21 DICEMBRE, 10.46, ORA STANDARD DELLA COSTA DEL PACIFICO
Il mio amore è colpito da una misteriosa malattia
Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno
Gentili Tweeter,
pochi giorni dopo l’adozione, Tigrotta era già grossa come una polpetta di popcorn, poi lievitò fino alle dimensioni di una brioche, e al tatto era spugnosa come una caramella mou fatta in casa. Dopo qualche giorno smise di fare la pipì nella sua cassetta. E anche il suo miagolio lamentoso cessò, sicché fui costretta a cominciare a piangere a mo’ di ventriloquo, tenendo le labbra chiuse e fisse in un rictus mentre emettevo vivaci miagolii a beneficio dei miei genitori.
In un comodo alloggio in Messico o a Mumbai o a Montréal, davanti a una prima colazione a base di sashimi di tonno rosso e ceviche di gamberetti e pâté di fegato d’anatra, la mia micia-micia non mangiava niente. Mia madre e mio padre assistevano furtivamente ai miei inutili tentativi di nutrirla, guardando di sfuggita da dietro i monitor dei loro computer portatili mentre io piazzavo la mia gattina orribilmente dilatata sul tavolo della colazione accanto al mio piatto per tentarla con succulenti bocconcini. Per me Tigrotta rappresentava l’opportunità di svergognarli entrambi. Le mie cure avrebbero dato una dimostrazione di vera abilità genitoriale non-pagana, non-vegana, non-reaganiana. Tutte le vite passate che mio padre e mia madre avevano vissuto crescendomi, le avrei ripudiate. La mia strategia sarebbe semplicemente consistita nell’adorare senza tregua la mia gattina portandola a una felinità psicologicamente equilibrata e non affetta da disturbo da dismorfismo corporeo.
E poi simulavo un piccolo miao per i miei compagni di colazione.
Capite che cosa avevo combinato, gentili Tweeter? Lo vedete in che modo mi ero chiusa da sola nell’angolo? A Bangalore e a Hyderabad e a Houston, la mia micina era chiaramente malata, ma io non potevo ammetterlo e andare dai miei a chiedere il loro consiglio. Al tavolo della colazione a Hanoi, mio padre adocchiò la tumefatta palla di peluria che ansimava pesante distesa su un fianco accanto al mio piatto. Fingendo Ctrl+Alt+Indifferenza, domandò: «Come sta la piccola Tigra?».
«Si chiama Tigrotta» protestai. Mi allungai a raccoglierla e me la misi in grembo, dicendo: «E sta bene». Tra labbra immobili, emisi un miao. E con un abile movimento delle dita le aprii la boccuccia in sincrono. Miao.
Mio padre scambiò un’occhiata a sopracciglia inarcate con mia madre e domandò: «Non è che Tigre è malata?».
«Sta bene!»
Mia madre posò il suo sguardo Ctrl+Alt+Sereno sull’ammasso comatoso che adesso vacillava sul tovagliolo che mi ero sistemata in grembo e mi domandò: «Non avrà bisogno di un veterinario?».
«Sta bene!» dissi. «Sta dormendo.» Non potevo mostrare la mia paura. La tremolante pallottola di pelo che stavo coccolando scottava… un po’ troppo. Una secrezione viscida e gommosa profilava gli occhi chiusi e colava dalle minuscole narici nere. Peggio ancora, accarezzandole i fianchi sentivo che la pelle era tesa, la pancia gonfia. Attraverso la morbida pelliccia, il suo debole battito cardiaco da gattina sembrava lontano milioni di milioni di miglia. Una possibilità era che le avessi dato da mangiare qualcosa di sbagliato. O forse l’avevo ingozzata troppo. Ansimava, con la piccola lingua rosata un po’ sporgente, e ogni respiro era un rantolo di morte. Per troppi aspetti la povera Tigrotta stava riproducendo la lenta e dolorosa agonia di mia nonna. Senza pensarci, le mie dita cercarono il punto sotto la zampa anteriore dove il battito del cuore si sentiva più forte, e nelle budella pensanti del mio cervello cominciai a contare. “Un alligatore… due alligatori… tre alligatori…” tra pulsazioni lente e irregolari. Notai che nessuno dei miei genitori stava mangiando. La puzza da ambulatorio della gatta malata avrebbe eclissato l’appetito di chiunque.
Mio padre propose: «Che ne dici di andare con Tigre da uno psicoterapeuta per elaborare il lutto?». Deglutì, tradendo la sua Ctrl+Alt+Ansia, e disse: «Potresti parlargli della morte del nonno e della nonna».
«Non sono in lutto!» A mezza voce, intanto, continuavo a contare… «Cinque alligatori… sei alligatori…» tra battiti sempre più distanziati.
Lo sguardo preoccupato di mia madre perlustrò la tavola e si posò su un cesto di dolciumi. Lo sollevò e me lo avvicinò. «Vuoi un muffin?»
«No!» Contavo: “Otto alligatori… nove alligatori…”.
«Non andavi matta per i muffin ai mirtilli?» I suoi occhi mi sondarono, misurando la mia risposta.
«Non ho fame!» ribattei secca, contando: “Undici alligatori… dodici alligatori…”. Il respiro rauco e rantolante della gattina si era fermato. Tastandola disperatamente con le dita cercai di riportare alla vita il suo cuore felino ormai spento. Per nascondere i miei sforzi ai miei genitori avvolsi il tovagliolo intorno al corpo dilatato di Tigrotta. Così infagottato, era impossibile localizzare il battito del cuore. Per mascherare il panico, dissi: «Non ho fame! Tigrotta è sana e felice! Non ho fame e non ho strappato la banana di nessun uomo!».
Queste parole mutarono l’espressione di mia madre come se l’avessi Ctrl+Alt+Schiaffeggiata. Le sue mani si protesero sul tavolo in quello che doveva essere un istintivo gesto materno, una specie di abbraccio mammifero ereditato dai primati da cui discendiamo, e disse: «Noi vogliamo soltanto aiutarti, Maddy, gocciolina di pioggia».
Ritraendomi, continuando a cullare la mia gattina immobile e silenziosa, ribattei con voce che era acido puro: «Magari potremmo abbandonare Tigrotta in uno sperduto avamposto agricolo nel Nord dello Stato. Che ne dite?». Con voce ormai quasi isterica, dissi: «O magari potremmo trasferire la mia gattina in qualche costoso collegio in Svizzera dove potrà vivere, socialmente isolata, tra odiose gattine ricchissime!».
A mezza voce, intanto, contavo: «Diciotto alligatori… diciannove alligatori… venti alligatori…», ma sapevo che ormai era troppo tardi. A Seul o a San Paolo o a Seattle, rischiai di cadere quando mi alzai di scatto dal tavolo della colazione e corsi nella mia camera da letto portando con me la mia piccola gattina avvolta nel sudario del tovagliolo.