XXX
Sterlina rifece il percorso a ritroso. Risalì le scale e da dietro la porta riacquistò la calma aggiustandosi i vestiti, poi rapida e con noncuranza si diresse verso la sala da pranzo. Stavano servendo i pasti, la concentrazione del personale era tutta per quell’attività e nessuno notò da dove venisse.
Per la prima volta vide gli ospiti del sanatorio: molte coppie non più giovani, qualche vecchio da solo, diverse persone di mezz’età. Bambini non ce n’erano. Quel luogo non le piaceva per nulla. Suggestione o realtà, l’impressione che da un momento all’altro si sarebbe ammalata non la mollava. Salutò con leggeri cenni del capo gli sguardi che incrociava e dal suo posto si disinteressò dei commensali per riflettere sul prosieguo del compito affidatole dal Beretta.
Le portate arrivavano lente, nel sanatorio tutto era lento. Il ritmo della quotidianità si era adattato agli ospiti che, svigoriti, affrontavano la cura dei propri malanni come se il tempo a loro disposizione fosse infinito. Sterlina, estraniata da quello che le succedeva attorno, assaggiava inappetente pezzi di cibo. La pretenziosa e pallida sala da pranzo, ritmata da colonne esagonali che sostenevano le travature del soffitto a cassettoni, era lo sfondo dei suoi pensieri. Rifletteva sulla mattinata appena trascorsa cercando un nesso tra le presunte scoperte e la planimetria della struttura: al terzo piano non aveva notato nulla di anomalo; nel seminterrato, quella specie di laboratorio poteva suffragare le teorie del Beretta, ma aveva visto troppo poco e le sue competenze in materia erano uguali a zero. Non le rimanevano da controllare che il primo e il secondo piano.
Senza finire il pranzo, accennando alla cameriera un leggero malore per giustificare la sua partenza improvvisa, salì al primo piano. Dall’atrio sbirciò verso il blocco Sud. Deserto. Poi verso quello Sud-Ovest. Nessuno. In fondo, però, vide qualcosa che destò il suo interesse: il carrello dei cibi. A quanto pareva, alcuni ospiti non erano scesi al piano terreno per il pranzo. Si insospettì: non erano in un ospedale, ma in un luogo di cura e di convalescenza, i pazienti dovevano essere tutti autosufficienti; però poteva anche essere che qualcuno preferisse starsene per conto suo.
L’ispezione porta a porta, come quella fatta la mattina al terzo piano, era da escludere: troppo lunga, rischiosa e con l’elevata possibilità di farsi scoprire e rovinare tutto. Decise di andare al secondo piano e verificare se anche lì qualcuno fosse rimasto in stanza per il pranzo. Non vide carrelli nei corridoi deserti, forse era in ritardo o in anticipo rispetto alla distribuzione. Confidando sul suo olfatto, e sul merluzzo in padella che servivano a pranzo, provò a percorrere i due settori: se qualcuno lo stava mangiando in camera, se ne sarebbe accorta. Non era granché come strategia, magari ai piani servivano solo pasta in bianco, ma comunque ci provò lo stesso. Anche la ricerca olfattiva non portò risultati.
Ridiscese al primo piano. Il carrello era sparito. Disinvolta si diresse verso le camere dell’ala Sud-Ovest, dove l’aveva visto poco prima. Un avviso ben in mostra, adiacente agli stipiti delle ultime cinque camere, recitava in tedesco: «Zutritt nur für autorisiertes Personal». Quelle porte potevano essere oltrepassate solo dal personale autorizzato. «Però!» le sfuggì in un bisbiglio. Non udiva rumori. La curiosità si impose sulla ragione e la mano destra andò sulla maniglia. La porta era chiusa. Un attimo di esitazione e poi provò l’altra. Chiusa anche la seconda.
Ritta e con lo sguardo vigile sulla prospettiva di quel corridoio infinito, si avvicinò alla terza porta. Un brivido le arrivò dal freddo ottone dell’impugnatura quando sentì la maniglia abbassarsi senza che l’avesse spinta. Qualcuno stava uscendo. La freddezza accumulata negli ultimi anni della sua vita le aveva plasmato l’arguzia tanto da sapersela cavare anche tra le asperità dell’imprevisto. Con uno scatto mollò la presa ed entrò nella porta di fronte, dall’altra parte del corridoio. Socchiuse appena in tempo l’anta e si ritrovò nel pianerottolo di una scala. Ma certo, si disse, una struttura di queste dimensioni, lunga più di cento metri, non può avere un solo collegamento verticale: devono esserci altre scale, e la fortuna ha voluto che ci finissi dentro.
Immobile con un occhio nella fessura tra l’anta e il telaio osservava la scena: un uomo e una donna, con camici bianchi, parlavano in tedesco sull’uscio semiaperto della terza camera. Sterlina capiva solo le parole usuali ma erano immerse in un fertile lessico tecnico che le fece risultare il discorso del tutto incomprensibile. I due avanzarono di qualche passo parlando con una certa animosità. La donna, un’infermiera, prese da una tasca un mazzo di chiavi, chiuse con due mandate e, solerte, sorpassò l’uomo, un medico, per aprire la seconda stanza.
Sterlina ebbe un sussulto. Trattenne il respiro, i muscoli e, se avesse potuto, se fosse servito a non rivelarne i battiti, avrebbe fermato anche il suo cuore. Le sembrò che gli occhi dell’infermiera fossero sui suoi. Impossibile: lei era dietro la porta e spiava da uno spiraglio, come poteva averla vista?
Con passo a gamba tesa e cipiglio minaccioso, la donna puntò la fessura da dove l’osservava Sterlina; pareva persino che marciasse al passo dell’oca scandito dai tamburi della Wehrmacht. Sterlina, impietrita e attonita, non credeva a ciò che stava vedendo: era certa che nessuno avrebbe potuto notarla da quella posizione ma non si perse d’animo e, in una frazione di secondo, elaborò una scusa.
La donna agguantò la maniglia e con forza la tirò a sé. Si era limitata a chiudere la porta. Le ci volle qualche secondo per riprendersi dallo stato catatonico in cui i meccanismi di autodifesa, davanti all’infermiera che avanzava come un panzer, l’avevano bloccata. Quasi di corsa salì le prime rampe per poi cedere alle palpitazioni e assumere un passo normale e riprendere fiato.
Al terzo piano, una signora, che faceva avanti e indietro con un deambulatore, le fece notare che la scala di servizio era per il personale, gli ospiti utilizzavano quella centrale, più comoda. Sterlina la ringraziò con un sorriso serrando le labbra e si diresse nella sua camera. Sdraiata sul letto rifletteva su quante cose erano successe dalla mattina. Qualcosa aveva scoperto e non vedeva l’ora di aggiornare Zechi. Preparò i bagagli e attese. Verso le 18.00 tolse l’asciugamano rosso dalla finestra, lo ripose nella valigia e scese al piano terreno per fare una telefonata. L’uomo alla recezione le indicò il telefono per gli ospiti appeso vicino al banco. Chiamò il Pà Cech e, attenta che l’addetto sentisse, raccontò una storia lacrimosa chiedendo dello stato di salute del marito. L’oste ascoltava il discorso di Sterlina sbalordito, non capendo che cosa stesse raccontando. Lei domandava e ripeteva le risposte facendo credere che qualcuno dall’altro capo gliele fornisse. Alla fine concluse dicendo: «Mandatemi subito un taxi».
«Mi scusi l’intromissione,» disse l’addetto «non ho potuto fare a meno di sentire la sua conversazione: qualcosa di grave?».
«Sì purtroppo» fece Sterlina piegando gli angoli della bocca verso il basso e stimolando un tremito delle labbra. «Mio marito sta molto male e devo raggiungerlo».
«Posso fare qualcosa?».
«Grazie, mi può far chiamare appena arriverà il taxi. Salgo in camera a preparare le mie cose».
Lasciare la struttura senza destare sospetti era un punto fermo accordato con il Beretta; la piccola sceneggiata interpretata con l’ignaro Cech era invece una sua trovata.
Il taxi lasciò il sanatorio in direzione Lugano. All’inizio del paese di Agra, appena un chilometro dopo, si fermò. La Fiat Ardita della polizia lo aspettava.
«Tutto bene?» domandò il Beretta.
«Sì sì...» rispose Sterlina, impaziente di raccontargli ciò che aveva visto e fatto, cosa che fece non senza un piglio di compiacimento per la sua audacia.
Il resoconto fu preciso e colmo di particolari. Il delegato appuntò le informazioni ricevute sul suo taccuino, aggiungendo dettagli ai disegni delle mappe. Al primo piano, nella parte estrema dell’ala Sud-Ovest, vi erano cinque camere a ingresso riservato e chiuse a chiave. Due piani più sotto, nel seminterrato, una specie di laboratorio era stato ricavato da una zona di circolazione. Questi locali, collegati da una scala di servizio, erano accessibili dall’esterno: una struttura autonoma all’interno del complesso principale.
«Forse ci siamo» concluse il Beretta. «Dobbiamo intervenire subito».