capitolo 31
Un profondo e basso scoppio di tuono riempì lo Studio Due, forte abbastanza da far vibrare i polmoni nel petto a Logan. Tutto intorno a lui, le persone se ne stavano in silenzio a fissare il set che ricostruiva un palazzo di quattro piani, mentre Nichole Fyfe si muoveva sul tetto, inseguita da tre uomini vestiti completamente di nero. L’azione era riprodotta su un’enorme tv a schermo panoramico al pianterreno dello studio.
Mezza dozzina di irrigatori a pioggia pompavano acqua dal soffitto, inondando il tetto del set di un falso temporale e facendo scintillare ogni cosa. Poi un lampo di luce rese per un attimo il mondo in bianco e nero, prima che riecheggiasse un nuovo tuono.
Nichole scivolò sul bordo del tetto, con le braccia che si agitavano per mantenere l’equilibrio, mentre una telecamera faceva una ripresa a volo d’uccello dell’intero edificio, montata su una grossa gru.
I tre uomini che la inseguivano si allargarono a ventaglio, spade e pugnali che scintillavano alla luce dei lampi, quando…
Qualcuno tirò la manica a Logan.
Lui si girò, vedendo Nichole Fyfe che lo guardava dal basso.
Eh?
Logan tornò a fissare per un attimo il tetto. No… era ancora lassù. Poi riportò lo sguardo su quella accanto a lui.
La somiglianza era incredibile.
Lei sorrise. Poi si alzò sulle punte dei piedi per sussurrargli all’orecchio, il respiro caldo e dolce sulla sua guancia: «È una controfigura. Non mi fanno girare le scene pericolose». Si strinse nelle spalle. «L’assicurazione». Poi si scostò di qualche centimetro e ammiccò. Tornò a chiudere le distanze. «Volevo ringraziarla per… be’, sa, stamattina».
Lui si girò, le labbra sfiorarono i suoi capelli nel movimento. Sapevano di mandarino. E di sudore dolciastro. «Sono lieto di vedere che sta bene».
Perché improvvisamente stava facendo così tanto caldo, lì dentro?
Un altro lampo, poi il boato del tuono.
Lei lo abbracciò e gli stampò un bacio sulla guancia, prima di rivolgergli un “grazie” in labiale. I suoi occhi erano grandi e scuri.
Logan si schiarì la gola.
E la parola stop! riecheggiò dagli altoparlanti, seguita dalla voce di Zander: «Scusatemi tutti, ma sono venuti fuori dei riflessi terribili dalla spada dell’Inquisitore Tre. Non possiamo farla opacizzare?».
Subito dopo, un esercito di persone sciamò sul tetto, e tutti, al pianterreno, cominciarono a parlare contemporaneamente.
Nichole fece un passo indietro. «Robbie si riprenderà?». Poi aggrottò la fronte. «Intendo… il vero Robbie, non… il cane, ecco».
«Sarà trattenuto in stato di arresto, in base alla legge sulla salute mentale, perché possano accertarsi delle sue condizioni psicologiche. Poi probabilmente riceverà delle cure in un istituto specializzato».
«È un bene per lui, giusto? Che venga aiutato?». Si strinse le braccia intorno al busto. «Non riesco ancora a credere che abbia fatto quella cosa orribile al Piccolo Robbie».
«A volte le persone si comportano in modo strano».
Lei si avvicinò di nuovo e tornò a baciare Logan sulla guancia. «Grazie per aver fatto qualcosa per lui. E per me».
«Sì, be’…».
Una voce cupa e profonda si fece sentire attraverso il brusio di sottofondo. «Nichole?». Era Insch. «I truccatori ti stanno aspettando, se sei sicura di volerlo fare».
Lei annuì, per poi posare una mano sul petto di Logan. «Grazie ancora». Poi si girò e si allontanò a grandi passi, le braccia che ondeggiavano lungo i fianchi, come se stesse partecipando a una parata.
Insch aggrottò la fronte, affondò la mano in una tasca e ne trasse una busta di fettine di mela. Se ne ficcò una in bocca. «Avresti dovuto parlare con il suo ex, ieri. E comunque non mi piace che ti metti a chiacchierare con la mia attrice protagonista».
«Non stavo chiacchierando…». Ogni dannata volta. «L’autore è qui?»
«Mr Hunter è nella sala conferenze numero due. Cerca di non metterlo di malumore, o passerà il resto della giornata a lamentarsi e non otterremo niente di decente da lui fino a domani pomeriggio».
«Non ti prometto nulla…». Allungò il collo, dando un’occhiata al set. «A proposito, hai visto l’agente Sim?».
Nella sala conferenze numero due aleggiava l’aroma caldo del caffè appena tostato, proveniente da una macchina per l’espresso che borbottava in un angolo dell’ampia stanza rettangolare. Diversi tavoli erano stati uniti insieme per realizzare una vasta superficie, il cui pianale era quasi invisibile sotto a mucchi di fogli di diverso colore, coperti di appunti e segni di evidenziatore. Le tapparelle erano abbassate, e la stanza era illuminata unicamente dal freddo e spiacevole riflesso delle lampade al neon. Una parete era completamente coperta di Post-it gialli, verdi e arancioni, mentre quella opposta era nascosta da bozzetti su fogli A4.
L’unico occupante della stanza era seduto al centro e osservava accigliato lo schermo di un computer portatile, una tazza con la scritta papà peggiore del mondo sistemata accanto al mouse. Era sulla quarantina, con i capelli ricci che circondavano una fronte alta e bombata, lucida sotto al riflesso dei neon; portava il pizzetto, e degli occhiali che avrebbero dovuto dargli un’aria “intellettuale” e “distinta”, senza riuscirci minimamente.
La Sim si aggrappò a una manica di Logan. «Dio! È proprio lui!».
Logan si limitò a tirare fuori il distintivo. «Mr Hunter?».
L’uomo non alzò lo sguardo dallo schermo del laptop, accennando a un punto all’estremità opposta del tavolo. «Metteteli lì, e dite a David che ho risolto il suo problema di continuità con la quattrocentoquindici».
«Polizia, Mr Hunter. Sono l’ispettore McRae, e lei è l’agente Sim. Dobbiamo farle qualche domanda».
L’uomo li fissò da sopra gli occhiali. «Non mi avete portato i sandwich?».
Logan scostò una sedia e si accomodò. «Sim, perché non vai a prenderci una tazza di caffè? Sono certo che a Mr Hunter farebbe piacere».
«Hmmh?». L’agente indugiò per un attimo, arrossì e poi si affrettò a raggiungere la macchina del caffè, cominciando ad armeggiarci.
Hunter spostò di lato una pila di fogli di sceneggiatura e sollevò una copia dello «Scottish Sun». «Mi lasci indovinare, siete qui per questo?». Il titolo, Folle assassino satanista copia scena dell’omicidio di un libro, era sparato a grandi lettere sopra una foto della casa di Kintore, e a un disegno che ricostruiva il Nodo ad Anello di Witchfire.
Logan recuperò il taccuino. «Ha molti fan, Mr Hunter?»
«Perché la polizia deve sempre usare soltanto il cognome della gente? Lo fate per mettere in soggezione le persone?»
«In realtà, lo facciamo per educazione».
«Allora può chiamarmi William. Odio i diminutivi come Will, Willy, Billy e Bill, quindi la prego di non usarli». Lasciò cadere il giornale sul tavolo. «E, sì, ho molti fan. Ricevo così tante email che ho dovuto assumere una giovane donna che rispondesse fingendo di essere me. Il che è ironico, perché di solito è il contrario, su Internet. Ma tutti quei “Da dove trai ispirazione per le tue idee?”, “Chi sceglieresti come protagonisti del film?” e “Quando uscirà il prossimo libro” mi stavano facendo diventare matto».
«E cosa può dirmi… dei più ossessivi?».
Le labbra dello scrittore si protesero in avanti e verso il basso. «I pazzi, intende? Ogni autore se ne ritrova qualcuno. Gente che crede che i personaggi siano reali, oppure che pensa di avere il diritto di spiegarti come dovresti fare il tuo lavoro; gente che vuole essere come le Dita, o che vorrebbe che scrivessi la storia della sua vita. Insomma, ne ho di tutti i tipi».
La Sim posò una tazza di caffè davanti a Logan, la mano che tremava al punto da farne schizzare qualche goccia sui fogli azzurri di una parte di sceneggiatura già revisionata. Poi si affrettò ad aggirare il tavolo, per prendere la tazza di Hunter, quella con la scritta papà peggiore del mondo, e la portò alla macchina del caffè.
«E la situazione è peggiorata, da quando hanno iniziato a girare il film?»
«Pfff…». Hunter si grattò i ricci all’attaccatura della fronte alta e lucida. «Si sono moltiplicati come funghi in uno scantinato umido. Comunque, continuo a pensare che sia solo un piccolo prezzo da pagare in cambio. Ero stanco di essere preso in giro dalle grandi case cinematografiche hollywoodiane, che promettevano la luna e poi non combinavano mai nulla. È successo otto volte, dovevano farlo e poi è sempre sfumato nel nulla. Otto volte». Allargò le braccia, comprendendo nel gesto l’ampio tavolo e tutti quei mucchi di fogli. «Ma questa volta otterrò una percentuale e posso partecipare alla produzione, quindi ho ceduto i diritti a un prezzo ragionevole. Naturalmente, ora sono bloccato qui a riscrivere per intero delle scene, ma per lo meno il film si farà davvero». Lasciò ricadere le mani sul pianale del tavolo. «E naturalmente, non appena l’hanno saputo, i matti sono venuti fuori a frotte».
«Qualcuno di loro le è sembrato particolarmente strano, o inquietante? Qualcuno ha mai parlato di mettere al rogo le streghe, o torturarle?»
«Per la maggior parte, neanche leggo i loro messaggi. Se lo facessi, non avrei più tempo per scrivere».
La Sim posò la tazza di Hunter sul tavolo, accanto al portatile, così rossa in volto da sembrare ormai prossima alla combustione spontanea.
Lo scrittore le rivolse un cenno del capo. «Grazie».
Il viso dell’agente prese una tonalità ancora più accesa, e la Sim rimase lì in piedi a fissarlo in silenzio.
Lui le posò una mano sul braccio. «Va tutto bene, non mordo. Vuole che le firmi una copia del romanzo? Deve essercene qualcuna qui in giro, ne sono certo».
«Oh, mio Dio…».
Logan prese uno dei suoi biglietti da visita della Grampian Police e lo passò all’autore. «Può chiedere alla donna che risponde alle email dei fan se può inoltrarci i messaggi che ha ricevuto e che ritiene sospetti?»
«Non so se li tenga in archivio, ma possiamo scoprirlo…». Spostò il mouse e cliccò su qualcosa, dopodiché digitò sulla tastiera del laptop alla velocità di una mitragliatrice automatica. «Fatto. Si trova in Iowa, quindi probabilmente ci vorrà un po’ di tempo. Non ricordo neanche quante ore di fuso orario ci siano rispetto a qui».
«Ma per caso ha notato qualcuno che si aggirava qui intorno e si comportava in modo sospetto?».
Hunter sollevò un sopracciglio. «Questo posto è pieno di attori e gente collegata al mondo del cinema, ispettore. Si comportano tutti in modo sospetto».
Questa volta, a quanto sembrava, i genitori di Anthony Chung erano a casa. Una brutta Alfa Romeo 4×4 e una Porsche grigia metallizzata erano parcheggiate sul vialetto, dietro al cancello. Entrambe sembravano nuove di zecca, e con la targa personalizzata. Era difficile pensare che vivessero soltanto tre persone in una casa così grande: ci si sarebbe potuta stabilire comodamente un’intera squadra di calcio.
L’agente Sim parcheggiò accanto al marciapiede e lanciò uno sguardo attraverso il parabrezza schizzato di pioggia. «I soldi non gli mancano di certo. Probabilmente questo spiega perché il ragazzo è diventato quello che era. Ricco e viziato».
«E morto». Logan attivò la modalità silenziosa del cellulare, uscì dalla macchina e si affrettò sul vialetto per raggiungere la porta d’ingresso, rifugiandosi sotto la veranda, mentre la Sim lo seguiva rapidamente, guardandosi alle spalle ogni due passi per controllare sul cruscotto l’edizione limitata di Witchfire firmata dall’autore.
L’agente si sistemò il giubbotto antiproiettile e suonò il campanello. Il Bolero di Ravel prese a risuonare, seguito dai latrati del grosso pastore tedesco all’interno.
Ci fu un ronzio, poi la voce di una donna crepitò dal citofono montato sotto a una telecamera di sicurezza. «Chi è?». L’accento era inglese ed elegante. Somigliava a quello degli annunciatori della bbc, prima che diventassero tutti regionali.
La Sim fece un passo indietro, alzando il viso verso la telecamera. «Mrs Chung? Polizia».
All’interno, il cane sembrava sul punto di impazzire. Non la smetteva più di abbaiare furiosamente.
«Posso vedere un distintivo, per favore?».
Come se l’uniforme nera con il giubbotto antiproiettile, il ricevitore radio, la cintura con la pistola d’ordinanza e il berretto con la striscia quadrettata intorno non fossero abbastanza. La Sim sollevò il distintivo verso la telecamera. «Dobbiamo parlarle di Anthony».
Una pausa. Poi: «Sì. Sì, certo…». Uno scatto, e il citofono tacque.
La Sim gonfiò le guance. «Chi di noi due deve dirglielo, capo?»
«Ce la giochiamo a morra cinese?».
Logan era seduto sul divano di un opulento salotto. Pareti bianche, dipinti a olio, una scultura di marmo a grandezza naturale di una tigre con strisce di bronzo, mobilia in cuoio bordeaux e un tappeto color panna. Il tipo di stanza che probabilmente si sporcava soltanto a guardarla.
Mrs Chung era in piedi accanto all’enorme focolare di marmo, e giocherellava nervosamente con il pesante bracciale d’oro che portava al polso. Era vestita di una giacca di seta rossa e di un paio di jeans, i lunghi e lisci capelli neri che incorniciavano un volto dai lineamenti delicati. Il pastore tedesco era seduto ai suoi piedi come una statua di Anubi. Si schiarì la voce. «Siete qui per… Gradite una tazza di tè, o altro?».
La Sim si tolse il berretto e lo tenne contro il petto. «Forse dovrebbe sedersi, signora».
«Oh, no…».
Anche se aveva vinto, Logan si alzò in piedi. «Mrs Chung, Anthony aveva dei segni particolari? Tatuaggi, o cose del genere?»
«Oh no, no, no, no… Vi prego…». Serrò una mano al petto, stringendo nel pugno il tessuto scarlatto.
«Mi dispiace, Mrs Chung, ma temo che abbiamo trovato il corpo di Anthony, ieri notte».
La donna fissò il tavolino, ondeggiando avanti e indietro. «No».
Logan fece un passo verso di lei. «L’agente Sim ha ragione, dovrebbe…». Poi si bloccò. Il pastore tedesco si era sollevato sulle quattro zampe e gli mostrava i denti, rivolgendogli un profondo ringhio decisamente terrificante.
Arretrò, lentamente e con cautela. Niente mosse brusche. «Mi dispiace molto per la sua perdita».
La Sim fece scivolare la mano verso la bomboletta di spray al peperoncino legata alla cintura, senza staccare neanche per un attimo gli occhi dal cane. «Vuole che chiamiamo qualcuno? Suo marito? Qualche parente o un amico?».
Lei si limitò a fissarli. «Anthony non può essere morto. Non può».
Uno scatto metallico si fece sentire dal corridoio all’esterno della sala: qualcuno che entrava dalla porta principale. Poi si udì un chiaro accento americano: «Tesoro? Pensavo che potremmo uscire, stasera. Per festeggiare un po’, no?».
Mrs Chung si lasciò scivolare sul bracciolo di un divano rosso, mentre il cane continuava a ringhiare contro Logan.
«Come si mangia all’Enfield?». La porta del salotto si aprì. «Sembrerebbe…». Un ometto con una polo verde pastello si bloccò sulla soglia, con una borsa da palestra in una mano e i capelli corti e brizzolati che andavano diradandosi sulla fronte alta. Sbatté le palpebre, fissando l’agente Sim e la sua uniforme, e il sorriso gli morì sulle labbra. Inspirò profondamente, poi si tolse gli occhiali e si passò una mano sul volto. «Capisco».
«Ray», Mrs Chung si posò una mano sul petto, mentre con l’altra tentava di farsi aria al viso, «digli che Anthony non può essere morto! Diglielo».
Raymond Chung era in piedi di fronte alla finestra dello studio, che dava su un giardino perfettamente curato, con le siepi e i cespugli pieni di fiori e foglie scintillanti. «Dovete… dovete scusarmi per il comportamento di mia moglie. Kim è… lei adora Anthony». Le sue mani, abbandonate lungo i fianchi, tremarono. «Lo adorava».
Logan si appoggiò alla grande scrivania di teak. «La prego, non c’è nulla di cui scusarsi. Deve essere stato un terribile shock».
La stanza era quasi più grande dell’intera roulotte dell’ispettore, incorniciata di scaffali pieni di libri. Due divani di cuoio verde facevano la loro bella figura sul lucido parquet, mentre su un tavolino di cristallo erano appoggiate alcune riviste di giardinaggio.
«Noi…». L’uomo inspirò profondamente. «Abbiamo lasciato San Francisco perché Anthony si era messo nei guai. Aveva iniziato a frequentare la gente sbagliata. Quelle persone gli avrebbero creato soltanto problemi, così credevamo, e quindi abbiamo pensato: “Ehi, andiamo in un luogo tranquillo e calmo, dove possa crescere al sicuro…”. E invece, non ha fatto che peggiorare». Tirò su con il naso. «Come è successo?».
Non aveva senso tergiversare: i giornali ne avrebbero parlato fin troppo presto. «È stato ucciso. Torturato e strangolato. Circa quattro giorni fa».
«Torturato. Oh, Dio…». Ray Chung si passò i palmi delle mani lungo il lato dei jeans. «Dio santo… La sua ragazza, Agnes… lei sta…?»
«La stiamo ancora cercando».
«Avrei dovuto chiedervelo prima, i suoi genitori devono essere…». Buttò fuori un lieve sospiro, poi si lasciò cadere su uno dei divani. «Torturato…».
«Conosce bene Agnes Garfield?»
«Lei… non lo so, era…». Si sfilò gli occhiali e si asciugò gli occhi con il palmo della mano. «Mi scusi. Se devo essere onesto, ecco, onesto al cento per cento, è sempre stata troppo buona con lui. Anthony la teneva completamente in pugno. Se le avesse detto di saltare, lei l’avrebbe fatto e basta, senza neanche chiedere “Quanto in alto?”. Ma lui l’amava…».
«Anthony ha mai parlato di volersene andare? Magari a vivere da solo…».
«Lui ottiene sempre… Otteneva sempre quello che voleva».
«Forse ha parlato della casa di qualche amico? O di un parente?»
«Non abbiamo parenti, qui. Anthony…». Inspirò profondamente. «Abbiamo lasciato San Francisco dopo che il cugino di Anthony è rimasto ferito in una sparatoria. Stava spacciando droga nell’angolo sbagliato di strada. Mio fratello e sua moglie hanno detto che era tutta colpa di Anthony: che era stato lui a coinvolgere Grant in quella storia. Sono passati otto anni e non ci siamo mai più rivolti la parola».
Raymond Chung si girò a guardare le riviste di giardinaggio sul tavolino, evitando accuratamente gli occhi di Logan. «Io… temo di aver sempre saputo che Anthony sarebbe finito… che avrebbe…». Tornò ad asciugarsi gli occhi. «Oh, cielo…».
Logan avanzò verso la grande finestra, lasciandogli lo spazio necessario a esprimere il proprio dolore. Un grasso gatto rosso procedeva sinuoso lungo la siepe in fondo al giardino, con la coda che disegnava curve morbide nell’aria umida. «Mi dispiace, immagino che questa notizia debba essere terribile, per voi. Un agente specializzato nei rapporti con le famiglie vi contatterà presto. Vi terrà aggiornati sull’indagine e risponderà a tutte le vostre domande».
«Possiamo… vederlo?».
Mezzo decomposto sul tavolo operatorio dell’obitorio, con i denti spezzati e coperto di lividi, tagli e abrasioni? «Non so se sia una buona idea. È stato picchiato con violenza, e dopo quattro giorni al caldo, è…».
«Voglio vedere mio figlio!».
L’agente Sim rimise a posto il materasso, per poi risistemare il lenzuolo.
Logan si appoggiò al guardaroba. «Niente?».
La stanza di Anthony Chung era grande quasi quanto lo studio di suo padre. Un letto a due piazze, scaffali di dvd e cd, una tv a schermo piatto delle dimensioni di un tavolo da pranzo, console di videogiochi, un divano, un grosso e scintillante computer portatile color argento, un attrezzo per i pesi e una collezione di bottiglie vuote di birra impilate a piramide.
La Sim rimise al suo posto anche il copriletto. «Niente. Ma se era sua madre a rifargli il letto e a passare l’aspirapolvere…».
Anthony non avrebbe mai lasciato niente di incriminante dove lei potesse trovarlo. A meno che non volesse deliberatamente provocare una reazione. «Dunque: nulla sotto il letto, né nei cassetti della scrivania, e neanche sotto alla biancheria». Logan si voltò lentamente su se stesso, socchiudendo gli occhi.
Dove un piccolo bastardo ricco, viziato e manipolatore avrebbe nascosto qualcosa che non voleva far trovare?
La Sim si sedette sul bordo del letto. «Cosa le fa pensare che stesse nascondendo qualcosa?»
«Gli adolescenti lo fanno sempre». Logan accennò alla finestra. «Dai un’occhiata».
L’agente si alzò e raggiunse il davanzale, sollevandosi in punta di piedi per lanciare uno sguardo verso il giardino. «Cosa?».
Lui le si affiancò, indicando la grondaia di plastica nera mezzo metro più in basso. Dei piccoli cilindri di carta affioravano tra le foglie secche, insieme a grigi filtri di sigarette. «Li vedi quelli?».
Una ruga dritta fece la sua comparsa tra gli occhi stretti della donna. «Fumava delle sigarette fatte a mano. Ma questo non…».
«Tutti i suoi amici hanno dichiarato che era sempre stordito di canne. E se fumava erba quassù, sicuramente deve essercene una scorta da qualche parte».
«Ne è sicuro, capo?». La Sim lanciò un’altra occhiata alla grondaia. «E perché avrebbe dovuto mettere il filtro ai suoi spinelli? Che razza di persona fa una cosa del genere? Insomma, so che era americano, ma comunque…».
«Dove può averla nascosta?»
«Hmm…». La Sim si allontanò dalla finestra. Poi raggiunse gli scaffali, con un dito che scorreva il dorso dei vari dvd, la testa piegata leggermente di lato, probabilmente per leggerne i titoli. E poi pensava che gli americani erano strani.
Logan prese il cellulare e chiamò la Centrale. «L’ispettore Leith ha già organizzato la visita di un agente specializzato per i genitori di Anthony Chung?».
La voce dell’altro capo della linea era nasale e rauca. «Un momento…». La donna tacque per un attimo, poi sembrò trattenere una serie di starnuti. «Dannata allergia ai pollini… Mi scusi, ehm… ecco: agente Munro, andrà da loro non appena avrà terminato con i parenti di una vittima di incidente mortale. Vuole che gliela chiami?»
«Volevo soltanto assicurarmi che sia…».
«Cosa?». Ci fu un fruscio, poi delle voci soffocate. «Mi scusi. Il capo vuole sapere se ha già parlato con la persona che è venuta a cercarla, perché la sua presenza non è gradita».
«Non so di cosa sta parlando: sono a casa di Anthony Chung, al momento».
«C’è una persona che la aspetta alla reception».
«Bene… e perché nessuno mi ha avvertito? Non ho ancora i poteri psichici, dannazione!».
«Abbiamo cercato di chiamarla almeno una decina di volte».
Fantastico. «Sono dovuto andare dai genitori di Anthony Chung a dare loro la notizia della morte del figlio». Oh, Dio… e se era l’avvocato di Wee Hamish tornato per una nuova puntata di Ecco come ti rovino? Logan si umettò le labbra. «Chi è questa persona?».
Ci fu un altro fruscio, seguito da una nuova breve conversazione soffocata. E poi: «Sul serio? È questo il suo nome? Okay…». A quel punto, la donna tornò a parlargli al telefono. «Un certo “Dildo”, degli Standard Commerciali…».
Logan tirò un lungo e lento sospiro di sollievo. Qualunque cosa Dildo volesse, poteva attendere.
«Ispettore McRae?»
«Gli dica che lo richiamerò non appena sarò tornato».
«Ma riguardo a…».
Attaccò.
L’agente Sim lo guardò sorridendo soddisfatta.
«Che c’è?».
Lei accennò con il pollice oltre la propria spalla, verso i dvd. «Ha dei giochi per PlayStation e per Wii, ma non ha…».
«Dove vuoi arrivare?»
«Non ha giochi per Xbox, eppure…», indicò le varie console sistemate nel mobile sotto lo schermo piatto della tv, «ha l’Xbox. E non parliamo di un’Xbox 360, ma di una di quelle vecchie, che assomigliano a ingombranti e pesanti valigie».
La Sim si accosciò davanti al mobiletto e tirò fuori la console di plastica nera dal suo scaffale. Aveva più o meno le dimensioni di due scatole da scarpe unite insieme, e una grossa “X” verde in cima. «Non è neanche collegata». La appoggiò sulla scrivania e si infilò un paio di guanti di nitrile azzurro. «Dovrebbe essere piuttosto semplice da… Ecco». Uno scatto, e la parte superiore venne via.
All’interno c’erano due buste di plastica trasparente piene di marijuana, mezza dozzina di confezioni di cartine Rizla, qualche piccolo barattolo di metallo, una macchinetta per confezionare sigarette e una scatola di filtri. Niente cavi o pezzi elettronici.
La Sim sollevò una delle buste di plastica e la scosse leggermente. L’erba all’interno frusciò. «Wow, questo sì che è un carico serio. Forse spacciava?»
«C’è altro, là dentro? Un diario? Una rubrica? Cose del genere?».
L’agente tornò a prestare attenzione all’Xbox svuotata e vi rovistò dentro. «Niente. Un paio di barattoli di resina, qualche pillola, ma niente di simile a un diario come quelli di una volta. I ragazzini ormai sono totalmente votati all’elettronica».
Era stata una speranza troppo azzardata. «D’accordo, confisca la droga, il computer e gli eventuali cellulari che dovessi trovare».
Lei richiuse l’Xbox. «Chissà, magari saremo fortunati».
C’era sempre una prima volta.