3

Mosche azzurre

Il bagno dove Sorrow ha perso sangue è invaso dal ronzio di mosche affamate. Ricoprono ogni pozza e nascondono ogni chiazza, trasformano il rosso di Sorrow in un blu e nero iridescenti. Ogni sua macchia è trasformata, resa vibrante e splendente da milioni di occhi e piccole ali.

Amity osserva dalla soglia della porta.

È forse un segno, si domanda, della fine del mondo che le viene rivelata? Sa che non bisogna chiedere un segno, giacché perfino al re di Giuda era stato detto che avrebbe potuto chiederlo e non lo ha fatto, e il Padre ha detto che spetta a Dio mettere l’uomo alla prova, non il contrario. Lei può solo guardare, in attesa di qualsiasi cosa le venga data, e anche allora sarà Sorrow a dire se è un segno o no.

La quarta piaga d’Egitto era la piaga delle mosche, ma non ci sono mosche nell’Apocalisse. Sa che il mondo finirà con l’apertura del rotolo e la rottura dei sigilli. Sa che suo padre li aprirà, uno dopo l’altro, il cavaliere bianco e il cavaliere rosso, il cavaliere nero e il cavallo color della morte, i martiri e i santi e le stelle che precipitano sulla terra. Li ha visti, i martiri e i santi, vorticare su se stessi bardati nel tempio. Conosce la cronologia degli eventi della fine del mondo, ma non sa se hanno mancato i segni prodotti dalla rottura dei sigilli, perché la Madre le ha portate via, così lontano e così in fretta. Le mosche e il sangue potrebbero essere segni, ma Sorrow si sente troppo male e troppo triste per interpretarli e la Madre le ha detto di lavare tutto.

Il ragazzo arriva camminando a grandi passi con un manicotto per l’acqua e un secchio di plastica. «Cosa stai facendo?» le chiede.

Amity riesce solo a indicare il bagno e il ronzio delle mosche nel sangue.

«È stato detto anche a me di pulirlo» continua il ragazzo, arricciando il naso in una smorfia. «Mi sa che siamo gli unici a lavorare qui.» Lascia cadere il manicotto e si dirige con un’estremità verso un angolo della stazione di benzina, per agganciarla a un rubinetto. Lei lo osserva lavorare, guarda i suoi jeans troppo larghi pendergli dai fianchi ossuti, ammucchiarsi troppo lunghi sugli stivali sporchi di grasso sulle punte. Quando le porge l’altra estremità, lei gli guarda le mani e le braccia scure, le maniche della camicia trasparenti per i troppi lavaggi, i peli del braccio dorati dal sole.

«Stai attenta» le grida, e apre il rubinetto dell’acqua.

Amity punta il tubo verso la porta del bagno. Dirige il getto contro i muri e il pavimento, il lavandino all’angolo e il gabinetto di metallo. Lava via le mosche. Lava via il sangue finché l’acqua diventa rosa per poi scorrere chiara giù dalle piastrelle, oltre la soglia, infilandosi nelle crepe del cemento, imbevendo la terra secca.

Quando il ragazzo chiude il rubinetto, il tubo pende floscio, come la striscia di stoffa al suo polso. «Sta bene adesso? Tua sorella, intendo.»

Amity può solo scrollare le spalle. Non può parlargli.

«Stavo qui, ho visto tutto» le ricorda.

«Ma non sai» risponde Amity. Poi si porta le mani alle labbra, atterrita. Già un’altra regola violata. Aveva parlato all’uomo perché le era stato detto di farlo, ma la Madre non aveva detto che poteva parlare con il ragazzo.

«Comunque, come ti chiami?» le chiede.

Amity lo fissa, chiedendosi se debba rispondere. Lui strabuzza gli occhi. Caccia fuori la lingua. Si toglie il berretto e si gratta le orecchie, con lei che intanto si chiede se ogni parola pronunciata sia stato come infrangere una regola, ogni volta, o se una regola, una volta infranta, lo sia per sempre. «Amity» risponde infine.

«Amity? Come quella città degli orrori? Amityville o come si chiama...»

«Non so molto di città.»

«Non sai molto di niente.»

«So molte cose.»

«Come no. Per esempio?»

«So che mia sorella adesso non avrà un bambino.»

«Cribbio santo!» dice lui. «Non si dicono queste cose in giro.»

Le strappa il manicotto dalle mani.

«Hai detto che avevi visto.»

«Sì, ma è roba privata. Cose di famiglia... da ragazze. Non ne parli in giro, dopo.»

«Va bene.» Amity annuisce, assimilando quella nuova regola. «Come ti chiami?»

«Dust.»

«Dust? Dust. Dust.»

«Non consumarlo.»

«Che nome è Dust?»

«Che nome è Amity?»

«È un attributo» gli dice. «Siamo tutti attributi. Dust come... polvere? Non puoi essere polvere. Piuttosto ti chiamerei Honor, Honesty. Grace.»

«Grace? Cribbio. Io mi chiamo Dust» dice. Poi «È uno scherzo.»

«Che cos’è uno scherzo?»

«Polvo. Mi chiamo Pablo, ma mi chiamano Polvo, che significa “polvere”.»

«Che lingua è?»

Dust l’osserva strizzando gli occhi. «Stai scherzando?»

Amity scrolla le spalle. Lei non scherza mai. «Non penso sia divertente.»

«No» risponde lui. «Neanche io.» Inizia ad avvolgere il manicotto attorno alla spalla, con l’acqua che gocciola e scrive sul cemento.

«Da dove venite?»

«Non posso dirtelo.»

«Be’, almeno qui stai imparando qualcosa.»

Amity annuisce. Non solo perché non sa con certezza da dove vengano, ma anche perché è di sicuro un segreto. «E tu da dove vieni?»

Lui getta un’occhiata verso i campi. «Dalla polvere» risponde. Poi torna verso la casa, con passo pesante e i jeans svolazzanti. Quando si volta a guardarla vede che lo sta osservando, e solo allora lei distoglie lo sguardo puntandolo sul bagno. Qualsiasi segno avesse potuto essere lì dentro, adesso è completamente scomparso.

Amity torna indietro lungo il sentiero che gira intorno ai mucchi di materiali per ponteggi, seghe dai denti spezzati e ruote di carro, finché vede la casa e il portico, dove la Madre l’aspetta sui gradini, agitando il pezzo di stoffa usato per i polsi. Sorrow siede raggomitolata nelle sue coperte.

Amity appoggia un secchio d’acqua per terra.

«Hai fatto con comodo, figliola.» La Madre le porge la striscia di cotone.

«Ho dovuto aspettare il ragazzo» si giustifica.

«Non devi parlare con i ragazzi.»

Amity abbassa la testa. Troppo tardi.

La Madre si gira verso Sorrow, tutta sorridente. «Sei pronta?»

«Per cosa?» risponde irritata Sorrow.

«Per salire in macchina. È ora di andare.»

«In macchina?» chiede Amity senza fiato.

«E dove se no?» risponde la Madre. «Non ci sono tappeti magici. Né carri di fuoco e cavalli a portarci via.»

«Ma la macchina, Madre...» inizia a dire Amity.

«Mi sento troppo male» si lamenta Sorrow.

«No, prima stavi male. Ora stai bene» dice la Madre.

«Sto male, ti dico! Male!» Sorrow si rifugia sotto una coperta.

«Madre?» dice Amity. «La macchina...»

«Non possiamo rimanere qui. Non possiamo fermarci.» La Madre afferra la coperta di Sorrow e cerca di strappargliela di mano, ma lei ci si aggrappa. Allora cerca di afferrarle il braccio e di farla alzare torcendoglielo, ma Sorrow si ritrae come una tartaruga infastidita.

«Non possiamo rimanere?» chiede Amity.

La Madre si gira di scatto verso di lei. «Certo che non possiamo. Cosa ti fa dire una cosa del genere?»

«Dice che sta male... e la macchina, Madre...»

«Non mi hai visto?» grida Sorrow. «Non hai visto che stavo male?»

La Madre lascia andare Sorrow. Si copre il volto con una mano e fa una smorfia. Si lascia cadere sui gradini del portico, si toglie la cuffietta, passandosi un dito sul taglio all’attaccatura dei capelli e tirandosi la crocchia di trecce nocciola come se volesse aprirsi la testa. «Ti ho visto, Sorrow.»

Sorrow sporge il capo. «Sto ancora male.»

«Madre» sussurra Amity. «Non ricordi la macchina?»

«Vuoi piantarla di parlare della macchina?» risponde la Madre.

Sorrow si raddrizza a sedere. «Non sai neanche dove stiamo andando. Cosa direbbe nostro Padre, di questo tuo trascinarmi in giro per mezzo mondo quando sto così male?»

«Non lo so, Sorrow.»

«Io sì.»

La Madre si riallaccia la cuffietta, calcandola sulla testa. «Non siamo al sicuro qui, ragazze. Non possiamo fermarci.»

«Ma come facciamo ad andarcene?» le chiede Amity. «Sei andata a sbattere, e Sorrow è corsa via. Non ricordi?»

La Madre china la testa verso di lei.

«È un mistero come tu non ci abbia ammazzate tutte» dice Sorrow.

Amaranth va con lo sguardo dall’una all’altra figlia, poi scende dal portico, vacilla un momento, scuote la testa come per scacciare qualcosa, e corre via. Via.

Sorrow la guarda allontanarsi, poi calcia via la coperta. Afferra le sue vesti macchiate di sangue, le agita al vento come un lenzuolo appeso, fin quando Amity sente l’odore di carne e di metallo che emana da lei. «Hai pulito quel bagno?»

Amity annuisce, triste.

«Non te lo avevo chiesto.»

«Me lo ha chiesto la Madre.»

«E allora, quello che ti dico io? Dovresti ascoltarmi.»

Eccola la sua vita, pensa Amity, sospesa tra loro due. Si chiede cosa succederebbe se la Madre non si fermasse, se continuasse a correre. Cosa succederebbe se le lasciasse lì? E lei, Amity, cosa farebbe? Correrebbe dietro alla Madre oppure nella direzione opposta? Fuggirebbe da entrambe, o rimarrebbe lì insieme a Sorrow ad attendere il Padre? Poiché arriverà, deve farlo.

«Scusami.»

«Non è colpa tua» risponde Sorrow. «Sei troppo stupida per capire.»

«Forse è un segno» dice Amity, pensando a quel mare rosso sul pavimento.

«Non sai cosa sono i segni. Ti dico io cosa sono i segni.»

Sorrow si sdraia e Amity le sente dire: «Ero io il segno. Io.»

Amity si chiede se la sorella ricordi quello che lei ha fatto in macchina, quando ha strofinato le mani posandole poi sul ventre di Sorrow, per far montare il dolore che aveva dentro, per placare qualsiasi cosa le facesse male, per provare a vedere se riusciva a guarirla. Per Sorrow farebbe qualsiasi cosa al mondo. Con una mano scivola in un occhiello della fascia che ha al polso e mette l’altra estremità su quello di Sorrow, per legare i loro polsi insieme, e ribadire a se stessa la propria scelta.

Amity e Sorrow: Le figlie del profeta
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