VIII
Di nuovo Pierre fu colto da quell’angosciosa malinconia di cui aveva tanta paura. Dopo aver pronunciato il suo discorso alla loggia se ne stette per tre giorni a casa sdraiato sul divano, senza ricevere nessuno e senza andare in nessun posto.
In quel periodo ricevette una lettera dalla moglie, che lo supplicava di concederle un colloquio; gli scriveva che era molto triste per causa sua e che era suo desiderio consacrargli la vita intera.
Alla fine della lettera lo informava che a giorni sarebbe arrivata a Pietroburgo dall’estero.
Subito dopo questa lettera, la solitudine di Pierre fu infranta da uno dei confratelli massoni che egli meno stimava e,.portando il discorso sui rapporti coniugali di Pierre, col pretesto di un consiglio fraterno gli espresse il pensiero che la sua severità verso la moglie fosse ingiusta e che egli, non perdonando chi si pentiva, egli violasse una delle prime regole della massoneria.
In quello stesso periodo sua suocera, la moglie del principe Vasilij, lo mandò a chiamare. Lo supplicava di farle visita, anche soltanto per pochi minuti, per trattare di un affare molto importante. Pierre comprese che si ordiva una congiura ai suoi danni, che si voleva ricongiungerlo alla moglie; ma ciò in fondo non gli dispiacque nello stato d’animo in cui si trovava. Per lui tutto era eguale: non c’era nulla, ora, cui egli attribuisse particolare importanza e, sotto l’influsso dell’angosciosa malinconia che lo dominava, non gli parevano preziose né la sua libertà né la sua perseveranza nel voler punire la moglie.
«Nessuno ha ragione, nessuno ha colpa: dunque nemmeno lei è colpevole,» pensava. Se non accettò subito di riunirsi a Hélène, fu soltanto perché, in preda come era all’angoscia, non aveva la forza di prendere nessuna iniziativa.
Se sua moglie fosse venuta da lui, non la avrebbe cacciata. Che egli vivesse o no con sua moglie non era forse indifferente, in confronto di ciò che adesso lo preoccupava?
Senza risponder nulla a sua moglie e a sua suocera, una sera, ad ora assai inoltrata, Pierre si preparò a partire e si recò a Mosca, per incontrarsi con Iosif Alekseeviè. Ecco che cosa scrisse Pierre nel suo diario: Mosca, 17 novembre
Torno in questo momento dalla visita al mio benefattore e mi affretto a scrivere tutto ciò che ho provato. Iosif Alekseeviè vive poveramente e già da più di due anni soffre di un penosissimo male alla vescica. Nessuno ha mai udito da lui un gemito o una parola di insofferenza. Lavora a opere scientifiche dal mattino a tarda notte, eccetto nelle ore in cui si nutre dei cibi più semplici. Mi ha accolto con benevolenza e mi ha fatto sedere sul letto nel quale giaceva; io gli ho fatto il segno dei cavalieri d’Oriente e di Gerusalemme, lui mi ha risposto allo stesso modo e con un sorriso soave mi ha domandato che cosa avessi appreso e acquisito nelle logge prussiane e scozzesi. Gli ho raccontato tutto come ho potuto, riferendogli ciò che avevo proposto alla nostra loggia di Pietroburgo, la cattiva accoglienza ricevuta e la rottura fra me e i confratelli. Iosif Alekseeviè, dopo aver a lungo taciuto e riflettuto, mi ha esposto la sua opinione, e tosto ha saputo illuminare il passato e la strada che in futuro avrei dovuto seguire. Mi ha stupito quando mi ha domandato se ricordassi in che cosa consiste il triplice scopo dell’ordine: 1) custodia e conoscenza dei misteri; 2) purificazione e correzione di se stessi per poterli accogliere e 3) correzione del genere umano attraverso l’aspirazione a tale purificazione. Qual è il principale e il primo di questi tre scopi? Certo, la propria purificazione e correzione. Soltanto al conseguimento di questo scopo noi possiamo sempre tendere, indipendentemente da qualunque altra circostanza. Ma, nello stesso tempo, proprio questo scopo esige da noi maggiori sforzi e perciò, errando per orgoglio, trascuriamo questo scopo e ci rivolgiamo ai misteri, che siamo indegni di accogliere a causa della nostra impurità, oppure ci accingiamo alla correzione del genere umano, mentre noi per primi siamo un esempio di bassezza e di depravazione. L’illuminismo non è una dottrina pura proprio perché si è fatta trascinare dall’attività sociale ed è pervasa di orgoglio. Su questa base Iosif Alekseeviè ha biasimato il mio discorso e tutta la mia attività. Ho convenuto con lui nel profondo del mio animo.
Quanto alla nostra conversazione sulle mie questioni familiari, egli mi ha detto: “Il principale dovere di un vero massone, come già vi ho detto, consiste nel perfezionamento di se stesso. Ma spesso noi pensiamo che, allontanando da noi tutte le difficoltà della nostra vita, raggiungeremo più presto questo scopo; al contrario, caro signore,” mi ha detto,
“solo in mezzo alle agitazioni mondane possiamo raggiungere i tre scopi principali: 1) la conoscenza di noi stessi, giacché l’uomo può conoscere se stesso solo attraverso il confronto; 2) il perfezionamento, che si raggiunge solo attraverso la lotta; e 3) il conseguimento della principale virtù: l’amore per la morte. Soltanto le vicissitudini della vita possono mostrarci la sua vanità e cooperare al nostro connaturato amore per la morte, ovvero al rinascere a una nuova vita.” Queste parole sono tanto più significative in quanto Iosif Alekseeviè, nonostante le sue gravi sofferenze fisiche, non sente la vita come un peso, e tuttavia ama la morte, per la quale, nonostante tutta la purezza e l’elevatezza della sua individualità interiore, non si sente ancora abbastanza pronto. Poi il benefattore mi ha spiegato diffusamente il significato del gran quadrato della creazione e mi ha fatto presente che i numeri tre e sette sono la base di tutto. Mi ha consigliato di non abbandonare le relazioni con i confratelli di Pietroburgo e, svolgendo nella loggia solo mansioni di secondo grado, di sforzarmi di allontanare i confratelli dalle seduzioni dell’orgoglio e di indirizzarli sul retto cammino della conoscenza e del perfezionamento di se stessi. Oltre a ciò, per quanto concerne me personalmente, mi ha consigliato di occuparmi innanzitutto di me stesso, e a tale scopo mi ha dato un quaderno nel quale scrivo e scriverò d’ora in avanti tutto ciò che faccio.
Pietroburgo, 23 novembre
Vivo di nuovo con mia moglie. Mia suocera è venuta da me in lacrime; mi ha detto che Hélène era qui e che mi supplicava di ascoltarla; che è innocente, infelice per il mio abbandono e molte altre cose. Io sapevo che se soltanto avessi accettato di vederla, non avrei più avuto la forza di opporre un rifiuto ai suoi desideri. Nel mio dubbio non sapevo a quale aiuto e a quale consiglio ricorrere. Se il mio benefattore fosse stato qui, lui me l’avrebbe detto. Mi sono ritirato, ho riletto le lettere di Iosif Alekseeviè, con la memoria sono riandato alle conversazioni avute con lui e da tutto ho concluso che non devo opporre un rifiuto a chi chiede, che devo stendere una mano d’aiuto a chiunque, e tanto più a una persona così legata a me. Devo portare la mia croce. Ma se per amore della virtù le ho perdonato, anche la mia unione con lei deve avere soltanto uno scopo spirituale. Così ho deciso e così ho scritto a Iosif Alekseeviè. Ho detto a mia moglie che la prego di dimenticare il passato, di perdonare ciò per cui posso essere in colpa dinanzi a lei e che io non ho nulla da perdonarle. Per me è stata una gioia dirle questo. Che ella non sappia quanto mi sia stato penoso rivederla. Mi sono sistemato nelle stanze superiori di questa grande casa e provo una felice sensazione di rinnovamento interiore.»