Crescere alla Dunbar
E così eccoli lì, proiettati nel lontano
futuro.
Un uccello
irascibile.
Un pesce rosso
acrobata.
Due ragazzi coperti di
sangue.
E adesso guardate Clay,
nella sua storia di fondo.
Che cosa possiamo dire
di lui?
Come cominciava la vita,
quando eri un ragazzo, un figlio, e un Dunbar?
In modo piuttosto
semplice, in verità, con una folla di gente.
C’erano una volta, nella
marea del passato dei Dunbar, cinque fratelli. Il quarto era il
migliore, una persona dalle numerose qualità.
Ma Clay com’era
diventato Clay?
*
In principio c’eravamo tutti – ciascuno di noi
una piccola parte che serviva a raccontare il tutto – e nostro
padre aveva dato una mano in ogni singolo parto; era stato il primo
a tenerci in braccio. Come Penelope amava dire, se ne stava lì,
assolutamente consapevole, e piangeva accanto al letto, raggiante.
Non aveva mai un mancamento vedendo lo schifo che usciva, o quei
frammenti che sembravano carbonizzati, quando la stanza cominciava
a girare. Per Penelope, questo era tutto.
Dopo, lei cedeva alle
vertigini.
Il battito del cuore le
saliva alle labbra.
Era buffo, adoravano
dirci, come al momento della nascita in tutti quanti ci fosse una
caratteristica che avevano amato subito.
Per me erano stati i
piedi. Quei piedini da neonato che sembravano
sgualciti.
Per Rory, il naso
schiacciato dei primi mesi di vita, e i versi che faceva nel sonno;
simili a quelli di un pugile che si batte per il titolo mondiale.
Ma almeno sapevano che era vivo.
Henry aveva le orecchie
di carta.
Tommy starnutiva
sempre.
E naturalmente c’era
Clay, tra noi.
Il bambino che era
venuto al mondo sorridendo.
Narra la storia che,
quando Penny era in travaglio, avevano affidato me, Henry e Rory
alla signora Chilman. Durante la corsa verso l’ospedale, erano
stati sul punto di accostare; Clay stava uscendo in fretta. Come
poi gli avrebbe detto Penny: il mondo l’aveva desiderato
moltissimo, ma non si era mai chiesta perché.
Perché ferisse o
umiliasse?
O perché amasse e
facesse qualcosa di grande?
Persino adesso è
difficile decidere.
Era una mattina
d’estate, umida, e quando erano arrivati al reparto maternità Penny
urlava, camminava ancora sulle sue gambe, la testa che cominciava a
uscire. Più che nascere, Clay era stato strappato fuori, come se
l’aria l’avesse afferrato.
In sala parto, c’era
stato molto sangue.
Una pozza sul pavimento,
come dopo un omicidio.
Quanto al bambino,
giaceva nell’atmosfera soffocante e, stranamente, sorrideva in
silenzio; il visetto sporco di sangue coagulato era muto. Un’ignara
infermiera era entrata e, dopo essere rimasta a bocca aperta, si
era messa a bestemmiare. Lì, ferma, aveva esclamato: «Gesù
Cristo».
E a risponderle era
stata nostra madre, stordita.
«Spero di no», aveva
detto, e nostro padre aveva sorriso. «Sappiamo bene che cos’abbiamo
fatto…»
Da bambino, come dicevo,
era il migliore di tutti noi.
Per i nostri genitori,
in particolare, era speciale. Lo so, perché non litigava quasi mai,
piangeva poco e amava tutto quello che gli raccontavano. Sera dopo
sera, mentre noi accampavamo scuse, Clay dava una mano con i
piatti, in cambio di un’altra storia. A Penny domandava: «Puoi
parlarmi ancora di Vienna? E di tutte quelle brandine? Oppure mi
parli di quest’altra cosa?» Aveva il viso immerso nei piatti, la
schiuma del detersivo sui pollici. «Mi dici della statua di Stalin?
E poi, chi era Stalin?»
A Michael domandava: «Mi
racconti di Moon, papà? E del serpente?»
Stava sempre in cucina,
mentre noi eravamo a guardare la TV, o a fare a pugni in salotto o
nel corridoio.
Naturalmente, i nostri
genitori ritoccavano i racconti.
Le storie
comprendevano quasi
tutto.
Penny non gli diceva
quanto tempo erano rimasti sul pavimento del garage, a dare botte,
e colpi, a bruciarsi, per esorcizzare le vite passate. Michael non
gli parlava di Abbey Hanley, che era diventata Abbey Dunbar, e poi
Abbey Qualcun-Altro. Non gli diceva di come aveva seppellito la
vecchia MDS, né de Il
cavatore, di come un tempo avesse
amato dipingere. Non gli aveva ancora spiegato cosa si provava con
il cuore in pezzi, o di quanto avere il cuore a pezzi potesse
rivelarsi una fortuna.
No, per il momento
quelle mezze verità erano sufficienti.
A Michael bastava dire
che un giorno si trovava sulla veranda, e aveva visto una donna con
un pianoforte. «Se non fosse stato per quell’incontro», confidava
al figlio, «non avrei avuto né te né i tuoi fratelli.»
«E neanche
Penelope.»
Michael sorrideva, e
rispondeva: «Giusto, dannazione».
Quello che nessuno dei
due poteva sapere era che Clay avrebbe ascoltato quelle storie
nella loro versione completa, e appena in tempo. Perché poi sarebbe
stato troppo tardi.
Le avrebbe ascoltate
quando ormai sarebbe servita una gru per sollevare gli angoli delle
labbra di Penelope.
Penelope dal viso
devastato.
Come potete immaginare,
all’inizio aveva solo vaghi ricordi di due cose in
particolare.
I suoi genitori. I suoi
fratelli.
Le nostre forme. Le
voci.
Rammentava le mani di
mamma sul pianoforte che navigavano sui tasti. Avevano un magico
senso dell’orientamento… mentre battevano su tutte le lettere della
frase: TI PREGO
SPOSAMI.
Per lui, Penelope aveva
il sole nei capelli.
Il corpo caldo,
snello.
Ricordava di aver avuto
paura di quel grande oggetto scuro, quando aveva quattro anni.
Mentre noi avevamo spesso a che fare con il pianoforte, lui lo
vedeva come una cosa che non gli apparteneva.
Quando lei suonava, le
metteva la testa in grembo.
Quelle cosce magrissime
erano sue.
Di Michael Dunbar,
nostro padre, Clay ricordava il rumore dell’auto che veniva messa
in moto nelle mattine d’inverno. Quando tornava, verso sera.
Ricordava il suo odore di fatica, di lunghe giornate di lavoro, e
di costruzioni di mattoni.
Di quelli che sarebbero
diventati i «Giorni in cui si mangiava senza camicia» (lo capirete
tra poco), ricordava i suoi muscoli; perché, oltre a lavorare in
cantiere, ogni tanto – per usare le sue parole – andava «nella
stanza delle torture», ossia andava a fare flessioni e addominali
in garage. A volte usava anche un bilanciere, ma non lo caricava
mai troppo. Contava il numero delle volte che lo sollevava sopra la
testa.
Certi giorni lo
accompagnavamo.
Un uomo e cinque ragazzi
che facevano flessioni.
Noi cinque
cadevamo.
E sì… durante la nostra
infanzia, in quella casa, papà era uno spettacolo per gli occhi.
Altezza media, magro, ma in forma, tonico. Le braccia non erano
enormi né gonfie, ma atletiche e importanti. Si notava ogni
movimento, ogni sussulto.
E quei maledetti
addominali.
Papà aveva un addome di
cemento.
Ma devo ricordare a me
stesso che i nostri genitori, in quel periodo, erano anche
altro.
Certo, qualche volta
litigavano, discutevano.
Ogni tanto scoppiava un
temporale di periferia, ma perlopiù erano le stesse persone che si
erano trovate; persone d’oro, luminose, divertenti. Spesso
sembravano in combutta, come detenuti che non se ne volevano
andare; ci amavano, ci adoravano, e lo stratagemma funzionava.
Provate a prendere cinque ragazzini, a metterli in una casa non
molto grande, e a vedere che effetto fa: è un porridge di
confusione e scazzottate.
Mi tornano in mente i
pasti, e come a volte la situazione diventasse insostenibile: le
forchette gettate a terra, i coltelli puntati contro qualcuno, e
tutte quelle piccole bocche che mangiavano. Discussioni, gomitate,
cibo sparso sul pavimento, sui vestiti. «Come ci sono finiti quei
cereali lassù… sul muro?» E poi, una sera, Rory aveva dato il colpo
di grazia: si era rovesciato metà della minestra sulla
maglietta.
Nostra madre, Penny
Dunbar, non si era fatta prendere dal panico.
Si era alzata, aveva
pulito, e lui aveva finito di mangiare a torso nudo… e nostro padre
aveva avuto l’idea. Stavamo ancora festeggiando, quando aveva
detto: «Anche voi».
A me e a Henry per poco
non era andato il boccone di traverso. «Scusa?»
«Non mi avete
sentito?»
«Ohhh, merda», aveva
esclamato Henry.
«Devo farvi togliere
anche i pantaloni?»
E per un’intera estate
eravamo andati a tavola così, con le magliette impilate vicino al
tostapane. Ma, per essere onesti, a favore di Michael Dunbar va
detto che, dopo la seconda volta, aveva cominciato anche lui a
mangiare a torso nudo. Tommy, che era ancora in quella meravigliosa
fase in cui i bambini dicono tutto senza filtri, si era messo a
gridare: «Ehi! Ehi, papà! Che ci fai con i capezzoli di
fuori?»
Noi eravamo scoppiati a
ridere, soprattutto Penny Dunbar, ma Michael era stato all’altezza
della situazione. Avevamo visto muoversi qualcosa, in un
tricipite.
«E vostra madre?
Dovrebbe togliersi la camicia anche lei?»
Mamma non aveva mai
avuto bisogno di essere tratta in salvo, ma Clay era sempre
disposto ad accorrere in suo aiuto.
«No», aveva detto lui,
ma lei se l’era tolta.
Il reggiseno che
indossava era vecchio e sciatto.
Era sbiadito, e aveva
degli strappi su ciascuna coppa.
Ciononostante, mamma
aveva mangiato, sorridendo.
«Adesso vedete di non
scottarvi il petto», aveva detto.
E noi avevamo capito che
cosa avremmo dovuto regalarle per Natale.
In questo senso, c’era
sempre stata una certa irruenza nella storia della nostra
famiglia.
Tendevamo a far saltare
le cuciture.
Qualunque cosa
facessimo, poi si ripeteva.
Il bucato, le pulizie,
mangiare, lavare i piatti, discutere, bisticciare, lanciare
oggetti, colpirsi, scoreggiare. E c’erano i: «Ehi, Rory, forse è
meglio se vai al bagno!» E naturalmente c’era sempre qualcosa da
negare. «Non sono stato io.» Avremmo dovuto stamparlo su tutte le
nostre magliette. Lo dicevamo decine di volte al
giorno.
E non importava quanto
la situazione fosse sotto controllo: il caos era sempre in agguato.
Eravamo magri e agili, ma non c’era mai spazio per tutto quanto…
quindi, ogni cosa si faceva insieme.
Ricordo chiaramente il
sistema con cui ci tagliavano i capelli; un barbiere ci sarebbe
costato troppo. In cucina veniva allestita una catena di montaggio,
con due sedie, sulle quali ci sistemavamo prima io e Rory, poi
Henry e Clay. Quando veniva il turno di Tommy, a lui pensava
Michael, per concedere un po’ di riposo a Penny. Che poi si
rimetteva all’opera e tagliava anche i suoi.
«Sta’ fermo!» diceva
papà a Tommy.
«Sta’ fermo», diceva
Penny a Michael.
E i nostri capelli
giacevano in mucchietti sul pavimento della cucina.
Ogni tanto – e questo è
talmente divertente che mi fa male – ripenso a quando ci mettevamo
in auto, tutti quanti, ammucchiati. Per molti versi non posso fare
a meno di amare quell’idea: Penny e Michael, così rispettosi della
legge, facevano cose del genere. Una di quelle cose perfette,
davvero, un’auto con troppi passeggeri a bordo. E ogni volta che si
vede una calca simile – un incidente assicurato – le persone
coinvolte urlano e ridono.
Nel nostro caso, sui
sedili davanti, si vedevano le loro mani, intrecciate.
Quella fragile da
pianista di Penelope.
Quella polverosa e da
muratore di papà.
E intorno a loro una
mischia di ragazzini, di braccia e gambe.
Nel posacenere c’erano
lecca-lecca, pastiglie per la gola, e ogni tanto Tic Tac. Il
parabrezza non era mai pulito, ma l’aria sapeva sempre di fresco,
perché tutti noi succhiavamo una pasticca per la tosse, oppure
c’era un festival delle mentine.
Ma alcuni dei ricordi
più cari a Clay, riguardo a nostro padre, erano legati a un momento
della sera. Quel momento in cui – poco prima di andare a letto –
Michael non voleva credergli. Si accovacciava, e gli parlava
sommessamente. «Devi andare in bagno, figliolo?» E Clay faceva no
con la testa. E, anche se lui si rifiutava, papà lo portava nel
piccolo bagno, con le piastrelle scheggiate, e Clay pisciava come
un cavallo da corsa.
«Ehi, Penny!» la
chiamava Michael. «Abbiamo qui Phar Lap, maledizione!» Gli lavava
le mani e si accovacciava di nuovo, senza aggiungere altro. E Clay
sapeva che cosa significava. Ogni sera, per tanto, tanto tempo,
l’aveva portato a letto mettendoselo a cavalluccio.
«Mi racconti ancora
della vecchia Moon, papà?»
E per noi, i suoi
fratelli, c’erano lividi e botte, nella casa al 18 di Archer
Street. Come fanno i fratelli maggiori, rubavamo tutte le sue cose.
Lo afferravamo per la maglietta, al centro della schiena, e lo
depositavamo altrove. Con Tommy, che era arrivato tre anni dopo,
avevamo fatto lo stesso. Quando l’ultimo di casa aveva compiuto
quattro anni, avevamo iniziato a metterlo dietro il televisore,
oppure lo buttavamo fuori, nel cortile sul retro. Se piangeva, lo
trascinavamo in bagno, pronti a riempirlo di pizzicotti; Rory
allungava le mani.
«Ragazzi?» giungeva la
voce. «Ragazzi, avete visto Tommy?»
Henry sussurrava,
accanto al lavandino in cui c’erano lunghi capelli
biondi.
«Non dire una parola,
testina di cazzo.»
E lui annuiva,
rapido.
Così
vivevamo.
A cinque anni, come
tutti noi, Clay aveva cominciato a suonare il piano.
Era una cosa che
detestavamo, ma la facevamo lo stesso.
I tasti SPOSAMI, e
Penny.
Quando eravamo molto
piccoli, ci parlava nella sua lingua, ma solo prima di andare a
dormire. Di tanto in tanto si fermava e ci spiegava qualcosa, però
anno dopo anno l’avevamo dimenticata. La musica, invece, non era
negoziabile. E c’erano stati vari livelli di successo.
Io ero abbastanza
capace.
Rory era
violento.
Henry sarebbe potuto
essere brillante, se solo gliene fosse importato.
Clay era piuttosto lento
ad apprendere, ma una volta imparato qualcosa non se ne dimenticava
più.
Tommy non aveva studiato
molto, perché lei si era ammalata, e forse era già devastata da
Rory, credo.
«D’accordo!» esclamava,
mentre lui batteva feroce sui tasti. «Tempo scaduto!»
«Cosa?!» Stava
profanando la proposta di matrimonio, ormai sbiadita, anche se non
sarebbe mai scomparsa del tutto. «Che cos’hai detto?»
«Ho detto che il tempo a
tua disposizione è scaduto!»
Spesso Penny si
domandava che cos’avrebbe pensato di lui Waldek Lesciuszko, o
piuttosto di lei. Dov’era la sua pazienza? Dove il ramoscello di
abete? O, visto che erano in Australia, di bottlebrush o di
eucalipto? Sapeva che c’era una bella differenza fra cinque maschi
ancora piccoli e una figlia studiosa, ma era comunque delusa,
mentre lo guardava andare via con la sua camminata da
spaccone.
Per Clay, che era seduto
nell’angolo del salotto, era un dovere, ma un dovere che era
disposto a sopportare; almeno, ci provava. Dopo, la seguiva in
cucina, le rivolgeva la sua domanda, di due parole.
«Ehi,
mamma?»
Penny si fermava al
lavello. Gli passava un canovaccio a scacchi. «Credo che oggi ti
parlerò delle case, e di come pensavo che fossero fatte di
carta…»
«E gli
scarafaggi?»
E lei non riusciva a
trattenersi. «Erano enormi!»
Ma credo che ogni tanto
si chiedessero – mamma e papà – perché avessero scelto di vivere
così. Spesso scattavano per cose banali, via via che la confusione
e la frustrazione aumentavano.
Ricordo che una volta
aveva piovuto due settimane di fila, in estate, e noi eravamo
tornati a casa ricoperti di fango. Penny aveva perso la pazienza,
ed era ricorsa al cucchiaio di legno. Ce l’aveva dato sulle
braccia, sulle gambe… ovunque era riuscita a colpirci (e la terra
l’aveva bombardata… come tante schegge di proiettile che
rispondevano al fuoco); alla fine aveva rotto due cucchiai, e aveva
lanciato uno stivale per il corridoio. E, girando in aria, questo
aveva preso velocità e aveva colpito Henry in pieno volto. Lui
aveva cominciato a perdere sangue dalla bocca, e aveva inghiottito
un dente che già gli ballava, e Penny si era seduta vicino al
bagno. Quando alcuni di noi si erano avvicinati per consolarla, era
scattata in piedi e aveva urlato: «Andate
all’inferno!»
Solo ore dopo,
finalmente, aveva chiesto a Henry come stava, e lui era ancora
indeciso: non capiva se si sentiva in colpa, o se era furioso.
Dopotutto, perdere denti era vantaggioso. «Non avrò neppure la
mancia della Fatina dei denti!» le aveva detto, mostrandole la
finestrella.
«La Fatina dei denti lo
saprà senz’altro», gli aveva risposto lei.
«E credi che la mancia
sia più generosa, se il dente l’hai inghiottito?»
«Non se eri ricoperto di
fango.»
Per quanto mi riguarda,
le discussioni più memorabili tra i nostri genitori riguardavano la
Hyperno High. I compiti da correggere, sempre. I genitori
prepotenti. Le ferite rimediate per aver sedato delle
risse.
«Gesù, perché non lasci
che si ammazzino?» le aveva detto una volta papà. «Come hai potuto
essere così…» E Penny cominciava a irritarsi.
«Così
come?»
«Non lo so… così
ingenua, o semplicemente stupida, da pensare di poterci fare
qualcosa.» Era stanco, e dolorante per via del lavoro in cantiere,
e del dover sopportare noi. Aveva agitato la mano verso il resto
della casa. «Dedichi tutte quelle ore extra a correggere i compiti,
e a cercare di aiutarli… e guarda qui. Guarda questo posto.» Aveva
ragione. C’erano Lego dappertutto, e un’esplosione di polvere e
vestiti. Il bagno sembrava uno di quei gabinetti pubblici che aveva
pulito, all’epoca dei vizi della libertà; nessuno di noi usava lo
scopino.
«Quindi? Dovrei stare a
casa a fare la sguattera?»
«Be’, no, non è quello
che…»
«Dovrei andare a
prendere quel dannato aspirapolvere?»
«Oh, merda, non
intendevo questo.»
«BE’, E CHE COSA
INTENDEVI, ALLORA?!» aveva tuonato lei. «EH?»
Era quel genere di tono
che induce un ragazzino ad alzare lo sguardo, quando la collera
lascia il posto a una furia rabbiosa. Questa volta fanno sul serio.
E non era ancora
finita.
«TU DOVRESTI ESSERE
DALLA MIA PARTE, MICHAEL!»
«E lo sono!» le aveva
risposto. «Lo sono…»
E, appena la voce si era
calmata, era stato anche peggio. «Allora prova a dimostrarmelo sul
serio.»
Poi, la quiete dopo la
tempesta.
Come ho detto, tuttavia,
momenti del genere erano isolati, e presto si ritrovavano al
pianoforte.
Il simbolo della nostra
triste infanzia.
Ma, per loro, l’isola di
tranquillità in mezzo ad acque vorticose.
Una volta si era messo
dietro di lei, mentre si riposava suonando un brano di Mozart; poi
aveva posato le mani sul coperchio della tastiera, al sole, accanto
alla finestra.
«Scriverei ‘Scusa’»,
aveva detto, «ma ho dimenticato dov’è la pittura…» E Penelope si
era interrotta e si era voltata. Aveva accennato un sorriso, a quel
ricordo.
«Già, e poi non c’è
posto», aveva detto, e aveva continuato a suonare sui tasti
scritti.
Sì, aveva continuato a
suonare, da vera donna indipendente; e, se a volte scoppiava il
caos, c’erano anche quelle che consideravamo discussioni normali –
liti normali – che riguardavano perlopiù noi ragazzi.
A tal proposito, a sei
anni Clay aveva cominciato a giocare a football, sia in una squadra
sia con noi, che ci allenavamo nel cortile sul retro e in quello
davanti, girando attorno alla casa. Con il passare del tempo,
avevamo formato due squadre: papà, Tommy e Rory contro Henry, Clay
e il sottoscritto. All’ultimo placcaggio, si poteva calciare la
palla sopra il tetto, ma solo se Penny non stava leggendo su una
sdraio, o non stava correggendo il solito fiume di
compiti.
«Ehi, Rory», diceva
Henry, «corri verso di me, così posso spappolarti», e Rory lo
faceva, e gli passava sopra, oppure veniva sbattuto a terra. Dopo
ogni partita, inevitabilmente, bisognava dividerli.
«D’accordo.»
Nostro padre guardava
prima uno e poi l’altro.
Henry, tutto biondo e
sporco di sangue.
Rory, nero come un
ciclone.
«D’accordo
che?»
«Lo sapete.» Aveva il
respiro rauco, pesante, le braccia coperte di graffi. «Datevi la
mano. Ora.»
E loro obbedivano. Si
davano la mano, si chiedevano scusa, e poi aggiungevano: «Sì, mi
dispiace averti dovuto stringere la mano, testa di cazzo!» E
ricominciavano, ma venivano trascinati sul retro, dove c’era
Penelope circondata dai suoi compiti.
«E adesso che cos’avete
combinato, voi due?» chiedeva, con indosso un vestito, i piedi nudi
al sole. «Rory?»
«See?»
Gli lanciava
un’occhiata.
«Voglio dire:
sì?»
«Prendi la mia sedia.»
Cominciava a entrare. «Henry?»
«Lo so, lo
so.»
Era già carponi, a
raccogliere i vari fogli finiti a terra.
Poi Penelope allungava
uno sguardo a Michael, e gli strizzava l’occhio,
complice.
«Maledetti
ragazzi.»
Non c’è da meravigliarsi
se c’ho preso gusto a imprecare.
Che altro?
Che altro dovrei
ricordarmi, mentre saltiamo da un anno all’altro quasi fossero
massi di un torrente?
Ho già detto che ogni
tanto ci sedevamo sulla recinzione dietro casa a guardare gli
allenamenti di fine mattina? E che eravamo lì il giorno in cui
avevano impacchettato le attrezzature per portare via tutto e
lasciare un altro campo abbandonato?
Ho accennato alla guerra
a Forza 4, quando Clay aveva sette anni?
O della partita a
Trouble che era durata quattro ore, se non di più?
E che alla fine avevano
vinto Penny e Tommy, con papà e Clay secondi, io terzo e Henry e
Rory (che erano stati costretti a giocare insieme) ultimi? E che si
erano incolpati a vicenda, accusandosi di essere delle merde a
colpire la bolla?
Riguardo a ciò che era
successo con Forza 4, vi basti sapere che mesi dopo stavamo ancora
cercando i pezzi.
«Ehi, guardate!» gridava
qualcuno dal corridoio, o dalla cucina. «Ce n’è uno persino
qui!»
«Va’ a raccoglierlo,
Rory.»
«Vacci tu.»
«Io non lo raccolgo…
quello è uno dei tuoi.»
E avanti così.
Ancora.
E ancora.
Clay ricordava l’estate,
e Tommy che una volta aveva chiesto chi fosse Roseo, mentre Penny
leggeva versi dell’Iliade. Eravamo rimasti
alzati fino a tardi, in salotto, e Tommy aveva messo la testa sulle
sue ginocchia, e i piedi sulle mie gambe, mentre Clay si era seduto
sul pavimento.
Lei aveva chinato il
capo, accarezzando i capelli del più piccolo.
Io gli avevo detto: «Non
è un personaggio, scemo, è il cielo».
«Che cosa vuoi
dire?»
Questa volta era Clay, e
Penelope aveva spiegato.
«Hai presente quando,
all’alba e al tramonto, il cielo si colora di arancione e giallo, e
a volte di rosso?»
Clay aveva annuito, da
sotto la finestra.
«Be’, quando si dice che
è rosso, in realtà è roseo; è questo che intendeva dire. Ed è
grandioso, no?» Clay aveva sorriso, e anche lei.
Tommy era tornato a
concentrarsi. «Anche Ettore è una parola che descrive il
cielo?»
A quel punto, mi ero
alzato. «Dobbiamo proprio rimanere qui tutti e
cinque?»
Penny Dunbar aveva
risposto con una risata.
L’inverno seguente,
c’era stato di nuovo il campionato di football, con le partite
vinte e perse, gli allenamenti. Clay non amava particolarmente
quello sport, ma ci giocava perché ci giocavamo noi, e suppongo che
sia questo che fanno i fratelli minori, per un po’: diventano la
fotocopia dei fratelli maggiori. A tal riguardo dovrei dire che,
sebbene fosse diverso da noi, riusciva anche a essere uguale: a
volte, nel bel mezzo di un incontro di football casalingo, quando
un giocatore veniva preso a pugni o a gomitate di nascosto, Henry e
Rory si giustificavano subito: «Non sono stato io!» e: «Oh,
stronzate!» Ma a me non sfuggiva che era stato Clay. Già allora i
suoi gomiti sapevano essere feroci, e andavano a segno in tanti
modi; era difficile vederli arrivare.
Qualche volta, lo
ammetteva.
«Ehi Rory», diceva,
«sono stato io.»
Non sai di che cosa sono
capace.
Ma Rory lasciava
correre; era più facile combattere con Henry.
A quello scopo (e
a questo scopo), era perfetto che Henry avesse una pessima fama,
all’epoca, quando si parlava di sport e passatempi: espulso per
aver preso a spintoni l’arbitro. Poi ostracizzato dai suoi compagni
per aver commesso il più grave dei peccati, nel football; durante
l’intervallo, l’allenatore aveva chiesto ai ragazzi: «Ehi, dove
sono le arance?»
«Quali
arance?»
«Non fate gli spiritosi…
lo sapete. Quelle già divise in quarti.»
Ma poi qualcuno si era
accorto.
«C’è un mucchio di
bucce, là! È stato Henry, maledetto lui!»
Ragazzi, uomini e donne:
si erano voltati tutti a guardarlo.
Una spaventosa
umiliazione di periferia.
«Quindi è
vero?»
Inutile negarlo: le sue
mani parlavano per lui. «Mi era venuta fame.»
Il campo era a sei o
sette chilometri da casa, e c’eravamo andati in treno, e poi Henry
era dovuto tornare a piedi, e noi anche. Quando uno di noi faceva
qualcosa del genere, pagavamo tutti, e ci eravamo incamminati lungo
Princes Highway.
«Comunque, perché hai
spinto l’arbitro?» gli avevo chiesto.
«Continuava a pestarmi
il piede. Aveva i tacchetti d’acciaio.»
E poi Rory: «Dovevi
proprio mangiarti tutte le arance, allora?»
«Sì, perché sapevo che
così te la saresti fatta a piedi anche tu, testa di
cazzo.»
«Ohi!» Era
Michael.
«Oh sì…
scusa.»
Credo che in un certo
senso fossimo tutti felici, quel giorno, anche se di lì a poco
avremmo cominciato ad accusare la stanchezza; addirittura, Henry
aveva vomitato nel canale di scolo. Penny era in ginocchio accanto
a lui, la voce di nostro padre vicina: «Penso siano
questi i vizi
della libertà».
E che cosa ne potevamo
sapere, noi?
Eravamo solo un branco
di Dunbar, ignari di ciò che sarebbe venuto.