Quando i ragazzi erano ancora ragazzi
Alla fine, doveva terminare tutto quanto.
Le scazzottate erano sempre più rare.
Una sigaretta era stata trovata e fumata.
Persino del pianoforte non si parlava più.
A posteriori, erano state tutte valide distrazioni, nessuna delle quali però era mai riuscita a far deviare la marea da lei.
Il mondo, dentro Penny, si inaspriva.
Mamma si stava svuotando. Straripava.
Nei mesi successivi, c’erano stati gli ultimi momenti di vita normale, mentre lei veniva punita con le cure. L’avevano aperta e richiusa per bene, come un’auto al margine dell’autostrada. Avete presente quel rumore… quando sbattete il cofano, dopo aver fatto ripartire il vostro dannato trabiccolo, e pregate perché riesca a percorrere ancora qualche chilometro?
Ogni singolo giorno era come quell’accensione.
Viaggiavamo finché non ci ritrovavamo di nuovo in panne.
Uno dei migliori esempi della nostra vita in quel periodo risale all’inizio di gennaio; eravamo a metà delle vacanze di Natale.
Il dono e la gloria della lussuria.
Avete capito bene. Della lussuria.
In anni successivi ci sarebbero state l’eccitazione nuda e l’idiozia pura di Bachelor Party, ma all’inizio del deperimento di Penny c’erano state le prime avvisaglie di depravazione adolescenziale.
Erano sintomi di perversione, o era semplicemente vivere la vita?
Dipende dai punti di vista.
Comunque, era il giorno più caldo dell’estate australiana, foriero di ciò che sarebbe venuto. (Clay amava quel termine, «foriero»; l’aveva appreso da un insegnante formidabile, che era un autentico vocabolario vivente. Mentre i suoi colleghi si attenevano rigidamente al programma, lui – il brillante professor Berwick – non faceva in tempo a mettere piede in aula che subito li interrogava su parole che erano «semplicemente obbligati» a conoscere.
Foriero.
Abominevole.
Straziante.
Bagaglio.
Bagaglio era un vocabolo fantastico. Si trascinava sulla lingua, come le valigie che vengono trascinate.)
Comunque, come dicevo, eravamo all’inizio di gennaio. Il sole era alto, e faceva un caldo pazzesco. Nel quartiere delle corse si moriva. Il traffico in lontananza era un ronzio, che ogni tanto volgeva dall’altra parte.
Henry era all’edicola di Poseidon Road, appena più giù rispetto a Tippler Lane e, quando era uscito trionfante, aveva trascinato Clay nel vicolo. Si era girato a guardare a destra e a sinistra, e poi gliel’aveva detto.
«Guarda qui.» Un enorme sospiro. E da sotto la T-shirt aveva tirato fuori un numero di Playboy. «Sparati questa.»
Gli aveva passato la rivista aprendola alla pagina centrale, con la piega che tagliava a metà il corpo… e lei era soda e morbida, e mordace, e stupefacente, nei punti giusti. A giudicare dai fianchi, sembrava parecchio eccitata.
«Stupenda, eh?»
Clay aveva abbassato gli occhi, naturalmente. Di certe cose sapeva già tutto: aveva dieci anni, e tre fratelli maggiori; aveva visto delle donne nude sullo schermo di un computer. Ma quello era tutt’altra cosa. Era l’atto di rubare unito al nudo su carta patinata. (Come diceva Henry: «Questa sì che è vita!») Nonostante la felicità, aveva cominciato a tremare e, stranamente, aveva letto il nome della ragazza. Aveva sorriso, poi aveva osservato con più attenzione.
«Sul serio fa ‘Gennaio’, di cognome?» aveva chiesto.
Aveva il cuore che gli martellava nel petto, e Henry Dunbar gli aveva risposto con un ghigno.
«Ma certo. Ci puoi scommettere.»
Più tardi, quando erano arrivati a casa (dopo diverse fermate per guardare con desiderio le signorine sulla rivista), avevano trovato mamma e papà sul vecchio pavimento della cucina, seduti con la schiena appena sollevata.
Papà era appoggiato ai mobili.
Aveva gli occhi di un azzurro desolato.
Mamma aveva vomitato – aveva fatto un disastro – e si era addormentata addosso a lui; Michael Dunbar aveva lo sguardo fisso.
I due ragazzi erano rimasti lì.
L’erezione era passata in un lampo, i peni flosci negli slip.
Henry si era messo a urlare, reagendo alla scena, d’un tratto responsabile. «Tommy? Sei in casa? Non venire qui!» aveva gridato, mentre assistevano alla fragilità di mamma… con Miss Gennaio in mezzo a loro, arrotolata.
Quel sorriso, la sua mercanzia perfetta.
Faceva male anche solo pensare a lei.
Miss Gennaio era così… in salute.
All’inizio dell’autunno, era successo. Doveva succedere, in quel pomeriggio segnato dal destino.
Rory aveva dodici anni.
Clay dieci.
A mamma erano ricresciuti i capelli, di un giallo strano, più vivace, ma per il resto stava sparendo, o era già sparita.
Lei e papà erano usciti senza alcuna spiegazione.
Erano andati in un piccolo edificio color crema, vicino a un centro commerciale.
Dalla finestra entrava il profumo delle ciambelle.
Una cavalleria di macchinari medici, freddi e grigi ma brucianti, il viso canceroso del chirurgo.
«Prego, accomodatevi», aveva detto.
Aveva ripetuto «aggressivo» almeno otto volte.
Era stato così spietato, nel dare la diagnosi.
Erano rientrati la sera, ed eravamo usciti tutti ad accoglierli. Davamo sempre una mano a portare dentro la spesa, ma quel giorno non c’era niente. Solo i piccioni sui fili della corrente. In silenzio, osservavano la scena.
Michael Dunbar era rimasto vicino all’auto, le mani sul cofano caldo, mentre Penny era alle sue spalle, un palmo sulla schiena, appena sopra la vita. Nella luce via via più tenue, dall’effetto calmante, i suoi capelli erano come paglia, legati e tirati indietro.
Ce ne stavamo lì a guardarli, e nessuno aveva chiesto niente.
Forse avevano discusso.
Ma, naturalmente, ora so che là fuori c’era anche la morte, quella sera, appollaiata con i piccioni, appesa con nonchalance ai fili.
Li stava osservando, mentre se ne stavano lì, l’uno accanto all’altra.
La sera successiva, Penny ce l’aveva detto, in cucina; distrutta, triste. C’era anche nostro padre, a pezzi.
Ricordo tutto fin troppo chiaramente: Rory che si era rifiutato di crederle, e che aveva dato di matto. «Cosa?» E poi: «Che cos’hai detto?» E ancora: «CHE COSA?» Era duro, rigido, arrugginito. Gli occhi argento via via più cupi.
E Penny, magrissima e stoica.
Controllata, concreta.
Gli occhi verdi e spaventati.
I capelli sciolti, mentre ripeteva quelle parole.
«Ragazzi, sto per morire.»
Credo che la seconda volta Rory avesse recepito.
Aveva chiuso le mani a pugno, e poi le aveva aperte.
Avevamo avvertito un suono, dentro di noi: un suono sommesso e al tempo stesso forte, una vibrazione inspiegabile, mentre lui tentava di distruggere i mobili prendendoli a pugni, li scuoteva e mi respingeva. Vedevo, ma non sentivo.
Poco dopo aveva afferrato la persona a lui più vicina, Clay, e si era messo a gridare attraverso la sua camicia; ed era stato allora che era intervenuta Penny, che era andata verso di loro, e Rory non era riuscito a fermarsi.
La sentivo, lontana… ma un attimo dopo mi aveva riportato al presente: era una voce dentro casa nostra, quasi stesse avvenendo una rissa di strada.
Rory stava ruggendo contro il petto di Clay, nello spazio compreso tra i bottoni; stava urlando dentro al suo cuore. Aveva continuato a colpirlo, ancora e ancora, fino a quando negli occhi di Clay non si era acceso un fuoco… mentre i suoi erano diventati piatti e duri.
Dio, riesco ancora a sentirla.
Mi sforzo di mantenere le distanze da quel momento.
Di tenermi a migliaia di chilometri, se possibile.
Ma anche adesso avverto la profondità di quell’urlo.
Vedo Henry vicino al tostapane, muto in quel momento fatidico.
Vedo Tommy stordito, accanto a lui, lo sguardo abbassato sulle briciole sfocate.
Vedo nostro padre, Michael Dunbar, rotto e irreparabile al lavello, che poi si era chinato verso Penny, le mani sulle sue spalle scosse da un tremito.
E vedo me, in mezzo, che stavo accendendo un fuoco solo mio; paralizzato, con le braccia incrociate.
E da ultimo, naturalmente, vedo Clay.
Vedo il quarto Dunbar, con i capelli scuri, scaraventato sul pavimento, il viso che guardava all’insù. Vedo i ragazzi e un groviglio di braccia. Vedo nostra madre che li avvolgeva. E, più ci rifletto, più mi viene da pensare che forse era stato quello il vero uragano, nella nostra cucina: quando i ragazzi erano solo questo – ragazzi, appunto – e gli assassini soltanto uomini.
E vedo nostra madre Penny Dunbar, a cui restavano sei mesi di vita.
Il ponte d'argilla
titlepage.xhtml
part0001.xhtml
part0002.xhtml
part0003.xhtml
part0004.xhtml
part0005.xhtml
part0006.xhtml
part0007.xhtml
part0008.xhtml
part0009.xhtml
part0010.xhtml
part0011.xhtml
part0012.xhtml
part0013.xhtml
part0014.xhtml
part0015.xhtml
part0016.xhtml
part0017.xhtml
part0018.xhtml
part0019.xhtml
part0020.xhtml
part0021.xhtml
part0022.xhtml
part0023.xhtml
part0024.xhtml
part0025.xhtml
part0026.xhtml
part0027.xhtml
part0028.xhtml
part0029.xhtml
part0030.xhtml
part0031.xhtml
part0032.xhtml
part0033.xhtml
part0034.xhtml
part0035.xhtml
part0036.xhtml
part0037.xhtml
part0038.xhtml
part0039.xhtml
part0040.xhtml
part0041.xhtml
part0042.xhtml
part0043.xhtml
part0044.xhtml
part0045.xhtml
part0046.xhtml
part0047.xhtml
part0048.xhtml
part0049.xhtml
part0050.xhtml
part0051.xhtml
part0052.xhtml
part0053.xhtml
part0054.xhtml
part0055.xhtml
part0056.xhtml
part0057.xhtml
part0058.xhtml
part0059.xhtml
part0060.xhtml
part0061.xhtml
part0062.xhtml
part0063.xhtml
part0064.xhtml
part0065.xhtml
part0066.xhtml
part0067.xhtml
part0068.xhtml
part0069.xhtml
part0070.xhtml
part0071.xhtml
part0072.xhtml
part0073.xhtml
part0074.xhtml
part0075.xhtml
part0076.xhtml
part0077.xhtml
part0078.xhtml
part0079.xhtml
part0080.xhtml
part0081.xhtml
part0082.xhtml
part0083.xhtml
part0084.xhtml
part0085.xhtml
part0086.xhtml
part0087.xhtml
part0088.xhtml
part0089.xhtml
part0090.xhtml
part0091.xhtml
part0092.xhtml
part0093.xhtml
part0094.xhtml
part0095.xhtml
part0096.xhtml
part0097.xhtml
part0098.xhtml
part0099.xhtml
part0100.xhtml
part0101.xhtml
part0102.xhtml
part0103.xhtml
part0104.xhtml
part0105.xhtml
part0106.xhtml
part0107.xhtml
part0108.xhtml
part0109.xhtml
part0110.xhtml
part0111.xhtml
part0112.xhtml
part0113.xhtml
part0114.xhtml
part0115.xhtml
part0116.xhtml
part0117.xhtml
part0118.xhtml
part0119.xhtml
part0120.xhtml