Le discussioni
Bisognava riconoscerlo.
Carey Novac possedeva una sana determinazione.
Sebbene i suoi genitori si fossero rassegnati alla carriera da fantini dei due figli maschi, in lei quella stessa ambizione era stata soffocata. Quando provava a tirare fuori l’argomento, le rispondevano con un secco «No». Senza lasciare spazio a dubbi.
Ciononostante, a undici anni aveva cominciato a scrivere lettere a un addestratore in città; almeno due o tre al mese. All’inizio aveva chiesto semplicemente informazioni: qual era il percorso più indicato per diventare fantina, come poteva prepararsi al meglio, anche se erano cose che già sapeva. Si firmava «Kelly dalla campagna», e attendeva paziente che lui le rispondesse all’indirizzo di un’amica di Carradale, una città confinante.
Non era passato molto tempo, e in Harvey Street, a Calamia, era giunta una telefonata.
A metà conversazione, Ted aveva domandato «Cosa?» e un istante dopo aveva ripreso: «Sì, è la città vicina». E poi: «Sul serio? Kelly dalla campagna? Stai scherzando. Oh, dannazione, di sicuro è lei, non ho dubbi…»
Merda!, aveva pensato Carey, origliando in salotto.
Era arrivata a metà dell’atrio, pronta a filarsela, quando la voce di lui l’aveva raggiunta.
«Ohi, Kelly. Non così in fretta.»
Ma dal tono aveva capito che papà stava sorridendo.
E ciò significava che aveva una possibilità.
Intanto, le settimane erano diventate mesi, i mesi anni.
Era una ragazza che sapeva quello che voleva.
Piena di speranza, costante.
Lavorava senza risparmiarsi a Gallery Road – era un vero talento nello spalare merda con le sue braccia pelle e ossa –, ma non era male nemmeno in sella.
«Non ha niente da invidiare a tutti i ragazzi che ho visto allenarsi», aveva dovuto riconoscere Trackwork Ted.
Catherine non si era lasciata impressionare troppo.
E nemmeno Ennis McAndrew.
Esatto, Ennis.
Il signor McAndrew.
Ennis McAndrew aveva le sue regole.
Come prima cosa, faceva aspettare gli apprendisti; non montavi mai, il primo anno, sempre che ti prendesse con sé. Naturalmente gli interessava l’abilità in sella, ma leggeva anche le pagelle, e in particolare le osservazioni degli insegnanti. Bastava trovasse scritto Si distrae facilmente una sola volta, e ti scordavi di averlo come allenatore. E, se ti accettava, ti faceva andare in scuderia la mattina presto tre volte alla settimana. Lì potevi spalare, e guidare i cavalli tenendo la lunghina fissata alla cavezza. E potevi guardare. Ma mai, in nessun caso, avevi il permesso di parlare. Se avevi delle domande, o le mettevi per iscritto oppure gliele rivolgevi la domenica. Il sabato potevi andare lì per le corse. Sempre senza parlare. Sapeva che eri lì se voleva saperlo. In realtà, ti faceva capire che saresti dovuto rimanere con la tua famiglia, o uscire con gli amici: perché dal secondo anno in poi li avresti visti a malapena.
A giorni alterni, in settimana, potevi dormire fino a tardi, il che significava che dovevi presentarti alla Tri-Colors Boxing Gym alle cinque e trenta, e correre con i pugili. Se saltavi un allenamento, il vecchio veniva a saperlo. Sempre.
Eppure.
Nessuno l’aveva mai assillato così.
A quattordici anni, Carey aveva ripreso a scrivergli lettere, questa volta firmandosi con il suo nome. Kelly dalla campagna non c’era più. Si era scusata per l’errore di valutazione che aveva commesso, sperando che non le avesse rovinato la reputazione. Era al corrente delle sue regole per l’apprendistato ed era disposta a fare tutto il necessario; avrebbe spalato letame senza sosta.
E finalmente aveva ricevuto una risposta.
L’inevitabile frase ripetuta due volte, identica, nella grafia serrata e scarabocchiata di Ennis McAndrew.
Autorizzazione della madre.
Autorizzazione del padre.
E quello era il problema maggiore.
I suoi genitori erano risoluti quanto lei.
Il responso era ancora un fermo no.
Non sarebbe mai diventata una fantina.
E, per lei, quella era una tragedia.
Certo, era perfettamente accettabile che le canaglie dei suoi fratelli diventassero fantini – che, parentesi, non eccellevano ed erano anche due scansafatiche –, ma lei no, non poteva. Una volta aveva addirittura tirato giù dalla parete del salotto una fotografia incorniciata di The Spaniard, e si era lanciata in una discussione appassionata.
«McAndrew ha persino un cavallo che discende da questo
«Cosa?»
«Non li leggi i giornali, papà?»
E poi: «Come puoi impedirmi di avere quello che hai avuto tu? Guardalo!» Le lentiggini in fiamme. I capelli arruffati. «Non ti ricordi com’era? Quando arrivavi alla curva? Quando imboccavi il rettilineo?»
Anziché riappenderla al suo posto, aveva sbattuto la foto sul tavolino, e dall’impatto si era rotto il vetro.
«Userai i tuoi soldi per sostituirlo», le aveva detto, e per sua fortuna la cornice era una di quelle economiche.
Ma la vera fortuna (o sfortuna, come potrebbe sostenere qualcuno) era stata questa: quando lei e il padre si erano inginocchiati per raccogliere i vetri, lui aveva parlato distrattamente, fissando le tavole del pavimento.
«Certo che lo leggo il giornale. Il cavallo si chiama Matador.»
Alla fine, Catherine le aveva dato uno schiaffo.
È buffo cosa può fare uno schiaffo.
I suoi occhi acquerello erano più brillanti del solito, ribelli, accesi dall’ira. Alcune ciocche di capelli si erano sollevate. Ted era solo, sulla soglia.
«Non avresti dovuto farlo.»
Naturalmente, stava parlando con Carey.
Ma si riferiva a un altro fatto.
Perché Catherine ti prendeva a schiaffi solo quando avevi vinto tu.
Ecco cos’era successo.
Un classico dell’infanzia.
Vacanze scolastiche.
Era uscita la mattina e, presumibilmente, avrebbe dovuto dormire a casa di Kelly Entwistle, invece aveva preso un treno per andare in città. Nel tardo pomeriggio si era fermata quasi un’ora fuori dalla scuderia di McAndrew; il piccolo ufficio aveva bisogno di una mano di pittura. Quando non ce l’aveva più fatta, era entrata e si era piazzata davanti alla scrivania. Dietro c’era la moglie, impegnata a fare dei conti, mentre masticava una gomma con cui aveva appena formato un palloncino.
«Mi scusi…» aveva detto, vistosamente agitata e al tempo stesso tranquilla. «Sto cercando il signor Ennis.»
La donna l’aveva guardata; aveva la permanente, e stava masticando il suo chewing gum, e l’aveva osservava, incuriosita. «Credo che tu ti riferisca a McAndrew.»
«Oh sì, chiedo scusa.» Aveva accennato un mezzo sorriso. «Sono un po’ nervosa.» La donna aveva sollevato una mano e abbassato gli occhiali. All’improvviso, aveva capito chi aveva di fronte.
«Non sarai la figlia del vecchio Trackwork Ted, vero?»
Merda!
«Sissignora.»
«I tuoi genitori sanno che sei qui?»
Carey portava i capelli raccolti in una treccia che aderiva alla testa e scendeva verso il collo e la schiena. «No, signora.»
C’era quasi rimorso, o rimpianto, nella sua voce. «Buon Dio, ragazzina, sei venuta fin qui da sola?»
«Sì, ho preso il treno. E poi l’autobus.» Per poco non si era messa a balbettare. «Be’, la prima volta sono salita su quello sbagliato.» Ma era riuscita a controllarsi. «Signora McAndrew, sto cercando un lavoro.»
E in quel preciso momento l’aveva conquistata.
La donna si era infilata una penna tra i riccioli.
«Quanti anni hai detto di avere?»
«Quattordici.»
La moglie di McAndrew era scoppiata a ridere e aveva tirato su col naso.
A volte li sentiva parlare, la sera, chiusi in cucina.
Ted e Catherine.
Catherine la Grande. La Bellicosa.
«Ascolta… se è proprio convinta, Ennis è il migliore. Si occuperà di lei. Non li fa nemmeno vivere in scuderia, hanno degli alloggi veri e propri.»
«Ma che bravo.»
«Ehi… bada a come parli.»
«Ok», gli aveva risposto, però non si stava esattamente ammorbidendo. «Sai che non si tratta di lui… è per le corse.»
Carey era ferma, nel corridoio.
Con un pigiama composto da pantaloncini e canottiera.
I piedi caldi, appiccicosi.
Le dita in una striscia di luce.
«Oh, tu e la tua avversione per le corse.» Ted si era alzato ed era andato al lavello. «Le corse mi hanno dato tutto.»
«Sì. Ulcere, svenimenti. Sedici costole fratturate.»
«Non dimenticare il piede d’atleta.»
Stava tentando di sdrammatizzare.
Non aveva funzionato.
Lei aveva continuato, e la sua condanna era scesa come un’ombra sulla ragazza nel corridoio. «Stiamo parlando di nostra figlia, e io la voglio viva… non voglio che passi l’inferno che hai vissuto tu, e che vivranno i suoi fratelli…»
A volte quelle parole rimbombano dentro di me, e sono roventi, come zoccoli di purosangue.
La voglio viva.
La voglio viva.
Carey l’aveva raccontato a Clay, una volta; gliel’aveva raccontato una sera, al Surrounds.
E Catherine la Grande aveva avuto ragione.
Aveva avuto ragione su tutto.
Il ponte d'argilla
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