XXIV
Il principe Andrej, in quella chiara sera d’agosto del 25, era sdraiato, appoggiandosi su un gomito, in una rimessa sconquassata del villaggio di Knjazkovo, a un’estremità di terreno occupato dal suo reggimento. Attraverso una breccia nel muro, guardava una fila di betulle trentennali con i rami inferiori tagliati che si stendeva lungo la siepe, i campi con i covoni di avena disfatti e una macchia d’arbusti in cui si scorgeva il fumo dei fuochi delle cucine da campo.
Per quanto angusta, inutile a tutti e pesante fosse al principe Andrej la sua esistenza in quella sera, egli si sentiva commosso e irritato, proprio come sette anni prima ad Austerlitz, alla vigilia della battaglia.
Gli ordini per la giornata successiva erano stati da lui dati e ricevuti. Non aveva più nulla da fare. Ma i pensieri più semplici, chiari e perciò terribili, non gli davano pace. Sapeva che la battaglia dell’indomani sarebbe stata la più terribile fra tutte quelle a cui aveva partecipato, e per la prima volta nella sua vita gli si presentò la possibilità della morte, senza alcun rapporto con l’esistenza quotidiana, senza alcuna considerazione sull’effetto che avrebbe provocato sugli altri, ma soltanto in rapporto a lui stesso, con vivezza, quasi con concretezza, in modo semplice e spaventoso. E, dall’alto di questa immaginazione, tutto ciò che prima lo aveva tormentato e preoccupato, a un tratto, si illuminava di una fredda luce bianca, senza ombre, senza prospettive, senza chiaroscuri. Tutta la vita gli apparve come una lanterna magica in cui aveva guardato a lungo, attraverso una lente e con una illuminazione artificiale. Ora, improvvisamente, vedeva senza lente, alla vivida luce diurna, quei quadri mal dipinti. «Sì, sì, ecco quelle immagini menzoniere, che mi agitavano, mi entusiasmavano e mi tormentavano,» diceva a se stesso, passando in rassegna nella sua immaginazione i quadri principali della lanterna magica della sua vita e guardandoli ora in quella fredda luce bianca del giorno: il netto pensiero della morte. «Eccole, queste figure dipinte in modo grossolano, che sembravano qualcosa di stupendo e misterioso. La gloria, il bene sociale, l’amore per la donna, la patria stessa: come mi sembravano grandi questi quadri, di quale profondo significato parevano pervasi! E tutto questo è così semplice, squallido e rozzo nella bianca fredda luce di quel mattino che, lo sento, si sta levando per me.»
I tre più grandi dolori della sua vita concentravano soprattutto la sua attenzione. Il suo amore per una donna, la morte di suo padre e l’invasione francese che aveva occupato la metà della Russia.
«L’amore!… Quella, ragazza, che mi sembrava piena di forze misteriose. Come l’amavo! Facevo progetti poetici sull’amore, sulla felicità con lei. Oh, caro ragazzo!» esclamò ad alta voce con rabbia. «Come no! Avevo creduto in un amore ideale che avrebbe dovuto conservarmi la sua fedeltà per un intero anno di assenza! Come la tenera colomba della favola, lei avrebbe dovuto languire lontano da me. E tutto invece è molto più semplice… Tutto questo è spaventosamente semplice, ignobile! Anche mio padre faceva costruire a Lysye Gory e credeva che quello fosse il suo posto, la sua terra, la sua aria, i suoi contadini, ma è arrivato Napoleone e, senza neanche sapere della sua esistenza, l’ha spazzata via dalla propria strada come una scheggia di legno, e tutta la sua Lysye Gory e la sua vita sono crollate. E la principessina Mar’ja dice che questa è una prova mandata dal cielo. Ma a che serve questa prova se lui non c’è più e non ci sarà mai più? Non c’è più! E dunque per chi la prova? La patria, la rovina di Mosca! E domani qualcuno mi ucciderà, forse e non un francese, ma uno dei nostri, come ieri un soldato ha scaricato il suo fucile vicino al mio orecchio, e verranno i francesi, mi prenderanno per i piedi e per la testa e mi scaraventeranno in una fossa per non sentire il mio fetore sotto il loro naso e si formeranno nuove condizioni di vita che saranno ugualmente normali per gli altri, e io non ne saprò nulla, e non ci sarò più.»
Guardò il filare delle betulle che brillavano al sole con il loro immobile colore giallo, con il loro verde e con le bianche cortecce.
«Morire… Che domani mi uccidano pure, che non ci sia più nulla di me… che tutto questo esista e io non esista più.» Si immaginò concretamente la propria assenza da questa vita. E quelle betulle con la loro luce e la loro ombra, e quelle nuvole increspate, e quel fumo dei fuochi; tutto, intorno si trasfigurò per lui e apparve come qualcosa di terribile e minaccioso. Un brivido gli scosse la schiena. Si alzò rapidamente, uscì dalla rimessa e si mise a camminare.
Dietro la rimessa si udirono delle voci.
«Chi è là?» chiese il principe Andrej.
Nella rimessa entrò timidamente il capitano Timichin dal naso rosso, l’ex comandante di compagnia di Dolochov che adesso era comandante di battaglione in seguito alle forti perdite fra gli ufficiali. Dietro di lui entrarono l’aiutante e l’ufficiale pagatore.
Il principe Andrej si alzò in fretta, ascoltò ciò che gli ufficiali dovevano comunicargli su questioni di servizio, impartì loro altri ordini e si accingeva a congedarli quando, dietro la rimessa, si udì il suono di una voce nota e balbettante.
« Que diable! » disse la voce di un uomo urtando contro qualche cosa.
Gettando un’occhiata fuori dalla rimessa, il principe Andrej vide che Pierre stava avvicinandosi a lui. Pierre aveva inciampato contro una pertica stesa per terra e per poco non era caduto. Al principe Andrej, in genere seccava vedere gente del suo mondo, specialmente Pierre, che gli ricordava tutti i penosi momenti che aveva vissuto nel suo ultimo soggiorno a Mosca.
«Ah, sei tu!» disse. «Come mai? Non me l’aspettavo.»
Mentre diceva questo, negli occhi e nell’espressione di tutto il volto, c’era qualcosa di più che freddezza: c’era un’ostilità che Pierre immediatamente notò. Pierre era arrivato alla rimessa in uno stato d’animo di sovraeccitazione, ma, dopo aver visto l’espressione dei principe Andrej, si sentì impacciato e a disagio.
«Sono venuto… così… sapete… sono venuto… mi interessa,» disse Pierre, che già tante volte, quel giorno, aveva ripetuto senza riflettere quelle parole: «mi interessa.» «Volevo vedere la battaglia.»
«Già, già, e i fratelli massoni che dicono della guerra? Come scongiurarla?» disse il principe Andrej ironicamente. «Ebbene, e Mosca? Come stanno i miei? Sono finalmente arrivati a Mosca?» domandò poi facendosi serio.
«Sono arrivati. Me l’ha detto Julie Drubetskaja. Sono andato da loro, ma non li ho trovati. Erano già partiti per la villa dei dintorni di Mosca.