18
Benché Nikolaj avesse studiato mappe e fotografie aeree, queste non potevano sostituire la conoscenza diretta del terreno - e lui voleva orientarsi nella città. La sua sopravvivenza poteva dipendere da una decisione immediata su quale vicolo prendere, quale strada evitare, e non ci sarebbe stato tempo per indecisioni o esitazioni.
Pechino, nei primi giorni del 1952, era una città di contraddizioni, divisa fra gli spaziosi settori governativi e gli stretti vicoli - hutong - in cui viveva la maggior parte della popolazione. Il cuore di Pechino era la Città Proibita
- chiusa al pubblico, come indicava il nome, per la maggior parte della sua millenaria esistenza. Adesso che era arrivato il governo comunista e aveva trasformato molti degli edifici in uffici e residenze, gran parte della città restava "proibita".
L'"altra" Pechino, che circondava la Città Proibita, era - o era stata - una città vivace, attiva, cosmopolita di circa due milioni di abitanti, con mercati all'aperto, vie di negozi alla moda, parchi e piazze dove si esibivano giocolieri, maghi e suonatori ambulanti.
I Beijingren, i nativi, avevano l'atteggiamento duro, ironico e sprezzante degli abitanti di tutte le grandi città. Per loro Pechino era un universo, e non avevano tutti i torti. Tutti erano andati nella città imperiale - non solo ogni sorta di cinesi, ma, nel bene o nel male, anche il resto del mondo. Così i pechinesi sofisticati conoscevano tutte le variegate culture della Cina, del Giappone e dell'Europa. Un ricco Beijingren poteva tranquillamente mangiare in un ristorante francese, comprare i vestiti da un sarto italiano e l'orologio da un artigiano tedesco. Molti pechinesi indossavano abiti inglesi o vestiti francesi e ballavano musica americana.
Comunque, ogni buon Beijingren, dal povero spazzino al ricco commerciante, avrebbe probabilmente sostenuto la superiorità culturale di Pechino - con i suoi favolosi palazzi imperiali, i suoi ponti, parchi, giardini, i suoi ristoranti e le sue case da tè secolari, i suoi teatri di prosa e d'opera, i suoi circhi e i suoi acrobati, i suoi poeti e i suoi scrittori.
Pechino era una sofisticata capitale imperiale quando Londra e Parigi erano poco più che paludi infestate dagli insetti. Tra tutte le capitali europee, solo Roma poteva rivaleggiare con Pechino per antichità, raffinatezza e potenza.
I pechinesi avevano visto tutto. Molti dei cittadini ancora vivi ricordavano le invasioni dei francesi, dei tedeschi, dei nazionalisti, dei giapponesi - e adesso dei comunisti. La città si era adeguata, era cambiata ed era sopravvissuta.
Molti osservatori si erano stupiti quando Mao aveva scelto la città, con tutte le sue implicazioni imperiali, come capitale. Nikolaj pensava che l'avesse scelta proprio per quelle implicazioni. Nessuno poteva governare la Cina senza quei simboli - senza possedere il Tempio Celeste, nessun imperatore poteva rivendicare il mandato del cielo, e Nikolaj sapeva che Mao, a dispetto di tutta la sua propaganda comunista, si considerava un nuovo imperatore. E infatti si era subito chiuso nella Città Proibita e lo si vedeva raramente al di fuori di essa.
I pechinesi lo sapevano. Avevano conosciuto molti imperatori, avevano visto dinastie sorgere e tramontare, avevano osservato i monumenti celebrativi mentre venivano eretti e poi mentre crollavano e sapevano che la dinastia comunista era solo una delle tante. Il suo tempo sarebbe venuto e sarebbe passato, ma la città sarebbe rimasta.
In che forma, però, si chiese Nikolaj mentre usciva in strada dall'ingresso principale e svoltava a destra sulla Chang'an. Mao aveva dei progetti sulla città e aveva annunciato l'intenzione di trasformarla da "città consumista" a "città produttiva." Già vari isolati di vecchie case erano abbattuti per far posto a nuove fabbriche, strade strette venivano allargate per essere percorse dai carri armati, e degli architetti sovietici - espressione perfettamente ossimorica, secondo Nikolaj - stavano progettando sterili edifici di cemento al posto dei vecchi cortili che costituivano il cuore della vita domestica di Pechino.
I muri dei cortili fiancheggiavano le vie residenziali e gli hutong. Sulla strada si aprivano solo delle porticine. Le porte davano su un altro muro e chi entrava doveva andare a destra o a sinistra - un trucco per ingannare gli spiriti maligni, che possono muoversi solo in linea retta. Una volta aggirato quel muro, si apriva un cortile interno, solitamente di ghiaia o, nelle case più ricche, lastricato. Nel cortile di solito c'era un albero o due e un braciere aperto per cucinare durante la stagione calda. A seconda della ricchezza o della povertà della famiglia, c'era un edificio di uno o due piani, magari con delle ali indipendenti per le famiglie dei figli. In quelle case per famiglie allargate, protette dalle loro mura, i Beijingren vivevano ritirati, silenziosi e in grande autonomia.
Questo non andava affatto bene per Mao, ossessionato dal controllo, che ben presto condannò il desiderio di privacy come segno di "individualismo" antisociale. In attesa che i sovietici completassero le loro atrocità architettoniche, Mao attaccò i cortili a livello organizzativo, istituendo "comitati per la sicurezza" in cui i vicini erano incoraggiati a farsi la spia l'un l'altro. Squadre di "gente notturna" in divisa nera - per lo più ex ladri - usavano le loro abilità per aggirarsi sui tetti e ascoltare i rumori di "attività borghesi", come il clic delle tessere di mah jong, il trillo di un uccellino in gabbia, i sussurri dei cospiratori antirivoluzionari.
L'assalto alla vita della città veniva condotto anche negli spazi pubblici. I teatri e le sale da tè vennero chiusi, gli artisti di strada tormentati con i permessi, i venditori di cibo costretti a inserirsi in collettivi statali. Perfino i conducenti di risciò che un tempo affollavano le strade venivano eliminati a poco a poco in quanto "relitti imperiali" e simboli di "schiavitù umana." Non accadeva all'improvviso, ma accadeva e il fermento che dava alla città tanto del suo fascino si affievoliva e si trasformava in un'immobilità terrorizzata, in cui ogni attività veniva osservata e ascoltata.
Nikolaj si accorse dell'uomo che prese a seguirlo ancor prima che avesse lasciato l'albergo. La Cina aveva scarsità di molte risorse, ma non di popolazione, per cui i servizi segreti potevano facilmente permettersi di lasciare all'albergo un uomo al solo scopo di tener d'occhio "Guibert".
Buono a sapersi.
Nikolaj voleva capire quanta sorveglianza avrebbe dovuto affrontare, quindi - avrebbe detto Haverford stava sondando il terreno. Lui, da giocatore di go, la pensava diversamente. Uno dei principi fondamentali del gioco era che il movimento attira il movimento. Il movimento di una singola pietra in una zona della scacchiera generalmente provoca una mossa di risposta da parte dell'avversario. Lo stesso, aveva scoperto, accade nello spionaggio - un gioco in cui si rendeva conto di essere ancora novizio.
Fingendo di non notare la sorveglianza, attraversò la Chang'an ed entrò nell'antico Quartiere delle Legazioni. Superò il palazzo della legazione russa, che l'attuale delegazione sovietica aveva rioccupato. Usando solo la visione periferica, esaminò la facciata dell'edificio, dove erano chiaramente visibili gli agenti di sicurezza, seduti nelle berline russe.
Continuò a camminare, come se fosse deluso dal Quartiere delle Legazioni, e si diresse a ovest, verso la piazza Tienanmen.
Fece il giro della piazza, caotica a causa dei cantieri - il suo segugio lo seguiva bravamente, senza avvicinarsi troppo - e poi andò a nord, verso i grandi tetti di tegole della Città Proibita.
L'uomo che lo seguiva a quel punto lo lasciò a un altro, cosicché Nikolaj capì che la sorveglianza di Guibert era una specie di priorità. L'alto tetto del palazzo imperiale, facilmente riconoscibile da innumerevoli fotografie, incombeva davanti a lui mentre cercava un posto che garantisse il momento e lo spazio per uccidere Vorošenin, oltre a una via di fuga.
Nikolaj sperava che le mura della Città Proibita avrebbero offerto un luogo simile, ma si rese conto che l'area, com'era ovvio, era troppo strettamente sorvegliata adesso che Mao si era stabilito al suo interno e molti dei palazzi erano diventati residenze per alti funzionari o sedi di uffici governativi.
Nikolaj entrò nel palazzo, trasformato in museo, per riscaldarsi e per confermare le sue credenziali di turista, e si soffermò nei dintorni (per quanto lo permetteva un pomeriggio così freddo) prima di lasciare la Città Proibita. Notando che adesso aveva un nuovo inseguitore, si diresse a est e passò su un bel ponte all'estremità meridionale del lago Beihai, ghiacciato e argenteo contro i salici bianchi della riva.
Non doveva camminare con troppa sicurezza, per cui Nikolaj assunse l'andatura e l'atteggiamento di un uomo leggermente sperduto, ma non preoccupato. Si fermò all'angolo della via Xidan, finse di riflettere sul percorso, poi "decise" di andare a nord. Gli inseguitori si scambiarono il posto: uno rimase a sistemarsi la sciarpa, l'altro proseguì sulle sue tracce.
Nikolaj ebbe il tempo sufficiente per guardarli bene in faccia senza farsi notare. Ne soprannominò uno "il Levriero" per il suo fisico alto e magro e per il suo modo di camminare, e l'altro "Xiao Sorriso," con riferimento ironico alla sua espressione cupa. Per la verità, pensò Nikolaj, nessuno sarebbe molto allegro nel dover lasciare un confortevole atrio d'albergo per quelle gelide strade.
Nikolaj aumentò il passo per vedere se il Levriero lo seguiva o se lo passava a un altro agente ancora. Il Levriero accelerò, pur tenendosi a una buona distanza, mentre Nikolaj entrava nel parco di Beihai dal cancello sud.
Il parco era delizioso, pensò Nikolaj, un ottimo esempio di arte paesaggistica orientale. Organizzato intorno all'ovale del lago Beihai, i suoi vialetti correvano tra graziosi gruppi di salici, impeccabili mucchi di pietre e padiglioni collocati in posizione perfetta. Ogni svolta offriva una nuova prospettiva e il tutto si avvicinava alla qualità che i giapponesi chiamano shibumi - eleganza nascosta.
In inverno, effettivamente, il parco ricordava un'anziana e distinta signora, semplice, ma ancora bella, che conserva il proprio atteggiamento e la propria dignità anche dopo essere morta di freddo. Un uomo più dotato con le parole di me, pensò Nikolaj, potrebbe scrivere una poesia su di lei.
Costeggiando la riva orientale del lago verso nord, Nikolaj arrivò a un ponte che portava su un'isola. Nikolaj lesse il piccolo cartello che indicava l'Isola di Giada e salì sul ponte graziosamente arcuato.
Si fermò alla sommità per guardare il lago e vedere se il Levriero lo seguiva. Il Levriero, abilmente, lo superò, senza degnarlo di un'occhiata, e arrivò sull'isola. È la cosa giusta, pensò Nikolaj, perché prevede che io continui fino all'Isola di Giada, ma gli permette anche di tornare indietro se dovessi cambiare idea. Osservando pigramente il paesaggio, vide Xiao Sorriso che si fermava in un padiglione vicino alla base del ponte.
Nikolaj si girò e proseguì sul ponte fino all'Isola di Giada, che era dominata da una torre bianca su un'altura al centro dell'isoletta boscosa. Uno stretto sentiero fiancheggiato da alberi e cespugli portava alla torre, identificata da un cartello, prevedibilmente, come la Pagoda Bianca, costruita nel 1651 in onore della visita del Dalai Lama.
Un'ironia della sorte, pensò Nikolaj, dato che i cinesi avevano appena invaso il Tibet.
La torre era chiusa. Nikolaj fece il giro della base. La torre, con le sue linee curve e la guglia con un simbolo buddista in cima, ricordava l'architettura tibetana, più che quella cinese.
Finì il giro della torre e poi prese un sentierino serpeggiante fra gli alberi per raggiungere la riva sud dell'Isola di Giada, dove il Ponte della Perfetta Saggezza riportava nel parco. Dal ponte notò dei piccoli moli sull'isola, e altri al di là del laghetto. Capì che, con un tempo meno inclemente, si potevano noleggiare delle barche per raggiungere l'isola.
L'Isola di Giada offre qualche possibilità, pensò Nikolaj, soprattutto di notte, ma attirarvi Vorošenin sarà un problema. Addestrato alla paranoia dalle purghe staliniane, il russo non si lascerà attirare facilmente da nessuna parte, e se è il giocatore di scacchi che si dice, farà alla svelta a subodorare una trappola.
Comunque, era un posto da tener presente, e almeno Nikolaj aveva ottemperato al primo dovere: farsi vedere dalle spie di Haverford alla Pagoda Bianca.