XXIV

Nessuno trovava gradevole la saletta degli interrogatori della gendarmeria, e non sarebbe stata apprezzata neppure se si fosse detto in giro che un noto architetto luganese, esperto nel rivisitare gli stili classici, ne era l’autore; e neppure se qualcuno l’avesse arredata con i moderni mobili Bauhaus: in nessun caso avrebbe ottenuto un plauso dai suoi visitatori. Neanche uno di loro si era mai soffermato a guardare come fosse fatta, se non per memorizzare con estrema attenzione la posizione della porta d’ingresso, unico elemento d’interesse per coloro che, entrati, non vedevano l’ora di uscire. L’angusto spazio senza finestre contribuiva a enfatizzare la percezione di oppressione che quel luogo infondeva negli involontari ospiti.

L’unica persona al mondo che pareva trovarsi a suo agio in quella specie di sgabuzzino era l’avvocato Laghi. Il Beretta, se poteva, non la utilizzava, e così gli altri suoi colleghi che preferivano locali con ampie aperture.

Quel giorno, invece, la stanza era affollata da ben cinque persone che ne consumavano l’esigua aria.

«Bene!» esclamò il Laghi. «Come vede, egregio delegato Beretta, i signori Berger hanno risposto con solerzia alla sua convocazione e, da cittadini rispettosi della legge, si sono presentati diligenti nel suo ufficio».

Il legale, sempre pronto a punzecchiare, si era messo a ironizzare sul locale in cui erano, accreditandolo quale ufficio del delegato. Ezechiele non si scompose di un solo millimetro ed entrò subito nel vivo delle domande.

«Signor Berger, chi ha accompagnato alla stazione la mattina di domenica 4 novembre?».

«Ma come? Ancora con questa storia!» intervenne l’avvocato. «Mi sembra che abbia già avuto risposte esaurienti a questo proposito».

Incurante di quanto aveva appena udito, il delegato ripeté la domanda, alzando il tono di voce e trapassando il Berger con lo sguardo.

Stizzito quanto il Laghi, ignorato come fosse un soprammobile, il Berger rispose secco: «Herr Folker Meissen».

«Per l’ultima volta, chi ha accompagnato alla stazione domenica 4 novembre?».

«Inaudito!» gridò l’avvocato. «Qui, oltre a non ascoltare dei rispettabili professionisti, si calpestano i diritti dei cittadini onesti. Inaudito! Andiamocene da questo luogo senza legge. Mi rivolgerò a chi di dovere perché vengano presi dei provvedimenti adeguati e immediati».

Si stavano alzando. Ezechiele fece un cenno al caporale Bernasconi e questi si piantonò davanti alla porta. Il Beretta, anticipando l’ira del Laghi – ormai bluastro e surriscaldato da un’imminente esplosione di bile – prese da un fascicolo un plico di carte, gettò un’occhiata ai fogli e con l’indice e il medio li fece slittare sul tavolo sospingendoli tra il Berger e il suo legale. L’avvocato si bloccò a mezz’aria: quelle carte avevano destato la sua attenzione e, senza proferire parola, si rimise seduto insieme agli altri due.

«Legga» esortò il poliziotto. L’altro lo guardò di soppiatto, con malizia, come se avesse appena ricevuto un colpo basso. Senza neanche conoscere il contenuto del documento, pareva che già macchinasse per la prossima mossa da fare.

Si trattava di un verbale di identificazione e ricognizione di cadavere, compilato su un modulo uniformato e con allegato il referto medico legale del dottor Viviani. Il documento indicava che il dottor Gianinazzi, tramite indizi inequivocabili a lui noti, aveva identificato in Folker Meissen il corpo trovato nel lago mercoledì 7 novembre. In verità, sulla relazione erano segnalate anche le percentuali di probabilità sull’esattezza della testimonianza, ma erano cose che a una lettura superficiale non venivano colte.

L’avvocato alzò lento gli occhi dai fogli, smarrito e infastidito, e poi li rivolse di nuovo sulle carte. Fingeva di leggere e intanto provava a concentrarsi per trovare una soluzione, tant’è che spinse via in malo modo la mano del Berger che tentava di raddrizzare una pagina per sbirciarne il contenuto. La signora Berger pareva una statua, stava immobile come se un solo, impercettibile, suo gesto potesse far crollare il mondo.

I tre, spiazzati dalla novità, sembravano ceramiche su un vassoio in bilico, pronte per divenire cocci. Il Beretta ne approfittò per incrementare il loro nervosismo: sapeva che quando le persone perdono le staffe dicono cose che non affermerebbero nemmeno sotto tortura.

«Vuole farmi credere che il Meissen, risuscitato, sia ritornato dal Sasso di Gandria fino a villa Herminones camminando sull’acqua per fare prima e non perdere il treno?». Come spesso faceva negli interrogatori, il Beretta mischiava verità e supposizioni, sempre in buon equilibrio tanto da non passare per bugiardo patentato: non aveva idea di quando il tedesco fosse morto. In teoria, analizzando le varie date e gli spostamenti, avrebbe potuto trovarsi alla stazione di Lugano, scendere alla fermata successiva, rientrare in città e finire ammazzato nel lago.

L’ironia del delegato aveva infiammato il Berger che, a labbra raggrinzite e gonfie, tratteneva a malapena un probabile urlo, mentre la moglie, abituata a rimanere in seconda fila, continuava a rimanere assente. Non così il Laghi, che stava riemergendo dal momentaneo affossamento per spargere fumo. «Questo documento presenta delle lacune e dovrà essere analizzato con estrema attenzione dai periti della controparte...».

«Signor Berger,» disse il Beretta «il suo legale le potrà confermare che un testimone attendibile ha identificato il cadavere del Meissen. Mi vuole dire sì o no chi ha accompagnato domenica 4 novembre alla stazione?».

La fronte del Berger era ormai solcata da vene in rilievo simili alle Alpi svizzere. Sudato, teso e infastidito da quella situazione umiliante, sembrava dover esplodere da un momento all’altro. Solerte, come un cane da guardia, il Laghi gli si avvicinò all’orecchio e, con l’intento di stemperare la tensione e di evitare coinvolgimenti inopportuni, gli sussurrò qualcosa. La faccia del custode, ormai non più in grado di celare una qualunque emozione, era un libro aperto di cui il Beretta era attento lettore. Il bisbiglio si protrasse e ci furono anche alcuni scambi sussurrati, finché l’avvocato non riassunse la solita espressione da combattimento e prese la parola.

«Il qui presente signor Berger si è comportato in maniera corretta e fedele ai suoi doveri, tanto da mantenere un segreto professionale che gli era stato richiesto».

«Che cosa sta dicendo Laghi? Quest’uomo ha mentito ai rappresentanti della legge!».

«Mentire! Mentire! Una parola grossa. Egli ha esaudito una richiesta di discrezione. Il signor Meissen si doveva allontanare da Lugano e non voleva che nessuno lo sapesse, forse proprio perché si sentiva in pericolo».

L’azzeccagarbugli stava ribaltando la situazione: avendo saputo che Folker Meissen era morto, ogni cosa che avesse raccontato sul conto del defunto non poteva essere smentita.

«Il signor Berger è da considerare un eroe: egli ha fatto di tutto per impedire che un ospite dell’illustrissimo barone von Günther, in pericolo di vita, fosse rintracciabile da chissà chi, ma purtroppo gli eventi sono stati fatali».

La mini-arringa del Laghi rasserenò il custode e il suo incarnato riprese il colore naturale, l’uomo aveva riacquistato il solito aspetto ritto e fiero, mentre la donna non aveva tratto neppure un minimo conforto dalle parole appena udite.

Per nulla meravigliato da quell’intervento, il delegato non si scompose. Conosceva fin troppo bene l’abilità dell’avvocato di rigirare la frittata e lo riteneva un maestro nel gioco delle tre carte. I Berger non c’entravano nulla con il caso, erano solo due poveracci appartenenti a un mondo fatto di regole ferree, tramandate da generazioni e nemmeno sfiorate dallo sconvolgimento illuminista. Vittime delle rigide gerarchie di casta, inconsapevoli che gli uomini devono servirsi della propria ragione per esistere degnamente, si comportavano nell’epoca contemporanea come anacronistici servi della gleba.

Al delegato interessavano altri fatti, ed era il momento buono per appurarli.

«Va bene,» continuò il Beretta «sentiamo nei dettagli la nuova versione di questo eroe».

«Herr Folker Meissen era sempre puntuale ma domenica 4 novembre non lo vedemmo a colazione. Il suo collega andò a cercarlo in camera».

«Come si chiama questo collega?» chiese il delegato.

«Non lo sappiamo».

«Come sarebbe non lo sapete? Non avete notificato gli ospiti al Comune?».

Freddo e impassibile il Berger s’irrigidì: non aveva fatto il suo dovere e la questione lo infastidiva. Intervenne il Laghi sciorinando un’inverosimile teoria sulle tempistiche.

«Lo avrete chiamato in qualche modo» incalzò il Beretta indifferente alle scuse dell’avvocato.

«Lo chiamavamo Herr Sturmbannführer, come lo appellava Herr Meissen».

Un maggiore delle SS, un altro nazista, pensò il Beretta. «Continui».

«Herr Sturmbannführer ci disse che la sera prima, appena arrivati in villa, lui era salito in camera, mentre Herr Meissen si era attardato in giardino perché voleva fumare una sigaretta rimirando il lago».

«Romantico. E poi?».

«Herr Sturmbannführer fece una telefonata e dopo una decina di minuti mi chiese di portarlo alla stazione».

«Mi pare, egregio delegato Beretta, che il dettagliato ed esaustivo resoconto del signor Berger si possa definire degno di un cittadino modello, ossequioso delle autorità inquirenti».

«Signora Berger, conferma quanto detto da suo marito?».

La donna, presa alla sprovvista, si destò dalla rigida posizione di statua decorativa e, impacciata, cercò un suggerimento non verbale dal coniuge che, pronto, arrivò tramite un impercettibile movimento delle sopracciglia.

«Confermo tutto» fece scuotendo dall’alto al basso la testa.

«Il colloquio è concluso. Potete attendere la stesura del verbale per la firma».

Lasciò i Berger e il Laghi con l’appuntato Bernasconi, salutò e se ne andò con il proposito di sconvolgere la sua quotidiana ordinarietà.