LOST
Ad Adele non perdonerò mai di non essere stata capace di invecchiare con eleganza.
Di non essere stata capace di farsi fragile e affascinante, come quelle donne chiare nei quadri dell’Ottocento con la pelle così sottile da sembrare morenti anche nel fiore degli anni.
Guardo Sarah Paulson e Holland Taylor su una foto di Instagram e penso che avremmo potuto essere noi oggi. Avremmo potuto crescere insieme e diventare donne.
E la gente avrebbe detto: è vero, lei è giovane, ma lei. Guardala, lei. Lei è oro.
Avrebbero detto che è stato facile innamorarsi di te, avrebbero detto che bastava sentirti parlare, guardarti ridere, vederti camminare, e poi il modo in cui stiamo insieme.
Questo cercarsi anche lontane, questo spazio comune riempito dal profilo dei corpi, dalle braccia tese a formare cerchi imperfetti come chignon scapigliati di bambine danzanti.
Avrebbero detto che era giusto così.
Che era bello. Era saggio.
Avrebbero detto che prima non si sarebbe potuto perché prima si invecchiava e si moriva presto.
Avrebbero detto per fortuna adesso si può, vivere fino alla fine, vivere bene, senza confini ideali a delimitare l’orlo del bene.
Avrebbero detto per fortuna è stato, perché che peccato, altrimenti, tutto questo amore inevaso.
Tutto questo splendido vivere, tutto questo luminoso tempo, che peccato, andato sprecato come bottiglie di vino conservate a lungo per i pasti dei giorni di festa, infine cadute, perdute, spezzate.
Per fortuna invece adesso si può.
Restare giovani per sempre, non morire mai, abbracciarsi per strada, guardarsi negli occhi e ridere, come se il domani non fosse altro che l’oggi di ieri.
Per fortuna.
Ti immagini che peccato sarebbe stato se invece tu fossi invecchiata e poi morta?
***
Febbraio 2006.
Adele si sveglia una mattina e dice di avere una macchiolina sulla testa, proprio all’attaccatura dove i capelli si dividono in due per separarsi fino alle orecchie.
È grande come un seme di girasole sdraiato, mi indica il punto col dito e dice guarda, ma io non vedo niente.
“Invece c’è,” dice lei. E sta sempre lì a cercare l’angolazione migliore per controllarla allo specchio, giocando con l’illuminazione che in questo appartamento di Trastevere che affittiamo da un po’ in pratica non c’è.
Passano i giorni e la macchiolina sulla testa diventa una fissazione, la mostriamo al farmacista, al medico di base, alla mamma ottantenne che ci vede appena, alla vicepreside dell’istituto comprensivo di montagna dove da due anni Adele è diventata dirigente scolastico.
Compriamo lozioni per capelli e fialette per la cute.
“E se si ingrandisce? Se divento come una di quelle signore anziane con i capelli sottili e radi da neonato?”
“Ti comprerò una parrucca. E la metterai sul comodino prima di andare a dormire, insieme al bicchiere con la dentiera, agli occhiali da lettura e alle medicine per l’insonnia.”
“Non è divertente.”
No, non lo è. Ma provo a far finta.
A Roma c’è l’IDI, io non l’ho mai sentito, ma Adele dice che è un centro di dermatologia all’avanguardia, perché non andarci, visto che tu abiti a Roma e io vengo spesso a trovarti?
Allora domani si va all’IDI, così finalmente ti diranno che non hai niente e ti metterai l’anima in pace, così finalmente torneremo a parlare di altro e tu smetterai di chiedere a tutti di guardarti la testa.
Ma all’IDI bisogna andare prestissimo, perché vengono da tutta l’Italia per farsi visitare, e ci sono delle file mostruose, quindi bisogna giocare d’anticipo e stare davanti alla porta e correre per prendere il numero come se fossimo fan a un concerto di Madonna quando aprono i cancelli.
“Tu sei vuoi resta a casa, resta a dormire, sarò di ritorno prima ancora che tu apra gli occhietti.”
Ma io non sono una bimba che deve dormire, io sono un’adulta, sono la tua compagna e voglio stare con te sia quando andiamo a fare shopping a Cola di Rienzo sia quando ci dobbiamo svegliare all’alba per andare a fare ore di fila in una specie di ospedale perché ti sei convinta di avere un tumore della pelle.
Figuriamoci.
Sabato mattina la sveglia suona alle cinque e mezzo. Alle sei siamo in taxi. Alle sei e venti siamo all’IDI.
L’IDI è un enorme stanzone grigio rettangolare. Su due lati ci sono una decina di sportelli con sopra led lampeggianti simili a caselli autostradali che segnalano l’avanzamento dei numeri, su un altro lato c’è l’ingresso ai reparti, ancora sigillato, e dall’altra parte sedie e panche per l’attesa su cui sono sedute e sdraiate decide e decine di persone. Molti sono bambini, addormentati e infreddoliti, rannicchiati nelle insenature dei corpi dei genitori da cui sporgono piccole porzioni di viso o di braccia, spesso orribilmente deturpate.
Sarà la luce fuori, che è ancora grigia e lunare, sarà il freddo del mattino troppo presto, sarà la serietà degli uscieri che consegnano i numeri come fossero sentenze, sarà il brusio dell’attesa fatto di sospiri e colpi di tosse, sarà che quando non dormo abbastanza ho sempre questo senso di nausea, ma l’IDI mi sembra il posto peggiore del mondo. Sembra la terza classe di un piroscafo che trasporta migranti a Coney Island, sembra la periferia desolata di una metropoli disumana tipo Calcutta, sembra una scena di neorealismo in cui tutti sono brutti, dolenti e malati eppure così dignitosi ed eroici, compresi i bambini.
Siamo arrivate prestissimo ma molti sono arrivati prima di noi e quando l’usciere ci allunga il numerino è il 107. Alle sette gli sportelli si aprono, i led si accendono e inizia la conta. Il vociare nello stanzone si fa più frenetico, lo scampanellio che segnala avanti un altro è ritmico e cadenzato, il sistema funziona e dopo meno di un’ora è già il nostro turno: 107.
Adele si alza per raggiungere lo sportello illuminato, io resto seduta a fare ciao ciao con la manina a un neonato grassoccio con una macchia rossa brillante sotto il naso.
“Fatto,” dice Adele.
Ottimo, non è stato poi tanto male, pensavo peggio, non sono nemmeno le otto, se ci sbrighiamo possiamo tornare a casa, rimetterci a letto e fare altre due ore di sonno.
“Ma che dici? Qui abbiamo solo pagato il ticket, adesso dobbiamo fare la visita.”
“Ah, giusto. E la visita la facciamo subito?”
“Eh, no, ci devono chiamare. Ma gli ambulatori aprono alle nove.”
Alle nove? Ma non sono nemmeno le otto. E siamo qui dalle sei e venti. Ma perché siamo venute così presto?
Perché se vieni dopo non prendi il foglietto, non paghi il ticket, arrivi tardi agli ambulatori e non fai in tempo per la visita. Chiaro, no?
Come no. Almeno c’è un bar per fare colazione?
Sì, ma è chiuso. Ristrutturazione.
Perfetto. Mi rimetto a sedere.
No, dobbiamo spostarci, gli ambulatori sono laggiù.
Ci spostiamo e andiamo laggiù.
Alle nove iniziano le visite e torniamo a guardare un enorme tabellone che si illumina come quello di una stazione smistando casi e pazienti.
Alle dieci è il nostro turno. Tu resta qui, mi dice Adele, e se ne va da sola lungo un corridoio. Torna poco dopo.
“Tutto ok? Ce ne andiamo?”
“No, devo fare le prove allergiche.”
Torniamo di sotto, ripaghiamo e torniamo di sopra.
La chiamano. Se ne va di nuovo. Da sola. Rimango in sala d’attesa. Questa volta resta via molto. Anzi, moltissimo.
Sono seduta in questa sala d’attesa con le sedie grigie di alluminio. Fuori è una bella giornata. Guardo l’ora, sono quasi le undici. Vorrei prendere un caffè alla macchinetta, ma Adele mi ha lasciato qui col suo cappotto, la sciarpa e la borsa, e non mi va di alzarmi con tutta questa roba addosso.
Chiudo gli occhi e senza motivo mi viene in mente una volta, all’inizio, quando ero arrivata a Roma da poco. Avevamo deciso di non prendere più gli alberghi e scegliere gli appartamenti per poter cucinare e mangiare a casa, perché gli appartamenti sono più intimi, danno l’idea di abitare, e poi dentro ci trovi anche la vita di chi quella casa la abita davvero e lì ha lasciato tutti i suoi libri, il cambio di stagione e le fotografie alle pareti. In uno di questi appartamenti una notte ho visto per la prima volta La dolce vita e ho scoperto quanto può essere bello Marcello Mastroianni.
“Preferisco gli appartamenti,” aveva detto Adele, “ma mi dispiacerà perdere le colazioni in albergo.”
Allora io quella notte, mentre lei dormiva nella camera del bilocale vicino al bar del Fico, mi ero alzata e avevo allestito sul tavolo della cucina una colazione da hotel. Con la tovaglia bianca, le tazze rovesciate, il cestino coi panini, le fette biscottate e le brioche, il piattino con le marmellatine, le nutelline e le monoporzioni di burro.
Poi mi ero rimessa a letto, aspettando il mattino.
“Fatto,” dice Adele tornando indietro.
“Bene. Adesso ce ne andiamo?”
“No, aspettiamo il referto e lo riportiamo di sotto. Al primo medico.”
“Ok. Va bene. Ma che ti hanno detto?”
“Ancora niente.”
“Sei preoccupata?”
“No.”
All’IDI ci torneremo ancora altre quattro o cinque volte negli anni a venire. Sempre da un medico diverso che le darà ogni volta un responso diverso. Le diranno che è alopecia, psoriasi, allergia al nichel, stress, depressione, lupus.
Le diranno di prendere creme al cortisone, lozioni antinfiammatorie, integratori alimentari, antidepressivi e bacche di goji, di non mangiare pomodori e bere latte di soia, di cambiare lavoro, di cambiare città, di cambiare medico.
Le diranno di tornare tra un mese, tra quindici giorni, tra non meno di un anno, e qualcuno di non tornare mai più.
Noi invece ci torneremo ancora.
Quando esce dall’ambulatorio, mentre le porgo il braccio con il cappotto e la borsa, le chiedo: “Allora, che ti ha detto?”
“Niente.”
“Come niente? Siamo qui da sei ore e non ti ha detto niente?”
“È la menopausa. Con la menopausa si perdono i capelli.”
Adele si sistema il cappotto sulle spalle, mette la borsa a bandoliera facendo scorrere la tracolla nello spazio tra i seni, si passa una mano tra i capelli ed esce.
Arriva il mattino. Adele si sveglia prima di me, va in cucina e trova la tovaglia bianca, le tazze rovesciate, le marmellate, il burro e i croissant.
Poggiato sul cestino del pane un biglietto:
“Non perderai mai più niente
finché ci sono io.”
***
Novembre 2004.
Io e te insieme siamo bellissime.
Bellissime.
E lo vedono tutti.
Non devo nemmeno impegnarmi a spiegare.
È così semplice.
Così semplice che sembra irreale.
Non succede nessuna delle terribili cose prefigurate dalle nostre e altrui iatture, sono rimaste incastrate tra le pareti nere di travertino inquinato della gotica città di provincia. Fuori dalle mura non accade nulla.
Lo spazio è aperto davanti a noi. La vita è aperta. Il tempo è aperto. Roma è aperta.
Sui giornali si discute per la teca dell’Ara Pacis, che a noi sembra bellissima. Nei telegiornali si discute per il blackout della notte bianca, che a noi sembra bellissima.
E tutta quella pioggia?
Te la ricordi quanta pioggia?
Ma noi eravamo già a letto, in una casa come tante che era la nostra come di tanti altri.
La tua sottoveste di raso color avorio, le pantofole bronzo, gli occhiali con la montatura rotonda dorata.
Te la ricordi quanta pioggia? Che bella notte. Che belle notti tutte uguali, tutte perfette, come acini d’uva nerissima.
Mi ricordo un giorno che ero così felice perché invece di due giorni Adele restava a Roma per una settimana.
Era per via di un corso d’aggiornamento che doveva seguire adesso che era diventata dirigente e le serviva per fare punteggio, salire in graduatoria e scegliersi la scuola e forse la città.
Avrebbe anche potuto non frequentarlo, come tanti altri in passato, ma quello era proprio a Roma e si dà il caso che a Roma ci fossi proprio io.
Mi ricordo che avevamo preso questa camera in un albergo dentro una villa liberty vicino a Porta Pia, e ci avevano dato una suite perché a novembre è bassa stagione e l’albergo era quasi vuoto.
La camera era molto grande con un terrazzino coperto come una piccola serra in cui la mattina facevamo colazione e guardavamo sotto, su un giardinetto interno, e sembrava di essere in un tempo diverso dal nostro, in cui l’inquilino della villa qui accanto si dice che potrebbe fare tanto del bene quanto del male, ma mentre prendevamo il tè e iniziava a piovere non ci pensavamo, perché è troppo bella Roma per immaginare il peggio, è troppo bello il mondo per vederlo bruciare, è troppo bella la vita per immaginarla versata.
Mi ricordo che ci lasciavamo al mattino, io per andare a lezione e tu per andare al tuo corso e poi ci ritrovavamo la sera, come due che si raccontano il giorno che hanno vissuto insieme senza annoiarsi.
Peccato per questo ciclo. Peccato per questo maledetto ciclo, altrimenti sarebbe stato tutto perfetto.
“Lo so, è un peccato,” le dico sdraiata nel letto.
Poi mi bacia, si gira e dorme.
Peccato.
Perché non lo facciamo da tanto. Da quanto? Dall’ultima volta? No, da prima ancora. Ti ricordi, avevi sonno? Ti ricordi, avevi freddo? Ti ricordi, avevi caldo?
“Sì, è vero,” mi dici. Poi un bacio, ti giri e dormi.
È venerdì. Riparti domani. Non resti fino a domenica perché tua madre a casa è da sola e se torni domani domenica la accompagni alla messa e ti sentirai meno in colpa per questa tua fuga romantica.
È venerdì. In cinque giorni un ciclo finisce. Finisce il mio, figuriamoci il tuo.
Mi avvicino.
“Non si può,” dici ridendo.
“Ma si che si può,” dico ridendo.
“No, dai, non è ancora sicuro.”
“Ma come? Ma dai? Basta fare un po’ d’attenzione.”
“No, veramente.
No, veramente.
Ho detto di NO!”
Mi ricordo che ti stavo sopra e ti baciavo il collo e con una mano ti sollevavo la sottoveste di raso color avorio.
Mi ricordo che mi hai spinto forte e la bocca si è staccata dalla pelle del collo facendo il rumore di uno schiocco di dita.
Mi ricordo che ti sei messa a sedere e hai chiuso le ginocchia strette strette.
E mi ricordo che hai detto:
“La voglia.
L’ho persa.”
***
“Chissà quanti altri figli potrà fare ancora questa bella ragazza.”
Adele e Mattia stavano insieme dalla quinta ginnasio di Adele e dal primo liceo di Mattia. Si erano messi insieme durante un’assemblea d’istituto. Lei si era tagliata i capelli e aveva questa frangetta alla Nefertiti sugli occhi che la faceva sembrare più grande, e allora lui l’aveva notata. Lui, che era biondissimo e chiarissimo, aveva pensato che sarebbe stato bene con lei, scurissima nei colori come nello sguardo. L’aveva pensato anche lei, che aveva ricambiato l’invito non per reale interesse, ma solo per complementarietà cromatica.
“Non mi piaceva davvero, non credo di averlo mai amato. Ma eravamo una coppia iconica. Ci conoscevano tutti, stavamo sempre insieme, lui coi riccioli biondi e il naso grande. Si credeva bellissimo e invece non lo era, e io glielo dicevo sempre. E lui si arrabbiava. Oh, quanto si arrabbiava! Minacciava di lasciarmi, di mettersi con qualcun’altra che sicuramente ci sarebbe stata, e io gli dicevo vai, accomodati, quella è la porta. E lui si arrabbiava ancora di più.
Ma poi non andava mai da nessuna parte. Non aveva molto carattere, Mattia. Era di buona famiglia, il figlio del questore. I suoi genitori mi adoravano. A me non importava. Mi piaceva starci insieme, frequentare la compagnia, gli amici. Stare in coppia può essere molto comodo.”
Mattia per tutti i tre anni che erano stati insieme l’aveva pregata, supplicata di fare l’amore. Ma lei gli aveva sempre detto di no.
“Ma lo fanno tutti,” rispondeva lui.
“Proprio per questo. Vai con un’altra, se proprio non resisti.”
E allora lui un giorno era tornato e le aveva detto: “Contenta? L’ho fatto! Sono andato con una prostituta!”
“Con una prostituta? Ma che schifo è?” le chiedo stupita, mentre Adele racconta, sdraiata con la testa sulla mia pancia. “E te l’è anche venuto a dire?”
“Sì, ma all’epoca era normale. Nessuno si scandalizzava. Ce l’aveva portato il padre, da una fuori città che faceva la nave scuola.”
“E tu che gli hai detto?”
“Bravo, gli ho detto, così la smetti di scocciare me.”
E lui si arrabbiava.
Ride.
“Poi lui si è diplomato ed è andato all’università. Allora ci siamo lasciati. Mi ha lasciato lui. Perché voleva fare nuove esperienze. E io ci sono rimasta malissimo. Ma veramente veramente male. Senza un motivo reale. Perché non ero innamorata e questo lo sapevo. Ma sono stata male lo stesso. Perché non ero più in coppia, e ormai mi ero abituata. Allora mi sono trovata un altro ragazzo, un suo amico, in realtà. Ci siamo messi insieme anche se non mi piaceva per niente. E dicevo a tutti che era un grande amore e insieme facevamo cose turche.
L’anno dopo, a Natale, Mattia è tornato per le vacanze e ci siamo rivisti.
‘Allora adesso stai con Renato?’
‘Sì, e tu anche ti sei fidanzato? L’ha detto tua madre a mia madre.’
‘Sì. Vuoi salire da me?’
‘Sì.’
Salgo da lui. A casa sua non c’è nessuno. Lui mette un disco, mi versa da bere e subito mi bacia. Io lo sapevo che andava così. E per certi versi lo volevo. Volevo vedere se mi voleva ancora, perché lui mi aveva lasciato, ma in fondo in fondo lo sapevo che non voleva.
Allora mi sono detta: adesso gli faccio girare la testa per l’ultima volta e poi lo mollo io.
Quindi siamo lì che ci baciamo, lui mi toglie la camicetta, mi slaccia il reggiseno e mi solleva la gonna.
‘No, aspetta.’
‘Dai, su.’
‘No, Mattia, aspetta un attimo.’
‘Dai su, aspetto da tanto.’
‘Ho detto di NO!’”
Adele si divincola e scatta in piedi, chiude le ginocchia e si stringe la camicetta al petto, mordendosi le labbra.
“Ma che ti è preso?” dice Mattia.
Adele vorrebbe riprendere il controllo, infliggergli una freddura delle sue, ma non ci riesce.
“Non sarai ancora…”
E poi scoppia a ridere. Ride ride ride, forte.
Adele scappa via, giù per le scale, e mentre scende lo sente dire tra le risate: “Vergine!”
Mi alzo. Adele mi guarda.
“Che c’è?”
“Non posso sentire questa storia, mi fa troppo male.”
Adele mi prende una mano, la bacia e dice:
“È stato tanto tempo fa.”
Adele ha perso la verginità un anno dopo a Bologna, dove si è trasferita per fare l’università.
“Ero uscita con un ragazzo carino di nome Leone che mi era passato a prendere con la macchina.
Avevo deciso che quella sera sarebbe successo. Perché stava diventando un problema e volevo affrontarlo per togliermi il pensiero.
Leone era un ragazzo gentile, carino, sapevo che sarebbe stato delicato.
A lui non ho detto nulla. Non credo che se ne sia nemmeno accorto.
Siamo andati in albergo, abbiamo fatto quello che dovevamo fare, poi sono andata in bagno e mi sono lavata. Fine. Tutto qui.”
“E non avevi paura di sporcare le lenzuola, in albergo?”
Adele sorride.
“Un po’.”
“A ventun anni mi sono messa con Ferdinando. Con lui stavo per sposarmi. Siamo stati insieme sei anni. Anche di lui non so se sono mai stata veramente innamorata. Ci stavo bene. Era ingegnere. Molto diverso da me. Non era un gran conversatore. Ma aveva uno squisito senso pratico. Lui mi amava molto. Questo sì.”
E poi cos’è successo?
“Dovevo andare dal ginecologo. E lui mi ha detto dai, ti accompagno, tanto è una cosa rapida, no?”
‘Certo. E poi facciamo un giro e restiamo fuori a cena.’
Ora non mi ricordo bene perché, ma mi ricordo che lui è entrato con me durante la visita e mentre eravamo lì il dottore ci ha detto che avevo perso il bambino.
Poi ci ha guardati e ha capito che noi non sapevamo dell’esistenza di nessun bambino.
Ci abbiamo riprovato ad avere un figlio, io e Ferdinando. Ma non è più venuto. È diventato un motivo per essere malinconici, poi tristi, infine depressi.
Allora l’ho lasciato e sono tornata in provincia. Lui è anche venuto a trovarmi un paio di volte, per vedere se potevamo riprovare, ma ormai era finita.
E mi capita di ripensare a volte a quello che disse il medico quel giorno, forse per rimediare, non lo so.
Disse così: ‘Chissà quanti altri figli potrà fare questa bella ragazza.’
Nemmeno uno.
Quella bella ragazza non ne ha fatto nemmeno uno.
L’occasione.
L’ho persa.”