XXII
Gli fu facile trovare il medico che con molta probabilità aveva curato l’uomo ripescato dal lago. Il colloquio con Lurati l’aveva ricaricato e la prima telefonata che fece dall’ufficio andò a buon fine. Nel nucleo di Cortivo, a pochi passi da villa Herminones, esercitava un solo dottore.
Il Gianinazzi, medico condotto della zona, girava di casa in casa a prestare assistenza sanitaria. Lo trovò nel suo studio e appurò la veridicità della propria teoria: tutto combaciava. In effetti, un uomo si era fatto curare a causa di un morso al polso. Il medico gli raccontò l’episodio e con precisione lo collocò nel tempo: martedì 30 ottobre a notte fonda. Un ospite del barone von Günther era stato morso – a suo dire da un cane – e lui l’aveva curato con la sieroterapia. L’uomo, con una certa perizia, si era già fatto da solo le prime cure, ma l’infezione non si era arrestata. Si trattava di un tedesco sui trenta o forse trentacinque anni, un tipo robusto che sapeva il fatto suo, di quelli abituati a comandare.
Al telefono, il dottor Gianinazzi pareva piuttosto disponibile a esporre i fatti, tant’è che il Beretta gli propose d’incontrarsi in giornata all’obitorio. Gli spiegò il caso e l’altro fu ben felice di rendersi utile.
«Buongiorno dottore,» disse il Bernasconi «il signor delegato è già di sotto col suo collega Viviani». L’appuntato lo stava aspettando davanti all’ingresso e gli fece strada. Il dottor Gianinazzi era un tipo magro, alto, con capelli bianchi dai riflessi argentei. Si muoveva con un’andatura zoppicante, obliqua, e pareva avesse un braccio più lungo dell’altro, forse perché stirato dall’immancabile borsa a barilotto che si portava sempre appresso. Con passi lenti discesero le scale, attraversarono in silenzio un lungo corridoio, finché non giunsero in quel luogo pieno di morte. In fondo alla sala, il Berretta stava discutendo con il dottor Viviani. Entrambi avevano gli occhi puntati su alcuni fogli. Si salutarono.
Per accedere alla morgue bisognava attraversare uno stanzone che la disimpegnava dalla sala di anatomia patologica. Una volta, quando i metodi per determinare i decessi non erano sicuri, molte persone ossessionate dalla morte apparente, preoccupate di essere sepolte vive, disponevano di rimanere qualche giorno negli obitori d’attesa prima dell’inumazione. Questi stanzoni tranquillizzavano chi avesse dubbi sull’efficienza della Nera Mietitrice. Ora il locale era usato come camera stagna contro i cattivi odori che provenivano dall’obitorio.
L’anatomopatologo spinse verso il basso il maniglione e aprì la porta cigolante. La stanza era gelida. Per rallentare la putrefazione e contenerla in termini accettabili era indispensabile non superare i quattro gradi centigradi, e quel locale riusciva a ottemperare molto bene gli obiettivi per cui era stato costruito. All’interno uno solo dei quattro tavoli era occupato, e il lenzuolo bianco che lo copriva non mimetizzava nulla di ciò che cercava di nascondere. I quattro uomini si avvicinarono in rispettoso contegno, ma nemmeno turandosi il naso riuscirono ad attenuare la puzza emanata da quei resti mortali. Il Viviani sollevò con cautela il panno di lino, iniziando dalla testa fino al basso ventre. Quello che comparve, gradualmente, da sotto il sudario fu un amalgama di ciò che una volta era un essere umano: la decomposizione era stata rallentata, ma le condizioni pessime di partenza e la corruzione in stato avanzato avevano deformato il cadavere oltre i più pessimistici pronostici.
«Lo riconosce?» fece retorico il Beretta.
Il dottor Gianinazzi sorrise. «Potrebbe essere chiunque, anche una donna». Poi, chinandosi, osservò il braccio destro. Solo ponendo una scrupolosa attenzione si potevano scorgere i segni di qualcosa che forse era stata l’infezione da morso.
«Posso?» chiese il medico avvicinando il pollice e l’indice al taschino del grembiule bianco del Viviani.
«Prego».
Ottenuta l’autorizzazione del collega, strinse tra le dita una pinza emostatica a punta diritta e gliela sfilò. Vigili, come se fossero testimoni di un’imminente scoperta, i due poliziotti e il patologo non perdevano un movimento del medico condotto. L’uomo prese la pinza al contrario, per i becchi, e accostò l’impugnatura alle labbra del cadavere. Fece una leggera pressione verso l’alto tanto da sollevare il labbro superiore e schiacciò quel pezzetto di carne flaccida finché non ebbe una chiara visione dell’arcata superiore.
«È lui al novantanove per cento» sentenziò.
Il breve controllo dei denti del morto era stato rivelatore.
«Durante la visita, mentre gli controllavo la bocca, notai che non aveva più la metà interna del primo premolare destro dell’arcata superiore. Ci scambiammo qualche battuta sul fatto che dovesse andare dal dentista».
«Non ha dubbi dunque» disse il Beretta.
«La possibilità di una coincidenza la definirei improbabile. A conferma dell’identità vi è inoltre, anche se piuttosto vaga alla vista, l’ecchimosi sul braccio destro».
«Cosa mi può dire del morso?» riprese il delegato, suo unico interlocutore.
«Non era il morso di un cane, come sosteneva lui. A seconda della taglia, i cani lasciano altri segni. Spesso è presente una lacerazione e i fori dei canini sono di solito ben visibili».
«Di cosa era?».
Una lunga pausa s’interpose tra la domanda e la risposta, che arrivò raccapricciante senza ormai più meravigliare i presenti.
«Di un essere umano».
Quell’asserzione necessitava di un chiarimento che il medico condotto fece con prontezza. «La recisione che rilevai sul polso era stata procurata dagli incisivi e i canini dell’arcata inferiore, una morsicata profonda che gli ha causato l’infezione. In verità il morso era alquanto anomalo».
«Cioè?».
«Non c’erano i segni dei denti dell’arcata superiore».
«E che spiegazione si diede?».
«Al momento non ci pensai e neppure chiesi lumi. Siccome mi aveva già mentito sulla dinamica, non m’impicciai di quella storia. Poi, in seguito, immaginai un incidente, forse con una donna nell’intimità».
«Il morso potrebbe essere di un bambino di sette anni che, dopo aver perso la dentatura decidua superiore, è in attesa di quella permanente?».
Entrambi i dottori annuirono.
«Come presumo sappia, signor delegato,» intervenne il Viviani «il morso di un essere umano, adulto o bambino che sia, può trasmettere diversi batteri e causare delle inaspettate infezioni».
«A quanto pare è quello che è successo a quest’uomo. Ma non sono i bacilli che l’hanno ucciso».
L’appuntato Bernasconi aiutò l’anatomopatologo a coprire il corpo. Con attenzione riposizionarono il lenzuolo e seguirono gli altri che nel frattempo avevano lasciato l’obitorio.
Prima di congedarsi il delegato ringraziò i due dottori, si raccomandò di mantenere un assoluto riserbo sull’incontro e ottenne un assenso deciso e unanime. I due medici se ne andarono per proprio conto, mentre i poliziotti rientrarono. Il loro lavoro non era ancora finito.