TUTTE LE DONNE DELLA MIA VITA
Trama da Wikipedia: Davide è un rinomato chef internazionale. Ma ha un unico grande difetto: la totale incapacità di legarsi alle responsabilità. Per questo motivo non ha mai voluto aprire un ristorante tutto suo, né tantomeno è riuscito a mantenere un legame stabile con nessuna delle donne che hanno attraversato la sua vita. Quando viene licenziato dal ristorante in cui lavora a causa della relazione con la moglie del proprietario, torna nella nativa Stromboli dove ha un incidente subacqueo. All’interno della camera iperbarica si trova a ripercorrere i momenti più importanti della sua vita, con le donne che ne hanno fatto parte. La madre, Diletta, una donna che si occupa di curare gabbiani e gatti. Monica, forse la donna più importante della sua vita, da cui Davide ha avuto il figlio Tommaso. Isabella, con cui da anni intrattiene un rapporto quasi esclusivamente epistolare. Stefania e le sue mille manie per riuscire a dimenticarlo. L’incidente a Stromboli lo fa riflettere sulle cose più importanti della sua vita. Dopo aver scoperto che il suo vero padre in realtà è un’altra persona, da cui ha ereditato tutta la sua creatività, Davide inizia a prendere per la prima volta le decisioni importanti, alle quali in passato si era sottratto: aprirà un ristorante tutto suo a Stromboli, dove è nato e dove ha passato l’infanzia, e sarà un padre più presente.
***
Le gemelle si sono trasferite a Roma nel settembre del 2004.
Mia madre avrebbe voluto metterci insieme, nello stesso appartamento, per ricreare il nido originario, per risparmiare, per usufruire di un punto di appoggio controllato e controllabile per eventuali visite, vacanze, ponti tra i giorni rossi del calendario.
Io non ho acconsentito.
Non volevo che a distanza di tre anni si ricreassero le tensioni del luogo originario dove sono e sarò per sempre il pezzo difettoso, l’errore di sistema, il tassello fuori posto.
A casa mia sono e sarò per sempre inadeguata e fuori luogo: io coi capelli corti loro coi capelli lunghi, io coi jeans loro con le gonne, io distratta e disordinata loro minuziose e precise, io goffa e pasticciona loro abili e preparate.
Mi sono rassegnata, non lo combatto più lo stereotipo nativo, ci convivo e adesso me ne avvantaggio.
Che senso ha darsi tanto da fare per smontare un mito se puoi trarne qualche beneficio?
Sono disordinata anche quando mi impegno con attenzione maniacale? Allora sarò disordinata e basta.
Sono pericolosa anche quando sposto un bicchiere perché potrebbe rompersi, infrangersi, cadere e diventare un rischio per me e per chi mi sta intorno (più letale delle pubblicità deterrenti sui pacchetti di sigarette)? Allora non sposterò nemmeno un bicchiere.
Ci ho fatto pace, con lo stigma.
Ci convivo, ma solo perché so che oltre l’inquadratura del quadretto famigliare, che dura da un minimo di due a un massimo di quindici giorni, c’è un’altra vita.
Nell’altra vita io sono una leader. Sono la persona da chiamare per risolvere problemi. Sono un buon elettricista, un discreto idraulico, una cuoca provetta e una responsabile massaia. Nell’altra vita io sono il centro di un universo multistrato che coinvolge le mie coinquiline, i ragazzi/amici delle mie coinquiline, i miei amici e compagni di università, e anche i docenti con cui collaboro.
“Ti circondi di persone talmente semplici che è facile spiccare,” replicano le gemelle quando provo a spiegare loro i motivi per cui non voglio incrinare il mio ecosistema mantenendo intatto il Giuliacentrismo che non serve solo a me, ma anche a tutta una serie di satelliti. Serve a Lucia, che sbanda e devia come un giunco di palude al vento, serve a Bianca che ha l’autostima sotto i piedi e legge manuali sul sesso fatto bene e l’arte della seduzione, serve a Ilaria che si annulla per le persone sbagliate, serve a Maria con cui condivido uno strano, simbiotico destino perché abbiamo la stessa età, facciamo la stessa facoltà, siamo entrambe omosessuali – e io in un giorno di febbraio tra molto molto tempo le ruberò quella che poi diventerà la mia compagna di vita.
Serve a tutti che io rimanga al mio posto, nella camera singola di via Tevere, coi mobili di legno intagliato dello studio medico del defunto marito della signora Rossi, dotata di una pulsantiera che fa illuminare le scritte “Avanti”, “Occupato” e “Attendere” sopra la mia porta, in memoria di antichi e moderni consulti.
“Ti circondi di persone talmente semplici che è facile spiccare,” replicano le gemelle, ed è proprio questo il motivo per cui rimarrò dove sono e non verrò mai a vivere con voi. Perché a voi non servo. Mentre a loro sì. E ho bisogno di avere intorno persone che di me hanno bisogno.
Alle gemelle ho trovato un bell’appartamento nuovo nuovo in viale Eritrea, a pochi metri dal bilocale di via Massaciuccoli dove è iniziata la mia avventura romana.
C’è tutto: i negozi, il cinema, gli autobus di cui avete bisogno, e a casa mia potete venire quando volete.
Convivere con altre ragazze farà bene anche a voi, vi farà crescere, vi aprirà la mente, farete esperienza di persone nuove, diverse da voi, da cui imparerete tanto, vi metterete alla prova con il senso del limite e saprete superarlo. Sarà bellissimo, vedrete.
Invece è un incubo.
Il resto dell’appartamento, un’altra camera doppia e la singola restante, viene preso in blocco da un gruppo di calabresi che trasformano la casa in una comune. Riempiono ogni spazio di provviste che vanno dalle centinaia di barattoli di conserva a ogni tipo di sottovuoto, hanno un enorme cane pastore tedesco che lavano nella vasca da bagno, e il suo pelo ottura puntualmente gli scarichi. Ospitano spesso amici che bivaccano tra la cucina e il soggiorno fumando e bevendo, e si appartano solo per consumare rumorosi amplessi anche nelle ore dedicate allo studio e al silenzio.
È un incubo.
Per loro che si lamentano C O S T A N T E M E N T E come fossero nel centro bombardato di Kabul, e per me, su cui a catena questa condizione di disagio ricade sia direttamente, visto che le gemelle hanno messo radici nel mio appartamento, sia indirettamente, perché i racconti drammatici raggiungono mia madre, che raggiunge me per ricordarmi che è anche colpa mia se le sue figlie non hanno un tetto confortevole sotto cui svernare, se vagano per Roma senza meta piuttosto che rientrare a casa, se non riescono a studiare e a dare esami e andranno fuori corso.
“Non è colpa tua,” mi ripete Adele al telefono con una punta di risentimento, “tu hai dovuto cavartela da sola. A te chi ti ha aiutato? Dove erano loro quando serviva a te? Dove erano tutti quando tu ne avevi bisogno?”
“Io avevo te,” le rispondo.
Lei gonfia il petto per l’attestato, ma poi aggiunge: “Io non ero lì. Hai fatto tutto da sola, amore mio.”
Ho trovato un’altra casa per le gemelle.
Non riuscivo più a sopportare la situazione di nomadismo forzato e a lasciarle da sole non ci riesco proprio.
Adesso vivono in un appartamento ancora più bello e ancora più vicino, dall’altro lato della Salaria che taglia in due il quartiere come una spina dorsale. Lì hanno trovato una ragazza simpatica che le ha elette a guide spirituali e condivide con loro gioie e dolori di una single a Roma in cerca d’amore. Ora sanno cosa si prova a essere la stella polare di qualcuno.
Rientra lo stato di emergenza.
Vittoria finirà la facoltà di Scienze della comunicazione dove si è iscritta su mio suggerimento, si fidanzerà con un fisioterapista conosciuto allo Ials, la scuola di danza che frequenta con grande soddisfazione insieme alla sorella.
Valeria invece farà una scuola di design, finita la quale troverà subito lavoro in uno studio d’architetti. Si metterà con un compagno di corso, ma non andrà molto bene.
15 aprile 2007. Domenica.
Ore 17:00.
Mi arriva un messaggio sul cellulare: Affacciati.
Apro le persiane e mi sporgo. Sotto ci sono le gemelle: “Allora vieni?”
“Mi metto le scarpe e arrivo.”
Rientro, accosto le persiane, mi passo le mani sugli occhi come quando ci si asciuga la faccia dopo averla lavata, mi guardo allo specchio per controllare l’effetto ed esco.
***
Il prolungamento dell’aspettativa di vita porta con sé il dilatarsi delle stagioni dell’esistenza, per cui si è eterni bambini, adolescenti trentenni, splendidi quarantenni, ragazzi maturi e affascinanti anziani, poi si muore.
E dall’inizio alla fine c’è con-fusione.
Fusione con le generazioni, tra le generazioni che condividono tratti di strada sempre più lunghi, dando vita a insoliti, straordinari, devastanti connubi.
Così ti ritrovi ad avere vent’anni con la passione scalza dei velocisti che ti pompa nelle tempie. Ti ritrovi a essere più efficace nella logica e a fare scacco matto in poche mosse, perciò divori anni e anime come romanzi e passi oltre.
Poi incontri una donna che ha troppi anni più di te, e forse non dovreste avere così tanto in comune, non dovreste parlare per ore senza raggiungere mai la riva, non dovreste avere lo stesso stile di vita, non dovreste avere la stessa scansione del tempo.
Poi lei è bella.
È persino più bella dei tuoi vent’anni implumi: le gambe snelle, il seno piccolo, la schiena lunga e sottile come una valle o il delta di un fiume.
Come fa una donna così a innamorarsi di te?
E invece ti ama.
Inspiegabilmente. Ti ama perché l’hai guardata e i tuoi occhi erano come una prima volta, la sua prima volta. Perché a te era impreparata, eri una conoscenza innocua, una conversazione semplice, sottile, onesta. Ti ama perché si guarda attraverso di te e si sente bella, desiderata, sognata come una fantasia. E allora comincia a muoversi dentro di lei qualcosa che beato dormiva, sotto i chilometri di già detto, già visto, già fatto, sotto strati densi di c’era una volta tanto tempo fa.
È scandaloso. È rischioso. È rigenerante.
È tutte le cose insieme.
Ma soprattutto è accogliente, profondo, rassicurante.
Perché vi nutrite a vicenda, tu metti a disposizione tutta la tua giovinezza perché lei ne prenda a piene mani. Lei apre finestre di terrazze romane, e sotto c’è il mondo intero.
È meraviglioso. Indescrivibile. La perfezione dell’essere.
Ma tu hai vent’anni e lei cinquanta.
Poi tu hai venticinque anni e lei cinquantacinque.
Poi tu ne avrai trenta e lei sessanta.
Non è cambiato nulla. È ancora bellissima come la prima volta che ti ha stretto la mano e le hai sorriso. Ma adesso quando fate l’amore spegne le luci, si veste e si spoglia in bagno e qualche volta piange. Le ripeti in continuazione che l’ami, che non ti frega niente delle coetanee, che i loro corpi giovani non hanno nulla di attraente, che è ancora lei il tuo sogno erotico.
Lei ti crede, ma non ci crede.
E si sente addosso gli anni che le pesano come sacchi di sabbia.
Adesso non si fa più toccare.
Adesso mi chiede di andarmene, me lo urla tra le lacrime, mentre litighiamo, mentre mi incolpa di averle messo di fronte l’evidenza del tempo che scorre.
“Scorre anche per me,” le dico.
“Sì, ma mentre tu cresci io invecchio.”
***
C’è un grappolo di cuori al centro del petto.
Hanno la grandezza degli acini d’uva e la consistenza di un calice. Stanno a decine l’uno sull’altro, come un lungo filo di perle arrotolato su se stesso fino a formare un gomitolo duro. Una manciata di ciliegie scure come l’interno di un corpo, come il rosso senza luce che diventa nero.
C’è un grappolo di cuori al centro del petto quando vieni al mondo, che batte in un unico movimento all’unisono. Come vogatori in acqua.
Sei piccolo e i cuori sono tanti, interi, integri.
Pompano sangue in ogni periferia dell’impero e sei tutto in ogni parte di te.
Sei giovane e i cuori sono ancora molti, ma i primi scontri, i primi amori sbeccati, le prime delusioni prospettiche hanno incrinato prima e spezzato poi.
Però sei giovane e i cuori che hai perso quasi non li senti, non c’è differenza. Il sangue continua a pompare fin fuori le mura e sei tutto, ma non proprio in ogni parte.
Passano gli anni. E i gusci dei cuori si fanno sottili e fragili come argilla. Incontri qualcuno che te ne spezza tre oppure cinque, qualcun altro è solo una crepa, qualcuno invece vive una vita intera conservandone tanti e in un solo colpo ne butta giù un terzo, come il sole d’estate fa con gli alberi da frutto.
Il sangue pompa, illuminando il centro abitato e le strade intorno. Non sei tutto e solo in alcune parti di te. Quelle vitali.
Allora ti stringi nel petto i cuori che restano come un neonato.
Fai attenzione a chi si avvicina ed eviti gli spazi affollati, mantieni distanze di sicurezza e delimiti il territorio, fai alzare le mani sopra la testa e non ti lasci toccare, perché intanto nel petto di cuore ne è rimasto uno solo.
E serve per vivere.
È il tuo ultimo cuore.
Non ne avrai altri, non rinasceranno come le arance con la nuova stagione.
E in quel momento incontri l’amore. Quello della vita. Che si sarebbe meritato tutti i tuoi cuori.
Quello per cui rimpiangi di averne sprecati tanti in passato, inutilmente, come la gestione scellerata di un patrimonio, senza pensare a chi sarebbe venuto dopo.
Lo incontri adesso.
E si meriterebbe un cuore.
Un bellissimo cuore tutto per sé, in cui abitare come su un pianeta rosso, senza gravità e senza eco.
Si meriterebbe il tuo cuore.
Ma te ne resta uno e se si incrina, si spezza, si usura, si perde non potrai vivere senza.
Allora che fai?
***
15 aprile 2007. Domenica.
Ore 16:40.
Sono esausta.
Mi sento come uno che tiene tra le braccia una bacinella piena di lenzuola. Quando le lenzuola sono asciutte il peso è sopportabile e tutto sommato ci si abitua. Quando le lenzuola sono bagnate e anche la bacinella si riempie d’acqua lo sforzo diventa disumano e tutto quello che vorresti è solo lasciar andare.
La nostra relazione è così.
Le nostre lenzuola prima asciutte di sole, sorrisi e primavere comuni col tempo si sono intrise di pioggia, lacrime e infiniti, lunghissimi inverni.
Siamo esauste.
Ogni giorno di più.
“Lasciami in pace,” mi grida tra le lacrime, piangendo ininterrottamente da non so più quanto tempo. “Lasciami in pace,” ripete più piano.
Singhiozzi. Singhiozzi. Singhiozzi.
“Perché non mi lasci in pace?” Piano piano lontano lontano.
Io al telefono resto in silenzio. Non mi viene niente da dire. Ho già detto tutto in un numero infinito di telefonate identiche a questa.
Perché ti amo. Perché mi ami. Perché mi fai male. Perché ti faccio bene. Perché siamo legate. Perché me lo devi. Perché te lo devo. Perché ho bisogno di te. Perché ti desidero. Perché non ti desidero più. Perché non mi desideri più. Per troppo amore. Per poco amore. Per troppa luce, poca luce, troppa acqua, poca acqua
ho finito
le parole.
***
20 luglio 2002.
Siamo andate a Ponza.
Adele ha scelto questa casa per la foto del letto di vimini chiaro e i tre gradini di legno che dalla veranda scendono direttamente sulla spiaggia, dove lasciamo orme umide d’acqua e sabbia bagnata.
Cuciniamo, mangiamo, facciamo l’amore. Il primo giorno al porto conosciamo Nicola, un giovane tassista che guida una specie di furgoncino simile a un’Apecar, che ci lascia il suo biglietto da visita per salire e scendere dalla zona del porto dove ci sono negozi e ristoranti fino alla casa bianca sullo scoglio che abbiamo scelto.
Nicola crede che siamo madre e figlia e ci prova un po’ con Adele.
“Che bella mamma che hai.”
Io mi compiaccio, e per farmi bella le prendo una mano la bacio e fissandola rispondo che è vero, è proprio bella.
Siamo sciocche. Siamo civette. Siamo felici. Siamo belle. Siamo abbronzate. Siamo giovani.
Sull’isola di Ponza, nella casa bianca sullo scoglio, siamo giovani entrambe.
Passano pochi giorni e sembra che ci abitiamo da sempre.
Con lei è così. “Torniamo a casa,” dice, anche quando siamo in albergo e quella camera ogni volta diversa è ogni volta casa.
Perché Adele abita gli spazi come la luce del mattino dalle persiane e gli accappatoi appesi dietro la porta di una camera da letto.
È il terzo giorno di mare, mi alzo dal letto e mi fermo a guardarla, incorniciata dalle mattonelle blu della cucina, mentre taglia in due metà un pugno di pomodorini rossi e li riversa nell’olio d’oliva su cui galleggiano come scialuppe due spicchi d’aglio bianchi.
E mi viene in mente una poesia di Neruda che avevo letto in un libriccino dove avevo sottolineato alcuni versi, “eternamente in fuga come l’onda”, “semplice come un anello” e poi questo: “E ti rattristi all’improvviso come un viaggio”.
Così io, come un cielo di mare che d’un tratto ti tradisce e ti umilia, in quel momento mi rattristo all’improvviso come un viaggio.
In una sorta di déjà-vu mai vissuto mi tornano in un rigurgito il residence di La Jolla, la spiaggia di San Diego e il giapponese con gli zigomi alti. Mi sembra di vederla camminare scalza per il suo appartamento come cammina scalza qui, vestita di una mia camicia celeste che usa come copricostume. Mi sembra di vedere lui appoggiato allo stipite di questa porta come lo sono io adesso. Mi sembra di vedere un vaso di rose bianche da qualche parte dietro di me sopra il mobile di vimini su cui lasciamo chiavi, cellulari e occhiali da sole. Vedo il futon basso dove fanno l’amore, vedo la Lexus parcheggiata nel vialetto, la carta di credito strisciata con eleganza, i vestiti nuovi sul letto e gli archi formati dal vino della California nei profili dei bicchieri di vetro.
Mi sale attraverso lo stomaco un’ira blu scuro come una marea viscerale.
Adele si volta, mi vede. “A che pensi?”
È una sottile condanna arrivare dopo. Arrivare tardi.
Quando le tue scoperte non sono le sue, perché lei ha già conosciuto la pienezza mentre tu ti completi un po’ ogni giorno. Quando pensi come me nessuno mai, invece c’è stato qualcuno prima di te che usava le stesse parole e la guardava allo stesso modo, qualcuno che ha già cucinato per lei, qualcuno che l’ha già trovata bella, qualcuno che le ha detto sarà per sempre, e, sempre, per sempre non è stato.
Mi sento girare la testa. Mi sento pallida. Mi sento accaldata. Sono io ma non sono più io. È lei ma non è più lei.
Sento che devo smaltire questa nausea e inizio a vomitare, solo che vomito su di lei cattiverie e malignità. Le vomito addosso una meschinità nuova di cui non mi credevo capace, una gelosia sterile da uomo piccolo che non riconosco e non so controllare.
Cerco un pretesto per litigare. Qualcosa che giustifichi tutto. Ma un reale pretesto non c’è.
L’hai detto anche a lui? L’hai fatto anche a lui? Era così anche con lui? Non sarà mai come con lui. Lui era bello io no. Lui era ricco io no. Lui era alto io no. Lui era esperto io no. Lui aveva un pene io no.
Lui è stato il primo a farti avere un orgasmo, a farti provare le gioie del sesso, a farti sentire ancora giovane e desiderata. Io no.
Adele pensa che sia un gioco, pensa anche che sia tenera, questa forma sciocca di gelosia retroattiva, lo pensa per poco, lo pensa finché dura poco, ma purtroppo poco non dura.
Diventa un leitmotiv, un tarlo fisso, una condizione costante di accusa e difesa.
“Ma è la prima volta con te,” mi risponde esasperata.
Ma io non ascolto e penso a quante altre volte l’avrà già detto.
La guardo e mi rendo conto che posso farle male, molto male e, quel che è peggio, mi rendo conto che non riesco a trattenermi.
Le rinfaccio di essersi lasciata amare da un altro mentre io ero già lì, mentre l’amavo già io.
“Io da un letto di ospedale pensavo a te come una scema e tu stavi in America a divertirti con uno stronzo.”
“Ma tu non c’eri ancora nella mia vita.”
Si avvicina, mi cerca, mi accarezza.
Ma le mie insicurezze sono schegge di legno che le feriscono le mani ogni volta che mi tocca.
È vero, che colpa ha lei se io non c’ero?
Nessuna. Eppure non riesco a fermarmi.
“Adele, perché mi stai raccontando tutto questo?”
“Per crearti nella mente un’immagine sgradevole di me.”
“Be’, non ci sei riuscita.”
Non è vero.
Ci sei riuscita.
Mi aveva raccontato ogni dettaglio di quella relazione per allontanarmi, ma io ero rimasta e quell’idea innestata nella mente era lì latente e poi, come una fioritura d’aprile, senza preavviso era esplosa. Perché non c’è nulla che attecchisca più della creazione di un’immagine nel cervello di una persona che pensa per immagini.
Si ritorceva contro di lei quella stessa idea che aveva volontariamente creato in me.
E faceva male a entrambe. A me, che continuerò a torturarci fino alla fine. A lei, che mi vedrà contorcermi di un’inutile gelosia oscura come si contorce un animale accanto al serpente che l’ha morso.
Perché l’amore è una strana alchimia, un esperimento di mutazione genetica, di ribellione alla morte, al destino, al tempo. Ma a volte genera mostri, e allora convivi con questa creatura fuori controllo che si aggira come un felino nell’anima e non ti appartiene, non ti risponde, non puoi governarlo.
Siamo a cena in questo ristorante stellato che si chiama Orestorante.
Ci portano al tavolo, ceniamo in silenzio come a un balletto, ascoltando il suono dei gesti. Guardo il tovagliolo bianco su cui disegno con le dita profili di pareti.
Lui avrebbe pagato il conto, io no, penso.
Adele poggia le posate vicine sul piatto, beve un sorso di vino bianco, poi dice: “La traduzione italiana del primo verso dell’Iliade è inesatta. Cantami o diva del Pelide Achille l’ira funesta. In realtà la versione letterale dovrebbe essere: l’ira funesta cantami o diva del Pelide Achille. La parola ira, menin, è il complemento oggetto, ciò che la divinità, invocata per ricevere ispirazione, racconta al poeta, ma è messa in positio princeps per sottolineare l’importanza che l’ira avrà in tutta l’opera. Non è il tallone il vero punto debole di Achille, ma l’ira, che infiniti lutti addusse agli achei.”
Poggia il bicchiere sulla tovaglia bianca, si tampona le labbra col tovagliolo, poi aggiunge: “È l’ira, amore mio, il motivo della guerra di Ilio. Ti prego, non lasciare che sia anche il motivo di una guerra tra noi.”
Ho due tatuaggi sul corpo.
Il primo sull’avambraccio destro – ἄειδε θεὰ – e serve a invocare il favore di un dio per avere una vita di ispirazione e bellezza.
Il secondo dietro la nuca – Μῆνιν – e serve a ricordarmi che l’ira non è mai un buon motivo per iniziare una guerra.
***
“Perché non mi lasci in pace?” piano piano lontano lontano.
Io al telefono resto in silenzio. Non mi viene niente da dire. Ho già detto tutto in un numero infinito di telefonate identiche a questa.
Ho finito le parole.
“Lo dovevamo capire subito, amore, che una storia che inizia il primo aprile non può essere altro che un crudele scherzo del destino,” continua, e diluisce le parole nel pianto.
Mi scende una lacrima.
Attraversa tutta la guancia e poi scompare sul collo.
“Va bene.
Ti lascio
in pace.”
Riaggancio. E sono certa che in quel momento, dall’altra parte del telefono, in un attimo di inconsapevolezza, tra le tante troppe lacrime, Adele deve aver tirato un lungo, doloroso sospiro di sollievo.
***
Quando ho capito di amare Adele ho pensato: dai, sbrigati, sbrigati a riamarmi.
Devi riamarmi prima del primo ottobre del 2001. Dobbiamo stare insieme prima di quel giorno. Perché in quel momento tu avrai cinquant’anni e io ancora diciannove per i seguenti quattro mesi.
Perciò devi amarmi prima, quando tu sei ancora nei quaranta e io dirò già venti.
Amami prima.
Perché poi avrai più paura e forse non ce la farò a riportarti indietro, a dirti che non cambia niente, che è solo un giorno, un mese, un anno.
Non l’abbiamo mai detto.
Ad alta voce.
Il numero esatto degli anni che ci dividevano.
Neanche dopo.
Nelle scorciatoie mentali, negli arrotondamenti conversazionali, nel raccontarci a vicenda, erano sempre venti, venticinque. Solo qualche volta, quando era inevitabile, gli anni erano trenta.
Non sono mai stati trentuno, nemmeno una volta. Trentuno no, erano troppi. E non si poteva dire.
Contavo i giorni.
Sbrigati ad amarmi.
Sbrigati ad amarmi.
Per favore, sbrigati ad amarmi.
Mi hai riamato esattamente sei mesi prima che fosse troppo tardi. Il primo aprile del 2001.
E da quel momento io ho smesso di contare. E hai cominciato tu.
Sbrigati ad amarmi.
Sbrigati ad amarmi.
Sbrigati ad amarmi.
Chi comincia una relazione con una scadenza?
Noi. Ci eravamo date dieci anni.
Mi avresti lasciato il primo ottobre del 2011.
Sbrigati ad amarmi.
Sbrigati ad amarmi.
Sbrigati ad amarmi.
E per sbrigarci a fare tutto prima della fine dei suoi cinquanta e l’inizio dei miei trenta abbiamo concluso con anticipo quello che avremmo potuto fare con tutta calma.
Sbrigati ad arrivare. Sbrigati a conquistare. Sbrigati a essere felice. Sbrigati a dire tutto. Sbrigati a spezzarti. Sbrigati a rialzarti. Sbrigati a essere felice di nuovo. Sbrigati a ricominciare da capo.
Un amore lungo dieci anni.
Tutti, dal primo all’ultimo, da metterci subito la firma.
Perché a volte poi sono solo tre.
Perché a volte poi sono quaranta, ma non contano.
Perché a volte poi sono dieci pieni e ne avresti voluti ancora.
Perché a volte poi daresti una vita intera per avere un giorno solo.
***
15 aprile 2007. Domenica.
Ore 14:00.
SMS
Adele: Ciao amore, che fai?
Giulia: Niente, ho pranzato e adesso sto a letto a fare pensieri sconci su di te ;)
Adele: Lo sai che queste cose mi imbarazzano.
Giulia: …
Adele: Ti sei arrabbiata?
Giulia: …
Adele: Mi fai sentire sempre inadeguata. Perché non lo capisci?
Giulia: …
Squilla il telefono.
Giulia: “Pronto…”
15 aprile 2007. Domenica.
Ore 17:00.
Mi arriva un messaggio sul cellulare: Affacciati.
Apro le persiane e mi sporgo. Sotto ci sono le gemelle: “Allora vieni?”
“Mi metto le scarpe e arrivo.”
Rientro, accosto le persiane, mi passo le mani sugli occhi come quando ci si asciuga la faccia dopo averla lavata, mi guardo allo specchio per controllare l’effetto ed esco.
Stiamo andando al cinema Embassy.
Il film è Tutte le donne della mia vita con Luca Zingaretti che fa la parte di uno chef dongiovanni.
Sarà un flop.
Presto verrà dimenticato pressoché da tutti.
Da tutti tranne che da me.