita, mi era sembrata un po’ dimagrita. Stava bene. Era più serena. Da quando era andata in pensione stava meglio, poi trasferirsi al mare le aveva fatto molto bene. Sembrava serena.”

Mi si gonfiano gli occhi, me li copro con le mani.

“Tu quando l’hai sentita l’ultima volta?”

“A giugno. Mi ha mandato un messaggio da Chicago con la foto di un quadro di Hopper che avevamo visto insieme a Roma tanti anni fa.”

“Ah sì, era tornata da un viaggio in America, viaggiava molto da quando era morta la madre. Era stata anche in Giappone.”

Mi aveva mandato una foto. Io non le avevo nemmeno risposto.

“Parlavamo di politica,” dico, riprendendo il tono della mia voce per la coda. “Avevamo commentato il fallimento del referendum, eravamo tutte e due molto preoccupate.”

Edoardo si sporge per intercettare lo sguardo del cameriere e si fa portare un caffè.

La pioggia non accenna a smettere.

“Tu sicura che non vuoi niente?”

“Prendo un paio di quei biscotti al cioccolato che ho visto in vetrina.”

Non ne ho voglia, ma la pioggia ci costringe a consumare.

“Sì, abbiamo litigato a morte per la storia del referendum,” prosegue Edoardo, “perché io le ho detto che avrei votato no e lei si è molto arrabbiata.”

“Tu hai votato no?”

“Eh, certo.”

“Ma stai scherzando?”

“No, perché? Io odio Renzi e odio il PD. Si meritano di perdere tutto e andare a lavorare nei campi.”

“Scusa, ma allora per chi voti?”

“Per i Cinquestelle.”

***

19 maggio 2001. Sabato.

Stiamo passeggiando per via Roma. Adele mi parla della sua preoccupazione per questo sdoganamento della figura dell’uomo forte, del pensiero comune eretto a giustizialismo, del consenso popolare sbandierato come diritto e non come dovere.

“Lo diceva ieri D’Alema in un’intervista. Io non lo perdonerò mai per aver fatto cadere Prodi, però gli riconosco una straordinaria efficacia nel linguaggio. Vincere le elezioni non dà il diritto di comandare ma il dovere di governare. Sono molto d’accordo, tu?”

Io la ascolto distrattamente e ripeto come un merlo ammaestrato, cresciuto a troppa tivù: “Non lo so, tanto sono tutti uguali…”

Lei si blocca sul passo che stava facendo, io proseguo. Poi, quando mi accorgo di essere sola, mi giro a cercarla.

Torno indietro.

“Che è successo?”

“Tu per chi voti?”

“Ma che domanda è?”

“È una domanda fondamentale.”

“La politica per me non è importante.”

“La politica è tutto.”

Indietreggia, fa per andarsene.

“Io non posso stare con te se la pensi così.”

E inizia a camminare nel verso opposto.

“Di sinistra! Sono di sinistra!”

La rincorro, la fermo.

“Fermati, sono di sinistra! Voto l’Ulivo.”

“Lo dici veramente o è solo per farmi contenta?”

“Lo dico veramente, la mia famiglia è tutta di sinistra. Ma io non ci capisco niente. Non me ne sono mai interessata.”

Lei sorride, si rasserena e torna a camminare nel verso giusto.

Ma adesso sono io a essere contrariata. A ogni passo sento salirmi la rabbia.

Inizio a camminare più veloce. Poi ancora di più. Poi ancora, fin quasi a correre. Stacco Adele, me la lascio alle spalle. Lei mi rincorre, mi raggiunge.

“Ehi, ma che ti prende?”

“Cosa prende a me? Cosa prende a te! Fammi capire, dopo tutto quello che c’è stato tra di noi tu mi avresti lasciata solo perché non voto quello che voti tu?”

“Certo.”

“Ma stai scherzando? Come puoi paragonare la forza di un sentimento, di una relazione, con uno stupido voto, con la politica,” lo dico in tono farsesco, per sottolineare il senso dispregiativo.

“Perché la politica è tutto, appartenere a un partito vuol dire riconoscersi in valori che sono fondamentali per me, per il mio modo di vivere e di pensare. Non potrei mai stare con qualcuno che non condivide il rispetto della persona, la fiducia nelle istituzioni e nella giustizia, la tutela dei più fragili. Non potrei mai stare con qualcuno che crede nell’esaltazione della furbizia e nella cultura del condono. Gli ideali non sono solo pensieri astratti, ma sono gesti reali, che si rispecchiano nella vita di tutti i giorni. Evadere le tasse, buttare la carta per terra, non rispettare le file sono tutti gesti che hanno a che fare con la politica, con un certo modo di intendere il rapporto con gli altri e con se stessi. Un voto non è solo un segno su una scheda, è un modo di vivere, lo capisci?”

Io l’avevo capito.

E in quel momento, mentre mi innamoravo ancora di più di lei, mi innamoravo anche della politica.

***

“Sì, abbiamo litigato a morte per la storia del referendum,” prosegue Edoardo, “perché io le ho detto che avrei votato no e lei si è molto arrabbiata.”

“Tu hai votato no?”

“Eh, certo.”

“Ma stai scherzando?”

“No, perché? Io odio Renzi e odio il PD. Si meritano di perdere tutto e andare a lavorare nei campi.”

“Scusa, ma allora tu per chi voti?”

“Per i Cinquestelle.”

Resto senza parole.

Edoardo Castelli, il prescelto, il preferito, il figlio perfetto della mia molto amata, vota per la forza politica che incarna tutto quello che Adele ha sempre combattuto e condannato.

Mi viene da ridere, da ridere forte, una risata isterica e senza senso. Edoardo mi guarda un po’ preoccupato e non capisce che questa immatura, immaginaria gara d’appartenenza, dopo tanti anni, l’ho vinta io.

Ripenso a tutto il tempo passato a essere gelosa, a invidiare il suo lavoro di giornalista, il suo status di intellettuale militante, il suo peso specifico di uomo fatto nelle conversazioni vere o mentali intraprese con Adele, per poi capire che, come molti figli, anche Edoardo crescendo ha tradito le aspettative materne.

Io invece no, io crescendo sono diventata proprio ciò che Adele voleva che diventassi: un’altra lei.

“Perché ridi?”

“Perché io e te non ci somigliamo affatto.”

“Non lo so, non ti conosco abbastanza per dirlo.”

“Lo so io.”

Sbriciolo uno dei due biscotti nel piatto mentre Edoardo beve il suo caffè in un unico sorso.

“Ti ho cercato perché voglio tornare a casa sua. Voglio riprendere delle cose mie, effetti personali. Una fede nuziale col mio nome, lettere, quaderni, disegni. Puoi aiutarmi?”

“Io non torno mai in città, ormai lì non ho più contatti con nessuno. Mi dispiace, non so come aiutarti.”

“Non importa, ci ho provato.”

Intanto continua a piovere, la tela degli ombrelloni si è gonfiata d’acqua, la pioggia inizia a bagnare le spalle di Edoardo. Non abbiamo più nulla da dirci. Se avesse smesso di piovere ce ne saremmo già andati.

“Forse sta spiovendo,” dico anche se non è vero.

“Ci proviamo?”

“Sì, proviamo.”

Ci fermiamo sotto la pensilina del bar a guardare l’acqua che non cala e non rallenta.

“Adesso che fai?”

“Torno al lavoro, qui dietro.”

“Io provo ad andare in palestra.”

“Da che parte abiti?”

“Gianicolense.”

“Dall’altra parte di Roma, ti bagnerai tutto.”

“No, ho la tuta antipioggia.” Edoardo guarda il cielo e poi la piazza di fronte, che altro non è che un grande incrocio intorno a un rudere. “Una volta Adele mi ha dato appuntamento lì, sotto quegli archi. Mi era sembrata una zona strana per incontrarci. Era per te?”

“Sì, era per me.”

“Ora ho capito.”

Edoardo fa due passi sotto la pioggia riparandosi con la cartella di pelle marrone.

“Se so qualcosa ti faccio sapere.”

Faccio sì con la testa. Ma non c’è nient’altro che voglio sapere da lui.

Edoardo Castelli.

Il mio figlioccio di pezza.

In fondo sei un bravo ragazzo.

Mi tolgo la giacca, mi copro la testa ed esco dalla pensilina del bar. Sotto la pioggia.

***

26 ottobre 2001. Venerdì.

Davanti alla Rinascente di piazza Fiume c’è un grande incrocio regolato da un semaforo.

Io sto al di qua della strada, dal lato della Rinascente.

Adele sta al di là, dal lato della banca e della fermata degli autobus.

È venuta a piedi da Castro Pretorio, dove è arrivata dopo tre ore di viaggio in pullman.

Ha il borsone leggero di Borbonese sulla spalla, trattenuto con una mano come fosse una sacca da ginnastica.

Ha gli occhiali scuri, i mocassini rossi, la giacca blu. Vedo il bianco brillante dei suoi denti mentre con le labbra scandisce un luminoso ciao.

Il semaforo diventa verde. Adele attraversa, mi raggiunge, si ferma.

Intorno alla bocca le si forma una doppia fila di fossette, ha i denti grandi come gemme, si sposta la frangia bionda dal viso, alza gli occhiali da sole per guardarmi meglio e dice: “Ciao.”

Io la prendo, le stringo i fianchi, affondo il viso nel suo seno e le comprimo forte la schiena. “Ciao.”

Intanto il semaforo è diventato rosso e poi verde e poi rosso e poi verde e poi rosso e poi verde e poi rosso e poi verde e poi rosso e poi verde e poi rosso e poi verde e poi rosso e poi verde e poi rosso e poi verde e poi rosso e poi verde e poi rosso e poi verde e poi rosso e poi verde.

Gira, il mondo gira

Nello spazio senza fine

Con gli amori appena nati

Con gli amori già finiti.