XI

Vi erano delle persone che il Beretta non amava incontrare: se le intravedeva per strada, cambiava direzione o distoglieva lo sguardo. A volte avrebbe desiderato essere invisibile, così da attraversare piazze e vie senza doversi confrontare con i suoi simili, cosa piuttosto insolita e alquanto difficile dato il suo ruolo istituzionale. Si era chiesto più volte il motivo di tale misantropia, attribuendola, magnanimo, al suo perenne essere indaffarato e quindi refrattario a possibili distrazioni. Questa benevolenza verso i suoi difetti non giovava per nulla alle misurate relazioni umane che intratteneva.

In particolare, avrebbe preferito non imbattersi in una certa persona, ma la notizia riferitagli dal postino relativa a una donna di servizio tedesca che lavorava proprio per quella, lo mise con le spalle al muro.

Con titubanza infinita decise che era giunta l’ora di provare a scacciare i fantasmi che di tanto in tanto ricomparivano a scombinargli l’animo. Da piazza Dante si diresse in piazza Manzoni e salì le scale di un palazzo signorile. Era consapevole, quasi al cento per cento, che da quella visita non avrebbe avuto notizie utili sul fumatore di sigarette russe, ma ci andò lo stesso. Con fatica, riluttanza e un’inconfessata gioia, suonò alla porta.

Suonò una seconda volta e la porta si aprì. Una signora si affacciò all’uscio e, senza aprir bocca, tra curiosità e stupore, fissò il delegato. Aveva i capelli castani, tirati dalla fronte all’attaccatura delle orecchie verso la nuca, e raggruppati a crocchia con accuratezza. Due occhi turchini, guizzanti nel volto rotondo, scalfito da leggere rughe, lasciavano percepire una bellezza non ancora appassita. Delicate pieghe le comparvero alle estremità degli occhi: sorrise. Un silenzio interminabile, sostenuto da sguardi rammaricati, avvolse l’androne dell’antico palazzo. Quell’impacciato incontro si sbloccò quando dagli occhi della donna uscirono delle impercettibili lacrime. Fulminea, forse per nascondere la commozione che l’aveva presa, abbracciò il Beretta come si abbracciano le persone che si credono scomparse. Quel contatto, carico di calore, lo riportò indietro nel tempo, negli anni e alla vita ormai conclusa.

Si ritrovò nei luoghi del suo passato e la mente, per pochi istanti, ricostruì con fastidiosa precisione eventi e momenti che credeva persi nella memoria. Così si rammentò di quanto fosse stato codardo e ribelle – diversi anni addietro – nell’affrontare i sentimenti e le vicissitudini che l’esistenza gli aveva sottoposto. Si rammentò pure di come avrebbe voluto essere un altro uomo, forse uno scrittore o ancor di più un poeta: Leopardi, Pessoa o per lo meno Baudelaire; e magari, a costo di essere ridicolo, avrebbe scritto d’amore. Le avrebbe scritto che conoscerla era stato sublime e che quel momento indelebile gli aveva scalfito il cuore. Le avrebbe parlato di quanto adorava quella sua espressione ingenua, smarrita, a volte impensierita e a volte inquieta; o narrato dell’inspiegabile piacevolezza che gli scaldava l’animo quando erano assieme e di com’era felice di vederla ogni giorno. Felice di quanto la amava e disperato per come le sfuggiva. «Et t’aime d’autant plus, belle, que tu me fuis...». Avrebbe voluto scriverle queste cose e altre sciocchezze ancora più ridicole, ma l’ossessione d’essere travolto dalla vita, che scorreva rapida e ingannevole, lo aveva imbrigliato a tal punto che i rinvii divennero una costante. Quella Silvia, la sua Silvia, lo aveva atteso oltre ogni ragionevole tempo e poi si era arresa all’irresoluta inconcludenza, abbandonando affranta l’evanescente limbo che la custodiva. Quell’uomo, nonostante le volesse un gran bene, non avrebbe mai coronato il suo sogno di costruire una famiglia insieme a lei.

Silvia Conti, dopo la storia terminata ma mai conclusa con il Beretta, s’incupì a tal punto da preoccupare i familiari. Un’influente e benestante zia paterna, credendo che la lontananza le avrebbe giovato, la volle con sé a Milano. E così fu. La ragazza, distratta dalla vita meneghina, si riprese, iniziò a frequentare la società e a conoscere nuova gente. Nei salotti bene incontrò un suo coetaneo, figlio di aristocratici lombardi, e dopo un anno, nel 1914, la coppia convolò a nozze.

Nell’estate di quell’anno, catastrofici eventi sconvolsero l’Europa. L’Impero austro-ungarico dichiarò guerra al Regno di Serbia, innescando una delle più grandi catastrofi dell’umanità, con milioni di vittime civili e militari: la Prima Guerra Mondiale. Il marito di Silvia, ufficiale dello Stato italiano, partì per il Piave e non fece più ritorno. La giovane sposa, non avendo figli, si ritrovò da sola con quel nuovo dolore. Insicura sul da farsi, dopo innumerevoli ripensamenti, decise di rimanere a Milano con i suoceri. Nel 1932, non avendo più nessun legame affettivo in Lombardia, vendette quel che rimaneva della sua eredità e tornò a Lugano.

«Come stai Zechi?» chiese Silvia.

«Me la cavo... con qualche tormento».

La donna sorrise. «Accomodati».

L’ingresso dava su un imponente corridoio, largo e alto. Diversi specchi luccicanti aggiungevano profondità all’ambiente, mentre dei volti severi, imbrigliati in cornici fastose, intimorivano lo sguardo. Percorsero lo spazio per qualche metro ed entrarono in un ampio locale con pareti e soffitti adornati da un eclettico barocco. Silvia si accomodò e così fece il Beretta. Un imbarazzante silenzio la faceva da padrone. Avrebbero voluto raccontarsi, ma nessuno dei due ne aveva la voglia o il coraggio. A entrambi andava bene quella sorta di congelamento durato vent’anni e continuavano a osservarsi come se dal loro ultimo incontro fosse passata solo qualche ora.

«Mi hanno detto che hai una donna di servizio tedesca» principiò il Beretta rompendo quell’intollerabile impasse.

Silvia sorrise. «È vero, Anna sembra tedesca, almeno in base allo stereotipo che abbiamo dei tedeschi, ma non lo è. Viene da Trieste».

«Conosce il tedesco o per caso ha qualche accento particolare?» domandò il delegato mentre fingeva di appuntare sul taccuino chissà che. La donna di servizio di Silvia non andava di certo in giro a comprare Belomorkanal!

Il rumore di una porta che si apriva destò l’attenzione di entrambi.

«Ora la conoscerai...» fece Silvia.

Una signora, che aveva passato i settanta, fece capolino nel locale dove stavano i due. Salutò con un cenno del capo. Con le robuste braccia sosteneva la sporta, che appoggiò per terra, e prese fiato.

«Entra pure, Anna, voglio presentarti un mio carissimo amico: il delegato di polizia Ezechiele Beretta».

Il poliziotto, alzandosi dalla poltroncina e accennando un leggero inchino, la salutò. Anna li fissò entrambi muovendo la testa a piccoli scatti, poi assunse l’espressione di chi ha capito tutto, come se un mistero nascosto le si fosse rivelato all’improvviso. Silvia si accorse dell’intuizione della domestica e spiegò: «Anna è con me da molti anni».

Un sorriso di circostanza gonfiò per pochi attimi le guance del poliziotto, che si affrettò a porre la prima domanda, improvvisata lì per lì, così da giustificare – se fosse il caso – la sua presenza in quell’appartamento. «Mi scusi signora Anna, lei conosce delle sue colleghe che parlano tedesco e fanno la spesa in centro?». Consapevole che quelle due signore non sapevano nulla delle sigarette russe, provò comunque a chiedere qualcosa che avesse senso per la sua indagine.

«Ne conosco tre».

Lo stupore del Beretta fu così palese che generò meraviglia nelle sue interlocutrici. La domestica snocciolò nomi e dettagli con noncuranza e precisione: «Bruna Schäfer lavora presso l’Hotel du Lac; Anke Berger è a servizio del barone von Günther; Berthild Roth si occupa della famiglia Scholz in via Emilio Bossi».

«Per favore, può ripetere i nomi?» domandò il Beretta mentre sfogliava vivace il suo taccuino. «Ecco» disse ad alta voce. Aveva trovato la pagina con le informazioni avute al Café Brasserie de la Poste e le incrociò con quelle appena ricevute cercando le similitudini. Per una coincidenza o un’altra, tutti e tre i nomi corrispondevano ad altrettanti recapiti indicati dai postini: la sua lista stava diventando più precisa. Cerchiò con diversi passaggi il nome di Anke Berger: delle tre citate era l’unica che lavorava in una villa. Tutti a Lugano conoscevano villa Herminones sulla riva del lago, vicino all’ingresso del sentiero che conduceva a Gandria, di proprietà del barone von Günther.

Lo lasciarono da solo. Silvia tornò pochi istanti dopo.

«Anna ci preparerà un tè» disse sorridendo. Il Beretta contraccambiò il sorriso mentre in piedi percorreva le pareti sbirciando i ricordi di Silvia, appesi e appoggiati un po’ ovunque. Si soffermò su una fotografia: un matrimonio. La donna gli si avvicinò e guardò anche lei per alcuni istanti l’immagine. «È morto in guerra» aggiunse senza che il delegato chiedesse nulla. L’uomo cercò i suoi occhi, ma quelli fissavano altro. Le avrebbe voluto esprimere il suo rincrescimento, ma non lo fece.

L’arrivo di Anna con il tè li distrasse da quell’atmosfera che li stava immalinconendo.

Il Beretta non riuscì a rifiutare l’invito a cena. Ci provò con un flebile tentativo, poi desistette: in fondo aveva voglia di intrattenersi un po’ con Silvia e di dimenticare per qualche ora il caso che lo stava imbrigliando più del dovuto. Rotto il gelo iniziale, riuscirono a raccontarsi, accennando al passato comune senza risentimenti, ma con qualche nostalgia.

Verso le 23.00 rientrò in gendarmeria.

«Signor delegato,» gli riferì il militare di picchetto «l’appuntato Bernasconi l’ha attesa fino a mezz’ora fa, poi è andato a casa. Mi ha detto di consegnarle questa busta e questa scatolina. Domani non è in servizio ma, se ha bisogno, l’assicura che può venire in qualunque momento».

«Grazie» rispose il Beretta. Si mise in tasca le Belomorkanal e, rigirandosi il plico fra le mani, si diresse nel suo ufficio.

Nel puntiglioso verbale redatto da Tranquillo, come prevedibile, si evidenziava che nessuno dei tabaccai ascoltati aveva venduto le sigarette russe.

Anche il resoconto sulle vetture a tre ruote e relative fotografie prese in prestito da Pinin Farelli non aggiungevano nulla all’indagine. I modelli ritratti in quelle immagini si riferivano agli albori della sua invenzione, erano veicoli che non sarebbero di certo passati inosservati in città. Invece il disegno, un po’ infantile, che l’appuntato aveva allegato lo fece sorridere e nello stesso tempo preoccupare. E bravo Tranquillo, pensò il Beretta, questa sì che è un’intuizione. Se è esatta, come credo, sarà davvero complicato identificare l’auto.

Su un foglio bianco, il gendarme aveva stilizzato, geometrizzandole al massimo, le forme della Fiat 518 Ardita, la stessa in dotazione alla polizia. Agli occhi di un bambino – anche non spaventato – un’auto simile a quella sarebbe apparsa, nell’essenzialità delle linee, come un insieme di quadrati. Inoltre, nella visione bidimensionale cui sono soliti ricorrere i piccoli per rappresentare le cose, la ruota di scorta inserita nel parafango era di certo la terza ruota.

«Per la miseria!» esclamò il delegato parlando a se stesso. «L’auto a tre ruote esiste, il problema sarà trovarla».