capitolo 25
Samantha masticava al telefono, come se stesse mangiando qualcosa. «Be’, non puoi pretendere di non fare nulla e sperare che sparisca, non ti pare?».
Logan camminava lungo la strada, sotto alla luce abbagliante del sole, con la busta di plastica di un negozietto che dondolava al suo fianco. «Be’, e cosa dovrei fare? Non posso accettare un assegno di…».
«Non lo stai accettando, dico bene? Stai soltanto decidendo a chi donarlo».
«Ma questo mi renderebbe…».
«No, neanche per sogno. Trentamila sterline possono fare una differenza sostanziale per alcune associazioni, quindi cercane qualcuna e scegli».
Lui si fermò, appoggiandosi al muro di un giardino, e lanciò uno sguardo in fondo alla strada, dove un gruppo di giornalisti e diverse troupe televisive si affollavano all’esterno della casa degli Abernethy, filmando il luogo con il cartello vendesi e il nastro della polizia sullo sfondo. Sembravano sul punto di addormentarsi per la noia. «Non è giusto».
«Stai diventando peggio di Rennie». Ancora quei rumori di masticazione. «Ti va il cinese per cena, stasera?»
«Non posso, ho quella riunione. E cosa dovrei fare riguardo al fatto che Wee Hamish vuole che sia l’esecutore del suo testamento?»
«Su questo non posso aiutarti. Per favore, non tornare a casa troppo tardi». E a quel punto attaccò. Certa gente sembrava godere delle disgrazie degli altri.
Bene. Si tornava al lavoro. Si infilò la busta di plastica sotto la giacca, con il freddo che ne proveniva a penetrargli nelle costole, e procedette lungo la strada. Senza guardare in faccia nessuno, fissando dritto davanti a sé, comportandosi come una persona qualsiasi intenta a fare una passeggiata. Oltrepassò il furgone della bbc, una Renault con due giornalisti intenti a leggere dei quotidiani e a fumare una sigaretta. Non alzarono lo sguardo verso di lui. Fin lì, tutto bene. Poi svoltò bruscamente a sinistra, superando la barriera del nastro della polizia e ritrovandosi sul vialetto degli Abernethy.
L’agente di guardia gli fece un cenno. «Capo».
Quando i giornalisti assembrati capirono che non era soltanto un passante, aveva già oltrepassato il cancello laterale del villino.
Una voce alle sue spalle: «Avete già identificato il cadavere?».
Poi un’altra: «Avete dei sospetti?».
E un’altra ancora: «È vero che la vittima era smembrata?».
Si chiuse il cancello alle spalle.
Alex Hay era ancora dove l’aveva lasciato, seduto su una panca di legno nel giardino sul retro, con la testa tra le ginocchia.
«Si sente meglio?».
Lo storico si strinse nelle spalle. «Mi spiace, non pensavo che sarebbe stato… L’odore era un po’…».
«Sì, lo so». Logan prese la busta, ne tirò fuori una lattina di Diet Coke e gliela porse. «Le ho preso anche un Cornetto. Magari le farà bene allo stomaco».
Alex aprì la lattina e prese un sorso di Coca, sciacquandosi la bocca come se fosse collutorio. «Tutta questa faccenda è terribile».
«La morte violenta lo è sempre». Logan si sedette sul bordo della panchina e allungò le gambe. Prese dalla busta una bottiglietta d’acqua e un gelato al cioccolato per sé. «Lavano il corpo, quando lo preparano all’autopsia. Vuole vederlo?»
«Era incatenato all’interno del pentacolo, vero? Ed è sbagliato. Un cerchio magico serve per proteggersi, se ne crea uno e si sta al suo interno quando si ha a che fare con delle forze demoniache. Quando si evoca il diavolo, o dei demoni, o gli spiriti, oppure quando si risvegliano i morti o si interrogano le streghe. Queste entità non possono entrare nel pentacolo e neanche i loro poteri». Posò la lattina e scartò il Cornetto, leccando via il gelato dalla parte inferiore del dischetto di cartoncino. «È come un preservativo che evita che il male ti fotta».
Logan riprese le foto dell’autopsia e le posò sulla panca, tra loro. «Non è servito molto alla nostra vittima, eh?»
«Ed è per questo che è sbagliato. In Witchfire, Hunter ha creato questa specie di guazzabuglio di diverse credenze, mischiando pezzi presi da fonti diverse. Immagino che sia questo il bello di creare una storia alternativa, basta andare abbastanza indietro nel tempo e si possono cambiare le cose a proprio piacimento: chi mai avrà da ridire?»
«Quel cerchio magico è anche nel libro, vero?». Gran parte della trama era confusa nella sua memoria, ma ricordava con certezza di aver letto di qualche pentacolo.
«Le Dita lo chiamano Nodo ad Anello, e li tiene al sicuro nel corso degli interrogatori». Abbassò lo sguardo sulle fotografie. «Come è possibile che una persona possa fare cose del genere a un altro essere umano?».
Logan si leccò via una scia di gelato al cioccolato sciolto dal polso. «Sarebbe sorpreso di scoprire quello che le persone sono in grado di fare».
«Vede tutte quelle piccole ferite? In gergo si chiama “punzonatura”. Lo fanno per scoprire il marchio del diavolo. L’idea era che quando si entrava al servizio del diavolo, lui imponesse un marchio al suo servo, per dimostrare che era suo. Si diceva che fosse immune al dolore, perciò chi era accusato di stregoneria veniva infilzato su tutto il corpo con spilli e coltelli, alla ricerca del punto in cui la vittima non provava dolore. Se quel punto veniva trovato, l’accusa di stregoneria veniva confermata. E lo trovavano sempre, anche se non c’era». Prese un respiro profondo e tornò a guardare le foto. «Nel quindicesimo secolo, il Malleus Maleficarum era la bibbia dei cacciatori di streghe. Prescriveva di rasare capelli e peli alla strega o allo stregone prima dell’interrogatorio, perché potevano nascondervi sotto qualcosa: un incantesimo, un potere, o altro ancora che l’accusato avrebbe potuto usare contro l’inquisitore».
«Ma la vittima si sarebbe dovuta trovare fuori dal pentacolo».
«Il pentacolo serve per proteggersi: perché un membro delle Dita avrebbe dovuto proteggere uno stregone?». Lo storico fissò il fondo della sua lattina di Coca-Cola. «Forse… è stata la perdita di sangue? Insomma, a… a ucciderlo».
«Non lo sapremo finché non avranno concluso l’autopsia». Logan tirò fuori l’altro mucchietto di fotografie, quelle della vittima di sabato sera, e le posò sopra alle prime. L’uomo incravattato li fissò dal basso con i suoi occhi cotti dalla vampa. «La prova del fuoco. Identica a quella descritta nel romanzo».
Alex se ne restò immobile a bocca aperta.
Una vespa si posò sul Cornetto che stringeva in mano, ronzando come un serial killer soddisfatto.
«Mezzo strangolato e poi bruciato vivo».
«In Scozia, prima li strangolavano… Passavano una corda intorno al collo della vittima e la torcevano mentre era legata al palo, in attesa che accendessero il fuoco e… Ah! Bastarda!». Alex lasciò cadere il cono e agitò una mano in aria, saltando su dalla panca.
Logan mordicchiò il suo gelato. «Perché non hanno incravattato anche la vittima qui dentro?»
«Quella stronza mi ha punto…». Lo storico si succhiò il dorso della mano.
«Insomma, hanno incravattato l’altra vittima, perché non questa?»
«Maledette vespe…».
Il cellulare di Logan prese a squillare dalla sua tasca. Lui lo recuperò: numero sconosciuto. «Pronto?»
«Pronto? Ispettore McRae? Sono April. Cioè, la dottoressa Graham. L’antropologa forense, sa…».
«Sì, ho capito, so chi è lei».
«Bene. Sì, ecco, pensavo che le avrebbe fatto piacere saperlo: ho quasi completato la ricostruzione del volto della vittima. Vuole che poi cominci a lavorare sui resti scheletrici trovati sul tetto della roulotte?»
«Mi dia…». Logan controllò l’orologio. «Una mezz’ora».
«Se si farà approvare la spesa, una ricostruzione facciale potrebbe…».
«Ha avuto notizie dal suo amico, quello degli isotopi?».
Una pausa. «Ho inviato i campioni soltanto ieri sera, lui…».
«Insista, gli spieghi che è una questione prioritaria».
Lo storico tornò a sedersi sulla panca, aprendo e chiudendo il pugno e fissando cupamente il ponfo arrossato che era comparso tra le sue nocche. «Ah…».
«Arriverò non appena avrò finito con una faccenda». Logan chiuse la telefonata e ripose il cellulare in tasca. Si alzò in piedi. «Sarà meglio che vada, ora».
Alex rivolse lo sguardo su di lui. «Pensa che sia qualcuno che lavora al film?»
«Qualcosa del genere».
Un sospiro. «È terribile pensare che potrebbe essere qualcuno con cui lavoro».
«Stiamo seguendo diverse piste». Logan lanciò una nuova occhiata all’orologio. «Senta, mi spiace davvero metterle fretta, ma devo assolutamente andare…».
«Sì, capisco». Lo storico si alzò faticosamente in piedi, succhiò di nuovo il ponfo sulla mano e seguì l’ispettore sul sentiero lastricato che conduceva verso la casa. «Lei crede nelle streghe?»
«Naturalmente no».
«Nel libro, neanche Rowan ci crede. Una cacciatrice di streghe che non crede all’esistenza delle streghe. E non crede neanche a talismani come quello».
Logan si fermò. Si girò.
Lo storico stava indicando un punto della grondaia accanto alla porta della cucina.
«Talismani?». Due passi indietro e lo vide: tre ossicini legati insieme da un nastro nero. Proprio come quelli che aveva trovato davanti alla roulotte.
«In Witchfire, c’è un bokor vudù che li usa per proteggersi dai nemici». Alex si strinse nelle spalle. «Gliel’ho detto che c’è un miscuglio di religioni e miti di ogni tipo, in quella storia».
«Mi avevate detto che avevate finito di controllare la scena del crimine!». Logan si passò il cellulare da un orecchio all’altro, mentre premeva l’acceleratore a tavoletta. Il motore della vecchia fiat cigolava e gemeva, mentre l’ago del tachimetro ondeggiava verso i centodieci chilometri orari, nella discesa a rotta di collo dalla collina di Tyrebagger.
La voce del capo tecnico della Scientifica era sottile, come se la stesse forzando attraverso i denti serrati. «Infatti avevamo finito. Non c’è nulla…».
«E allora perché ho appena trovato tre ossa di falangi umane appese all’esterno della porta sul retro della casa?»
«Questo non è…».
«Faccia subito tornare i suoi al lavoro, e li faccia lavorare come si deve!».
«Non osi…».
«Avete lasciato dei resti umani sulla scena di un crimine, John. Come lo definirebbe, esattamente, questo lavoro? E ora veda di… John?». Una pausa. «John?». Ovvio, aveva attaccato. Dannata primadonna.
Logan sorpassò un autotreno e provò a chiamare la Chalmers.
«Capo?»
«Voglio che tu vada subito a casa di Agnes Garfield e prelevi un campione del suo dna. Se i genitori ti fanno problemi, spiega loro che è la procedura standard, quando si cerca una persona scomparsa».
«Non si preoccupi, capo: ho idea che saranno molto più collaborativi, ora che sanno che sta bene».
«E perché mai dovrebbero…?». Il bancomat: era stata identificata dalla telecamera. Maledizione. «I suoi genitori non lo sanno. Non abbiamo detto loro che è stata identificata mentre ritirava il denaro dal conto di Anthony Chung». Dannata idiota.
Ci fu una pausa. Poi la Chalmers tornò a farsi sentire, con un tono che nascondeva un sorriso. «Fantastico: vuol dire che sarò io a dare loro la buona notizia. Non sarà un problema, ottenere un campione, dopo che gliel’avrò detto. Sicuramente… oh, un momento, mi scusi…». Ci fu un fruscio, come se lei avesse messo una mano sul ricevitore. Poi tornò. «L’agente Guthrie dice che c’è un certo dottor Goulding, qui, che vorrebbe vederla».
«Fatelo accomodare in una delle sale interrogatori con Robbie Whyte. Voglio una valutazione psichiatrica completa».
«Detenzione di emergenza?»
«E di’ a Goulding di fare in modo di arrivare alla conclusione che Whyte è capace di intendere e di volere». A quel punto, Logan schiacciò con forza i freni, spostandosi sulla carreggiata interna per poter girare a destra sulla strada a due corsie.
«Pensa che potrebbe essere stato lui a…». Ci fu una pausa. «A compiere l’omicidio?».
Bella domanda.
Logan sforzò il motore, attraversando le corsie e infilandosi tra un furgone del pane e un minibus. «Non appena avrai ottenuto un campione del dna di Agnes, assicurati che lo mettano a confronto con quello trovato sulla vittima incravattata e sul cadavere che abbiamo ritrovato ieri sera E anche con i resti ritrovati sul mio tetto».
La Chalmers fischiò tra i denti. «Pensa che sia stata lei a ucciderli tutti e tre?»
«Spero proprio di sì, altrimenti ci ritroveremo ad avere a che fare con un intero gruppo di pazzi schizzati che ammazzano la gente». Pazzi… Fidarsi è bene… «E fai controllare anche il dna di Robbie Whyte, già che ci siamo».
Ci fu una pausa, poi il citofono ronzò e il cancello si aprì. Logan lasciò la strada e si immise sul lungo vialetto coperto di ghiaia. Piccoli frammenti di granito si infilarono nei cerchioni arrugginiti delle ruote della vecchia fiat, tintinnando e crepitando.
La casa di Wee Hamish Mowat era una grossa villa vittoriana di solido granito grigio, tutta finestre sporgenti e arzigogoli sui timpani e sulle grondaie. Logan parcheggiò la Punto accanto a una Land Rover Defender rosso fuoco che non sembrava mai essere andata fuori strada in vita sua.
Il suo cellulare squillò mentre usciva dalla macchina. Premette il pulsante per rispondere. «Pronto?»
«Laz? Sono Tim… Tim Mair, ricordi? Vorrei parlarti di prodotti contraffatti che abbiamo…».
«Senti, Dildo, dobbiamo fare un’altra volta, sono impegnato, adesso».
«Okay. Oggi pomeriggio? Verso le tre? Ho delle imitazioni di biscotti alla crema che puoi anche scroccare, se ti va».
Maledetti Standard Commerciali, e maledetti i loro biscotti contraffatti. «D’accordo. Alle tre».
«Avrò bisogno di almeno…». Dildo continuò a parlare, ma Logan non lo stava più ascoltando.
La porta d’ingresso si aprì, rivelando la nipote di Tam Grand’uomo Slessor, con addosso un’uniforme azzurra da infermiera, un paio di scarpe da ginnastica bianche e un cipiglio che avrebbe potuto far cagliare il latte. Incrociò le braccia sull’ampio petto. «È occupato».
Tornò per un attimo con l’attenzione al telefono.
«…a Mastrick, quindi non dovrebbe essere…».
«A dopo, Dildo». Attaccò, chiuse a chiave lo sportello della fiat e attraversò la ghiaia che gli scricchiolava sotto le scarpe fino a raggiungere la base della scalinata. «Sa che è reato fornire un alibi falso, Ms Slessor?».
Un sorriso affilato comparve sulle labbra della donna. «Reuben è stato qui con me per tutto il tempo. Lo abbiamo fatto come conigli. Ed è un amante molto sensuale».
Santo Dio, quella era davvero un’immagine che avrebbe richiesto la spazzola di ferro e il disinfettante per essere eliminata. «Non è vero, era fuori dalla mia dannata roulotte».
«Nah, deve aver sbattuto contro una porta, o qualcosa del genere. Poi ha cercato di incolpare il povero Reuben, quando in realtà non ha mai fatto niente di male a nessuno. Lei è uno schifoso bugiardo».
Logan avanzò di qualche passo verso di lei.
La donna distese le braccia, con entrambi i pugni serrati, come sacchi pieni di pietre. Il sorriso sul suo volto si ampliò. «Si faccia avanti, se ha il coraggio».
Logan si fermò. Inspirò profondamente. Contò fino a cinque. «Devo vedere Hamish».
«Mr Mowat è indisposto».
«Non sto scherzando, ho bisogno di parlare…».
«Lei ha bisogno di tornare nella sua piccola e rugginosa bagnarola e di andarsene al diavolo fuori dalla proprietà di Mr Mowat, ecco di cosa ha bisogno».
Logan tirò fuori il distintivo. «Ha capito bene?».
Lei piegò la testa di lato, creando una mezzaluna di pappagorgia. «Ha forse un mandato? Perché se non ce l’ha, può anche… Ehi! Torni subito qui!».
Neanche per sogno.
L’ispettore aggirò il lato della casa, mentre le scarpe da ginnastica dell’infermiera Slessor scricchiolavano sulla ghiaia alle sue spalle. Era veloce, per essere una piccoletta obesa.
Il sentiero correva tutto intorno alla casa, e sul retro si trovava un ampio prato verde smeraldo, punteggiato di alberi e cespugli e di aiuole in Technicolor.
«Torni indietro!».
Le porte della serra erano aperte e conducevano a una zona rialzata circondata di rose che crescevano in enormi vasi di legno. Wee Hamish era sistemato su una sedia a rotelle in un punto al sole, con una coperta a scacchi sulle ginocchia e una maschera d’ossigeno sul volto. A capo chino, e con la schiena curva in avanti.
Logan salì i gradini.
Una voce venne dal giardino, superando il ronzio di un tosaerba. Reuben. «Chloe? Che succede?»
«È tornato!».
Wee Hamish sussultò, con la mano sinistra che tremava sulla coperta. «Mmmph?». Poi sbatté le palpebre sugli occhi umidi e iniettati di sangue e notò Logan. «Nnngnn, a cffdbbm…?».
L’infermiera Slessor salì le scale che conducevano alla serra. Prese Logan per un braccio. «Mi dispiace, Mr Mowat, gli ho detto che stava riposando, ma non ha voluto…».
«Mi tolga le mani di dosso». Logan si liberò dalla sua presa. «Hamish, dobbiamo parlare. E dobbiamo farlo subito».
Wee Hamish sollevò una mano al volto e si tolse la maschera. «Logan…». Sorrise. «A cosa dobbiamo l’onore?»
«Gliel’ho detto, ma non mi ha ascoltato». La donna tornò ad afferrarlo per un braccio. «Reuben!».
Un nuovo crepitio di passi sulla ghiaia, accompagnato da una serie di ansiti e sbuffi, e infine la voce di Reuben ringhiò dal giardino: «Che diavolo ci fai qui?»
«Hamish, dico sul serio».
Con un tonfo, uno stivale con la punta rinforzata di metallo piombò sul gradino più basso della serra. «Non hai imparato la lezione, l’ultima volta?».
Logan si girò, con le spalle dritte e il mento sollevato. «Ci vuoi riprovare, grassone?».
Il volto sfregiato di Reuben si raggrinzì intorno al suo sguardo assottigliato. «Sei morto, cazzo».
«E allora fatti avanti: non sarà la prima volta che ti prendo a calci in culo, giusto?».
Wee Hamish scoppiò in una roca risata che si concluse con un secco rantolo. «Bambini, bambini. Comportatevi bene, o niente gelato, per voi».
Logan continuò a guardare dritto davanti a sé. «Questo grasso bastardo è venuto a farmi un agguato sulla porta di casa, domenica mattina. E la tua infermiera gli ha fornito un alibi».
«Capisco…». Wee Hamish tossì. Poi sospirò. «Reuben, hai davvero teso un agguato all’ispettore McRae?»
«Certo che no».
«Chloe, Reuben è stato con te per tutto il tempo di questa presunta aggressione?»
«Sì, Mr Mowat».
Wee Hamish annuì. «Ecco, Logan, evidentemente devi esserti sbagliato, allora».
«Sbagliato? io ero lì!».
Un freddo sorriso comparve sul volto del vecchio, senza neanche sfiorargli lontanamente gli occhi. «Reuben ha un alibi. Mi sta dicendo che non ti ha colpito, e io gli credo. Fine della storia».
«Neanche per sogno!». Logan si liberò nuovamente dalla presa dell’infermiera Slessor e avanzò di un passo verso Reuben.
Il gigante sogghignò, mostrando diversi denti mancanti. «Quando vuoi, tesoro».
Un altro stanco sospiro si fece sentire dalla sedia a rotelle. «Chloe, perché non vai a farci una buona tazza di tè? Reuben, sono certo che hai ancora molte cose di cui occuparti».
Reuben si strinse nelle spalle e si umettò le labbra. «Non me ne frega niente». Poi si voltò e si allontanò, con le mani affondate nelle tasche e fischiettando la musica de La grande fuga.
L’infermiera Slessor sbuffò, fece strusciare le suole delle scarpe da ginnastica sul pavimento della serra, come se fosse un toro in procinto di caricare, poi annuì e tornò in casa, a testa alta.
Wee Hamish appese la maschera d’ossigeno a un gancio inserito sul lato della sedia a rotelle. «Ecco: pace fatta».
Era incredibile. «Reuben mi stava aspettando, sulla porta di casa, alle sei del mattino! Come puoi credere a quel maledetto bastardo…».
«La lealtà non va a senso unico, Logan. Non posso aspettarmi che i miei uomini mi siano fedeli, se io non li ripago con la stessa moneta». Armeggiò per un attimo con la leva di controllo della sedia, per poi farla spostare ronzando in avanti e a sinistra, proprio sul bordo del pavimento della serra. In lontananza, Reuben era a bordo di un grosso tosaerba.
Wee Hamish lo indicò con un indice tremante e deformato dall’artrite. «Reuben si considera un maschio alfa. E quando me ne sarò andato… Quando me ne sarò andato, lui si aspetta di poter guidare il branco. Ti vede come una sfida, un ostacolo al coronamento del suo obiettivo, quindi fa l’unica cosa che per lui ha senso: attacca. Devi dimostrarti più maturo di lui, accettarlo e andare avanti».
Accettare di essere aggredito e preso a pugni in faccia?
Logan aggrottò la fronte, mentre il tosaerba borbottava, accendendosi di nuovo. «E se la prossima volta porterà una pistola?».