XX

Si era deciso. Dopo aver tergiversato per tutto il giorno precedente, e non aver dormito la notte appena trascorsa, si era infine convinto che doveva fare ciò che il ruolo istituzionale gli imponeva. Uscì di buonora e, rinunciando alla consueta tappa al Bar Lugano per la prima colazione, si diresse risoluto al Sassello.

Il profumo che usciva dal forno del Cerutti metteva allegria. Gli venne una gran voglia di caffè, che avrebbe accompagnato volentieri, come suggeriva l’odore vagante ad altezza naso, da un burroso chifer caldo.

Più si avvicinava al vicolo Brandiz, più gli aromi sapevano di campagna. Dapprima l’odore della trippa che ribolliva – chissà in quale casa a quell’ora del mattino – poi dell’aglio fritto resero evanescente l’immagine del cornetto al burro, prosciugandogli in un attimo l’acquolina in bocca. Il profumo del caffè misto alla cicoria e al latte caldo, infilatosi poco dopo nelle narici, attenuò gli inconsueti olezzi di busecca e aglio fritto, rappacificandogli l’olfatto.

Il quartiere era in piena attività. Chi lavorava altrove se n’era già andato, altri si stavano preparando per iniziare la giornata. Un uomo sull’uscio scrutava il cielo e aspirava serafico da una cicca compressa tra l’indice e l’anulare, lo salutò e rientrando gettò il mozzicone sul selciato. Ezechiele ricambiò il saluto con un cenno del capo e proseguì a rilento, cercando tra le ombre della via un’improbabile soluzione, come se da un momento all’altro un testimone chiave potesse sbucare da un portico o da una strettoia e, furtivo, gli suggerisse la soluzione.

Quel nuovo caso non ci voleva proprio: un cadavere nel lago, a oltre una settimana dall’aggressione di Agostino e dal rapimento di Ombretta. Doveva per forza rallentare, per non dire sospendere, le ricerche della bambina e dedicare del tempo allo sconosciuto che si trovava all’obitorio. Dopo ormai otto giorni dalla scomparsa, tutto passava nelle mani della fortuna, e non era detto che si sarebbe fatta viva.

Aveva deciso di andare presto dai Guerreschi, li avrebbe trovati in casa e con molta probabilità il figlio sarebbe stato ancora a letto: non voleva che sentisse la brutta notizia da un estraneo. Un ennesimo colpo stava per arrivare a quei disperati e questa volta toccava a lui comunicarglielo.

Alla porta lo accolse Mosè; la moglie, dietro di qualche passo, stava rassettando la tavola e, come lo vide, s’impietrì.

Con impercettibili gesti del capo si salutarono. Il Guerreschi indietreggiò e gli fece spazio chiudendo la porta dietro di lui. Sguardi fiduciosi, di chi ha speranza nonostante lo sconforto, scrutavano le tenui espressioni che a malapena trasparivano dal viso del delegato.

«Avete trovato Ombretta?» domandò infine Lara Guerreschi.

«No, non ancora». Non avrebbe detto nulla sull’andamento delle indagini, sugli indizi trovati e sul presunto colpevole fuggito chissà dove. «Le sue tracce si sono perse».

«È ancora viva allora?» chiese il Guerreschi, rassicurato nel non aver sentito il peggio.

Una risposta consolatoria avrebbe rasserenato quelle persone. Rasserenate fino a quando? Per mesi, per anni, forse per sempre, lasciandoli in un perenne stato di ansia per un ritorno che mai sarebbe avvenuto. Lui non aveva nessuna illusione e gli sembrava doveroso comunicarlo a quei genitori afflitti. Il rapimento era stato orchestrato da esseri disumani e la bambina, in balia di un male così grande, non sarebbe mai più tornata, ne era certo.

Lara e Mosè lo fissavano in attesa di una risposta. Al Beretta pareva di vedere i cuori di quella mamma e di quel papà sobbalzare nei petti in tonfi assordanti e persistenti. Un’angoscia così non l’aveva mai percepita. Non ebbe la forza.

«Non ho alcun dubbio: Ombretta è ancora viva».

Per la miseria, pensò. Ho passato la giornata di ieri a prepararmi per questo incontro, avrei dovuto dire che abbandono le ricerche perché non ci sono più speranze di trovare Ombretta viva, ed eccomi a dire l’esatto contrario. Accidenti a te Beretta.

Le sue ultime parole risuonarono come la lieta novella. La donna e l’uomo si rasserenarono come se la loro bambina fosse appena entrata nella malsana cucina.

Lara prese dalla piastra della stufa a legna il pentolino del caffè e gliel’offrì. Si sedettero. Quel caffè dei poveri, fatto con la cicoria, era davvero orribile, ma il delegato si consolò pensando a quanto fosse disintossicante per il fegato. Mentre lo trangugiava, ricambiò il sorriso ricevuto dai padroni di casa.

Rimase dai Guerreschi una mezz’ora. Rispose prudente e vago alle misurate domande che gli fecero tra lunghe pause e sguardi sommessi, e poi si congedò da quell’imbarazzante colloquio con la prostrazione per il non detto.

«Buongiorno, signor delegato» disse Mario. «Mattiniero oggi».

«Sono sempre mattiniero, solo che oggi il caffè lo prendo più tardi». Bugia per bugia... pensò. In effetti, erano appena passate le 7.00 e già era al solito posto ad attendere un caffè vero. Mario sorrise compiacente.

La pagina della cronaca cittadina di un quotidiano riportava alcuni dettagli sul ritrovamento del cadavere e raffronti con casi analoghi. Un articolo lasciava intendere che, non appena saputi i risultati dell’autopsia, sarebbero arrivate altre notizie. Di Ombretta non se ne parlava più.

Una bella notizia lo rasserenò. Il giorno prima, 8 novembre 1934, l’Accademia di Svezia aveva conferito il Nobel per la letteratura a Luigi Pirandello: «Per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte drammatica e teatrale» recitava il motivo di quell’assegnazione. Il premio a un letterato italiano gli fece dimenticare per un attimo le cupe vicende luganesi che doveva affrontare. Non si ricordava chi l’avesse vinto l’anno prima, forse un russo. Si chiese chi potesse essere il prossimo, magari Hermann Hesse, l’illustre scrittore residente nella vicina Montagnola. Chissà... Chiuse il giornale appoggiandolo sul tavolo, indietreggiò sulla sedia e iniziò a vagare con gli occhi tra le pareti fumose del locale.

Faceva una gran fatica a concentrarsi sull’indagine inerente al cadavere del lago. Lo sguardo vispo di Ombretta, mentre agguantava la fetta di torta di pane e leccava lo zucchero, non lo mollava. Poi un’ombra s’intrometteva e, sovrapponendosi ai suoi pensieri, toglieva nitidezza a qualunque riflessione razionale. Non riusciva a non collegare l’orrendo feticcio che si era fatto dare dal patologo con gli ambigui frequentatori di villa Herminones. Vi erano diverse coincidenze tra i due casi, e per lo meno due lo punzecchiavano: la vicinanza alla villa del luogo in cui avevano rinvenuto il corpo e la scomparsa del principale sospettato del rapimento. Sapeva, però, che si trattava di particolari che potevano dissolversi in un attimo: il primo era molto debole, perché il lago portava i cadaveri dappertutto; il secondo poteva essere confutato perfino da uno studente di legge, citando per esempio la testimonianza della guardia di sicurezza che aveva visto il Berger accompagnare un uomo alla stazione di Lugano. Eppure, nonostante la loro fragilità, non riusciva a ignorarli. Si chiedeva se, coinvolto dai drammi della famiglia Guerreschi e dagli occhi della piccola Ombretta, non stesse perdendo la ragionevolezza; forse desiderava a ogni costo che i casi confluissero in uno solo così da non abbandonare la speranza di ritrovare la bambina. Il sentimento ebbe il sopravvento sul raziocinio: decise di approfondire quelle coincidenze.