Una tragedia fiorentina

Tragedia in un atto [incompleta]

1894

 

 

 

 

Premessa

 

Si tratta di un frammento, scritto nel 1893-94, pubblicato per la prima volta nel 1908 nell’edizione di Methuen, in un volume che accoglie anche Salomé e Vera. Vedrà le scene per la prima volta nel 1906 (produzione del Literary Theatre Society, Londra) e quindi nel 1907 (produzione dei New English Players, Londra).

Il frammento venne reintegrato, per la messa in scena, da T. Sturge Moore, che scrisse una scena iniziale la quale compare nella seconda edizione Methuen del 1909 e nell’edizione Ross per l’America del 1910. Esiste tuttavia un manoscritto di Wilde contenente la struttura fondamentale di tale scena e una parte della stesura di essa. Questo riassunto e quelle battute sono state preposti alla traduzione dell’opera a p. 558.

Tra le numerose esecuzioni in lingua inglese ebbe particolare rilievo una interpretazione di M. Redgrave, mentre non ci risultano esecuzioni italiane. Il «plot» dell’opera venne curiosamente utilizzato da Ettore Petrolini nell’atto unico Il padiglione delle meraviglie.

Noi non presentiamo la scena di T. Sturge Moore e preferiamo integrare il frammento con un manoscritto autografo di Wilde in cui la prima scena è solo delineata e abbozzata per somme linee. Si tratta solo di pochi versi in confronto alla scena di Sturge Moore: quest’ultima infatti descriveva, oltre all’incontro tra Guido e Bianca, anche un dialogo tra Bianca e la sua cameriera, comportando così l’introduzione di un ulteriore personaggio. Nonostante si tratti di una scena ben scritta e divertente, preferiamo rinunciarvi e limitarci all’opera di Wilde, che, così presentata, conserva forse meglio quel carattere di sotterranea ambiguità da cui i personaggi sono attraversati.

Da un punto di vista metrico si è scelto di utilizzare settenari e endecasillabi per le battute di Bianca e Guido e di sposare la più disarmonica coppia ottonari-endecasillabi per le battute di Simone.

 

PAOLO BUSSAGLI e LUCIO CHIAVARELLI

 

 

PERSONAGGI

 

Simone, mercante fiorentino

Bianca, moglie di Simone

Guido Bandi, principe

 

Scena unica: casa del mercante Simone.

Frammento della prima scena [di O.W.]

 

BIANCA: Ahimè! Io mi credevo che l’amore venisse con le ali ai piedi, e non coi piedi di piombo! Perché ritarda tanto? Sarebbe meglio spegnerle queste inutili luci. L’ora è trascorsa già e il lento ticchettio dell’orologio come un liuto suonato da un uomo poco abile va spezzettando in modo discordante ciascun singolo istante e rende l’attesa insopportabile. Madre Maria! Tu conosci bene tutto l’amore mio e i giorni senz’amore passati nella noia e sopportati con rassegnazione, giorni senza una luce e senza una risata e senza neanche quelle poche gioie che sono il patrimonio di chi ha perso tutto. Santa Madre, sai bene queste cose. E se...

...

BIANCA: Oh! È arrivato! È arrivato!

(Da fuori la voce di Guido.)

BIANCA: Canta, canta di nuovo. L’usignolo trafitto dalla spina che ogni sera canta per la luna in ascolto non è dolce così. Perché con tutta l’estasi che infonde non canta che il dolore e quell’amore che fa sanguinare e tutta la sua musica è sofferenza ardente. E quindi si nasconde tra le foglie del bosco per fare i suoi lamenti alla più profonda oscurità e per riempirne il vuoto di echi artificiali.

(Voce di Guido.)

BIANCA: ...

 

Scena seconda

 

(Entra Simone.)

SIMONE: È lento il passo tuo, mia buona moglie non sarebbe miglior cosa venir di corsa incontro al suo signore? Ecco, prendimi il mantello. Prendi prima questo involto. È pesante. Non ho venduto niente: soltanto un mantello di pelliccia al figlio d’un Cardinale, che spera di indossarlo alla morte di suo padre e spera di poterlo fare presto. Ma lui chi è? C’è qualche amico, dunque. Sarà certo un congiunto, di recente ritornato da terre assai lontane e capitato dentro questa casa senza un padrone che lo ricevesse. Parente, imploro il vostro perdono. Perché una casa senza anfitrione non è che vuota cosa, senza onore; una coppa senza vino, una guaina senza lama per tenerla ben diritta, un giardino senza fiori reso orfano dal sole. Cugino mio gentile di nuovo imploro il vostro perdono.

BIANCA: Costui non è un parente, costui non è un cugino.

SIMONE: Né parente né cugino! È strano. E chi è costui, allora, che con garbo tanto fine si degna di accettare la mia ospitalità?

GUIDO: Mi chiamo Guido Bardi.

SIMONE: Cosa! Il figlio del potente Signore di Firenze i cui torrioni oscuri come ombre, argentati dal corso della luna vedo ogni notte fuor della finestra! Nobile Guido Bardi, benvenuto per due volte benvenuto. Giacché voglio ben sperare che questa mia brava moglie, tanto più brava dato che è bruttina, non t’abbia annoiato con vane ciarle, così com’è costume delle donne.

GUIDO: La tua bella signora, la cui bellezza è un lampo che fa sbiancar le stelle e priva la faretra di Diana dei suoi dardi, m’ha dato un’accoglienza così ricca di dolci cortesie che se le piacerà e a te piacerà pure, sovente tornerò alla tua casa semplice. E quando i tuoi affari ti spingeranno fuori io verrò qui a sedere, ad incantare la sua solitudine di modo che costei non abbia a soffrir troppo per la tua lontananza. Che ne dici, buon Simone?

SIMONE: Signore, mi porti un tale onore che la mia bocca si serra come quella di uno schiavo e non è capace a dire la parola che vorrebbe. Tuttavia, troppo scortese sarebbe non dirti grazie. E pertanto ti ringrazio, dal profondo del mio cuore. Sono cose come queste che rinsaldano uno Stato: un Principe così nobile di nascita e di modi che scordandosi le ingiuste differenze del Destino viene alla casa onesta di un onesto cittadino così come il più onesto degli amici. E tuttavia, Signore temo di essere sfacciato. Qualche altra notte confido che verrai come un amico, ma stanotte invero vieni a comprare le mie merci. Non è così? Sete, velluti, certo, tutto quello che vorrai, ma ho merci raffinate capaci di solleticarti il gusto. È vero, l’ora è tarda, ma noi poveri mercanti lavoriamo notte e giorno per riuscire a tirar su quei meschini guadagnucci. I dazi sono esosi e ogni città impone il dazio suo e gli apprendisti non sono capaci, e anche le mogli difettano di buon senso e d’accortezza, sebbene Bianca qui, m’abbia portato stanotte, un cliente dovizioso. Non è così, Bianca? Ma perdo tempo. Dov’è il mio pacco? Dov’è, ho detto? Aprilo, mia buona moglie. Su, sciogli le corde. Inginocchiati per terra. In genere fai meglio di così. No, quello no, quell’altro. Svelta, svelta! Spesso i clienti perdon la pazienza e non dobbiamo avere l’ardire di farli attender troppo. Sì eccolo, attenta, dammi qua. È preziosissimo, tienilo tra le mani con cautela. E ora, nobile Signore – perdona, ma ho qua un damasco di Lucca: il tessuto vero e proprio è in argento e le rose sono fatte così bene che difettano in profumo solo per portare inganno ai piaceri della carne. Tocca pure, mio signore. Non è lieve come l’acqua, non è forte come il ferro? E le rose non son forse finemente lavorate? Son convinto che i pendii che più amano le rose, a Bellosguardo e Fiesole non fanno germogliare fiori simili nel caldo grembo della Primavera. E quand’anche lo facessero i loro boccioli languono i loro boccioli muoiono. Tale è la sorte delle cose effimere che danzano nel vento e nelle acque. La natura stessa dichiara guerra alla sua bellezza e dà la morte ai figlioletti suoi come Medea. E tuttavia, Signore, guarda un poco più da presso, ebbene, nel mio Damasco l’estate non muore mai e le fauci dell’inverno non potranno disseccare mai questi suoi boccioli. Per ogni spanna di questo ho pagato un pezzo d’oro. Oro rosso, oro buono frutto di risparmio attento.

GUIDO: Basta così, Simone, ti prego, sono proprio soddisfatto; ti manderò domani il mio servo per pagarti il doppio del prezzo tuo.

SIMONE: Vi bacio le mani, prodigo principe! E d’un tratto, proprio adesso mi torna in mente d’un altro tesoro nascosto in casa mia che tu devi vedere. È un abito di gran gala tessuto da un veneziano; la stoffa è di velluto, il disegno a melograni, e ciascun singolo grano è formato da una perla: il colletto poi è tutto fatto in perle, fini come le falene nelle strade delle notti estive, e più bianche della luna che al mattino il pazzo vede tra le sbarre della cella. Un rubino molto grande sfavilla nella fibbia come un carbone acceso. Il Santo Padre non ha simili pietre e neanche l’India può vantarne pari. Persino la spilla è cesellata con l’attenzione più straordinaria. Non fece mai Cellini un oggetto più perfetto per soddisfare il grande Lorenzo. Devi indossarlo tu, nessuno ne è più degno in questa nostra città e ti si adatta bene. Su di un lato un satiro cornuto e asciutto in oro sbalza per dar la caccia a una ninfa d’argento. Sull’altro abbiam la Quiete, con un cristallo in mano, non più grande della spiga più minuscola di grano, che si piega, ondeggiando, al passaggio d’un uccello, ma lavorato con arte così esperta che sembra buttar fuori il respiro, o almeno trattenerlo. Donna Bianca, non donerebbe molto quest’abito nobile e costosissimo al giovane Signor Guido? E allora pregalo, su; nulla ti rifiuterà sebbene il prezzo sia pari al riscatto per un principe. Non ci guadagnerai meno di me.

BIANCA: Sono forse un ragazzo di bottega? Perché mai dovrei mercanteggiare con quel vostro velluto?

GUIDO: Bella Bianca, farò molto di più, comprerò questa veste e tutto ciò che vuole quest’onesto mercante pure lo comprerò. È giusto far pagare al principe il riscatto e fortunati sono quei Signori che cadono nelle candide mani di un così bel nemico.

SIMONE: Accuso il vostro biasimo, Signore. Ma comprerai questa merce? O non la vuoi comprare? Cinquantamila corone a mala pena mi ripagherebbero. Ma tu, Signore, l’avrai solo per quarantamila. Il prezzo è troppo alto? Fai dunque il prezzo tu. Ho una voglia smaniosa di vederti in questa meraviglia del telaio, tra le nobili dame della corte, un fiore in mezzo a fiori. Si sente dire, Signore, che Vostra Grazia appassiona tanto queste signore di natali alti che in tutti i luoghi ove ti rechi ti si affollan come mosche intorno, ognuna in cerca del favore tuo. Ho sentito poi, tra l’altro, di mariti che indossano le corna e lo fanno in eleganza una moda certo strana.

GUIDO: Simone, la tua lingua temeraria ha bisogno di essere domata; e poi ti sei scordato questa graziosa dama, i cui sensi delicati non trovano di certo accordo alcuno con la tua rozza musica.

SIMONE: Giusto, l’ho dimenticato, e smetterò di offendere. Tuttavia, amabile signore, comprerai la veste di gran gala. Non la vuoi? Solo quarantamila. Non è che una bazzecola per chi è l’erede di Giovanni Bardi.

GUIDO: Sistema questa faccenda domani col mio maggiordomo Antonio Costa. Egli verrà da te. E ti darà centomila corone se con tanto ti accontenterai.

SIMONE: Centomila! Hai detto centomila? Oh! Stai certo, m’hai reso debitore d’ogni cosa, in ogni tempo, sempre! Da questo istante in poi la casa mia con quello che contiene è tua e solo tua. Centomila! Mi fai girar la testa. Sarò più ricco assai di tutti gli altri mercanti. E comprerò vigneti e giardini e terre. Ogni telaio di Milano sin giù alla Sicilia sarà mio, e mie saran le perle che i mari dell’Arabia stipano nei loro muti anfratti. Principe generoso, questa notte darà la prova dell’affetto mio, che è tanto grande che qualunque cosa mi chiederai non ti sarà negata.

GUIDO: E se chiedessi l’eterea Bianca?

SIMONE: Signore, tu vuoi celiare, lei non è degna di un così gran principe. Lei non è buona ad altro che ad accudir la casa e a filare. Moglie, non è così? È così. Guarda! Ti aspetta la conocchia. Siedi e fila. Non dovrebbero le donne starsene in ozio nella loro casa, perché le dita in ozio fanno il cuore imprudente. Siedi ti dico.

BIANCA: Cosa vuoi che tessa?

SIMONE: Un mantello che, dipinto di porpora, possa avvolgere il dolore e recargli il suo conforto: o una veste con le frange lunghe ove un neonato che nessuno vuole, abbandonato, possa dar di pianto; oppure un lenzuolo raffinato che profumato con delicatezza di dolci erbe, avvolga il cadavere di un uomo. Tessi quello che vuoi tu, non m’importa.

BIANCA: S’è rotto il tenue filo, s’è spento il moto della lenta ruota, a forza di girare senza sosta, la conocchia ancor più lenta è sazia del suo peso; non filerò stanotte.

SIMONE: Non importa. Domani filerai, e ogni giorno, ti dovrò trovare seduta alla conocchia. Tarquinio così trovava Lucrezia. Chissà! Ho sentito cose strane sulle spose degli uomini. Ed ora Signore che novità da fuori? Oggi a Pisa m’hanno detto che alcuni mercanti inglesi, là, avrebbero intenzione di smerciare i loro panni in lana a un prezzo meno alto di quello ammesso dalle leggi giuste e che han richiesto alla Signoria con insistenza d’essere ascoltati. Giusto tutto questo? Che i mercanti facciano i lupi con gli altri mercanti? Che gli stranieri nella nostra terra impongano privilegi, ordiscan mille astuzie per deprivarci dei profitti nostri?

GUIDO: Che ho a che fare io, coi mercanti e coi profitti loro? Dovrei cercar la lite coi Signori di Pisa per dar soddisfazione agl’interessi tuoi? E mettermi indosso l’abito tuo di fare da sensale tra un buffone che vende e un compratore più sciocco ancora? Buon Simone, accumular la lana e poi rivenderla è affar tuo, l’ingegno mio ricerca ben altre prede.

BIANCA: Nobile Signore ti prego, su perdona questo mio buon marito, la mente sua sta sempre al mercato e il cuore non gli batte che al prezzo della lana. Ma c’è dell’onestà nei modi suoi volgari. (A Simone:) E tu, non hai vergogna? Un Principe cortese si reca a casa nostra, e tu devi annoiarlo con l’impudenza tua più fuori luogo? Su, chiedegli scusa.

SIMONE: Con umiltà lo faccio. Parleremo d’altre cose questa notte. M’hanno detto che il Santo Padre ha scritto al Re di Francia per convincerlo a passare il grande scudo delle nevi Alpine per fondare in Italia una pace peggiore d’una guerra fratricida, più crudele d’un saccheggio o d’una lotta intestina.

GUIDO: Ne abbiamo a sufficienza di questo Re di Francia, che dice sempre che sta per venire ma che non viene mai. Che vuoi che sian per me queste cosucce? Ci son ben altre cose più vicine, e di maggior valore, buon Simone.

BIANCA (a Simone): Credo che tu stia stancando il nostro ospite nobilissimo. Che vuoi che ce ne importi del Re di Francia a noi? Né più né meno de’ tuoi mercanti inglesi e della loro lana...

SIMONE: È così, dunque? Tutto il mondo immenso s’è ridotto a queste mura e tre anime soltanto son la sua popolazione? Ci son momenti in cui l’universo sconfinato si riduce a un solo pugno, come un vestito che si accartoccia, nella tinozza d’un tintore inetto. Per avventura quel tempo è ora. Ebbene, sia: sia ora il tempo. Che questa stanza meschina sia lo scenario possente ove muoiono i re, e che le nostre ignobili vite sian le poste messe in gioco da Dio. Non so perché io parlo in questo modo. La cavalcata fatta mi ha stancato. E il destriero mio per ben tre volte m’ha scartato sotto, auspicio questo che non presagisce niente di buono per nessuno di noi. Ahimè, mio Dio! Che affare sballato è questa vita d’uomo, e con che squallido mercato siamo venduti! Quando veniamo al mondo le nostre madri piangono, ma quando ce ne andiamo non c’è nessuno a piangere per noi, proprio nessuno. (Va in fondo alla scena.)

BIANCA: Sembra proprio un mercante da due soldi! L’odio, anima e corpo. La viltà gli ha marchiato la fronte col suo sigillo pallido. Le mani sue più bianche delle foglie di pioppo esposte ai venti della primavera, tremano come per una paralisi; e da quella sua bocca balbettante strabocca fuori senza riflessione una vacua schiumata di parole come acqua da una fonte.

GUIDO: Dolce Bianca, non merita costui il tuo pensiero o il mio. Non è che un onestissimo furfante pieno di frasi scelte adatte alla sua vita di mercante, a vender ciò che meno gl’interessa a prezzo maggiorato. Io non ho mai incontrato un imbecille con tanta eloquenza.

BIANCA: Oh, volesse il cielo che la Morte se lo prendesse ora.

SIMONE (girandosi): Chi ha parlato della Morte? Non parlate della Morte. Che verrebbe a fare mai la Morte in una famiglia così felice, ove solo una moglie, un marito ed un amico possono riceverla? Che la Morte si rechi nelle case ove stanno viltà e adulterio, o mogli severe che tuttavia stanche dei loro nobili signori tirano le tende al baldacchino, e in letti sudici, disonorati si nutrono d’illeciti piaceri. Ahimè! È così. È strano invero ma è così lo stesso. Non conosci il mondo tu, sei troppo ingenua tu e troppo degna d’onore. Lo conosco bene io. E non sarebbe così se la saggezza non s’accompagnasse all’inverno della vita. I capelli miei si fanno grigi, e il mio corpo è privo, ormai, della giovinezza. Basta così. Questa notte è fatta per godere, e infatti sarò felice, io com’è giusto che sia un padrone di casa che trova ad aspettarlo un ospite nobile e inatteso. (Prende un liuto.) Ma cos’è questo, Signore? Comprendo, avete portato un liuto per suonarcelo. Suona, dolce Principe. Scusa se sono sfacciato, ma suona.

GUIDO: Non suonerò stanotte. Qualche altra notte, Simone. (A Bianca:) Noi due, da soli, e ad ascoltarci soltanto le stelle e la luna più gelosa.

SIMONE: No, mio Signore! No, io ti scongiuro. M’hanno detto che col semplice arpeggio d’una corda, o col fiato più lieve sospinto lungo le canne svuotate o soffiato in fredde bocche di bronzi adatti, chi è capace di quest’arte può trarre fuori dalle lor prigioni gli spiriti infelici. Ho sentito poi, tra l’altro, come questo strano incanto in questi involucri si nasconda e di come l’innocenza vesta i capelli di foglie di vite e si trasformi in una sfrenata baccante. Ma non fa niente. So che il tuo liuto è puro. E allora suona: rapisci i miei orecchi con un’aria dolce; il mio spirito è in prigione e ha bisogno della musica per curar la sua pazzia. Mia buona Bianca, invita a suonare il nostro ospite.

BIANCA: Non avere timore, il nostro amato ospite sceglierà lui il tempo e il luogo: il tempo non è ora. Tu lo stanchi col tuo goffo insistere.

GUIDO: Onesto Simone, qualche altra notte. Questa notte mi basta la lieve melodia della voce di Bianca, che, quando parla, incanta l’aria piena d’amore e rende stabile la terra incerta e pone il centro del ciclo suo nella sua bellezza.

SIMONE: Tu la lusinghi. Ella ha le sue virtù come la maggioranza delle donne, ma la bellezza no, è una gemma che lei non può indossare. Ed è meglio così, forse. Bene, mio caro signore, se non trarrai dal liuto melodie per incantarmi lo spirito cupo e troppo preoccupato berrai con me, almeno?

(Guardando la tavola.)

Vedi che il posto tuo è già stato preparato! Vammi a prendere un panchetto, Bianca. Chiudi le imposte. Metti la sbarra grande. Non vorrei che gli occhietti indiscreti del mondo curioso facessero capolino nel nostro piacere. Ora, Signore, facci un brindisi da una coppa colma.

(Ha un sobbalzo.)

Ma cos’è questa macchia sul vestito? Sembra purpurea come una ferita sul fianco di Cristo. È solo vino? Ho sentito raccontare che quando il vino stilla, il sangue pure stilla. Ma sono storie sciocche. Mio signore, io confido che il mio vino ti soddisfi. Il vino di Napoli è infuocato come le montagne sue. Le nostre vigne toscane danno un nettare più salubre.

GUIDO: Mi piace, buon Simone; e con il tuo permesso, leverò questo brindisi alla bella Bianca quando le labbra sue saranno scese come vermigli petali di rosa su questa coppa e ne avran lasciato il vino suo più dolce. Assaggia Bianca. Oh, tutto il miele (Bianca beve) delle Api iblee di fronte a questa coppa sarebbe amaro. Simone, non partecipi alla festa?

SIMONE: È strano Signore, non son capace di bere o di mangiare con te stanotte. Qualche umore, qualche febbre nel mio corpo, un tempo moderato, o qualche pensiero che come un aspide s’insinua in qua e in là, che come un folle striscia di tomba in tomba, avvelena il mio palato e rende il mio appetito un disgusto, anziché un desiderio. (Si mette in disparte.)

GUIDO: Dolce Bianca, m’annoiano i discorsi di questo bottegaio. Devo andarmene via. Domani tornerò. Dimmi tu l’ora.

BIANCA: Vieni subito al primo sorgere del sole! Tutta la vita mia è inutile se io non vedo te.

GUIDO: Ah, sciogli la mezzanotte cadente dei tuoi capelli, e in quelle stelle, gli occhi tuoi, fammi contemplare il mio riflesso, come in degli specchi. Cara Bianca, anche se è solo un’ombra tienimi là e non guardar nient’altro che non somigli a me. Io son geloso, sai di ciò di cui si nutre la tua vista.

BIANCA: Oh! Sta pur certo, l’immagine tua sarà sempre con me. L’amore può tradurre la cosa più banale nel contrassegno d’un dolce ricordo. Ma tu arriva prima che l’allodola con il suo canto stridulo risvegli le visioni dei sogni. Starò sopra il balcone.

GUIDO: E sopra una scala fatta di seta scarlatta e trapuntata in perle scenderai ad incontrarmi. Passo dopo passo, come la neve cade sopra le rose.

BIANCA: Come tu vorrai. Son tua nell’amore e nella Morte.

GUIDO: Simone, devo andare a casa mia.

SIMONE: Così presto? E perché mai? La gran campana del Duomo non ha battuto ancora mezzanotte, e le guardie che con i corni loro lanciano sfide alla pallida luna giacciono ancora assopite dentro le torri. Rimani un istante ancora. Temo che non ti rivedremo più, e la paura rattrista il mio cuore troppo semplice.

GUIDO: Non temere, Simone. Sarò il più fedele nell’amicizia mia. Ma questa notte me ne torno a casa, e subito. Domani, dolce Bianca.

SIMONE: Ebbene, ebbene, così sia. Avrei voluto starti più vicino, mio nuovo amico, ospite onorevole, ma sembra proprio che non sia possibile. E poi certo tuo padre t’aspetta in ansia ad ogni voce, in ansia ad ogni passo. Tu sei il suo solo figlio, o sbaglio? Egli non ha altri figli. Sei il nobile pilastro della casa, il fiore di un giardino di erbacce ricolmo. I nipoti di tuo padre non gli sanno voler bene, così dice la gente, a Firenze. Voglio dire solo questo. Gli uomini dicono d’invidiare la vostra eredità e guardan le vostre vigne con occhi selvaggi come Ahab guardava il bel campo di Naboth. Ma sono le ciarle di una città dove le donne parlano sin troppo.

Buona notte, mio signore. Vammi a prendere una torcia di pino, Bianca. Quella vecchia scala è piena di trappole e la luna va su avara come un poverello, spilorcia dei raggi suoi e si nasconde dietro una maschera di mussola come le prostitute quando vanno ad adescare un disgraziato spinto nel peccato. Adesso ti prenderò la spada e il mantello. Scusami mio buon Signore, ma è giusto ch’io ti serva: hai fatto tanto onore a questa povera casa di suddito, hai bevuto il vino mio, spezzato il pane e hai fatto come se fossi un dolce familiare. Molte volte parleremo di questa notte chiara e della sua gran riuscita.

Diamine, che spada è questa! Fabbricata a Ferrara, come una serpe flessibile e certo anche mortale. Con un ferro come questo non si ha niente da temere nel tormento della vita. Non ho toccato mai una lama tanto fine. La spada ce l’ho anch’io, ma s’è tutta arrugginita, ormai. Noi uomini di pace siamo avvezzi all’umiltà e a saper portare molti pesi sulla schiena e a tener la bocca chiusa per una parola ingiusta e a sopportare le offese più inique. Questo ci viene insegnato, e come l’Ebreo paziente traiamo profitto dal nostro dolore.

Tuttavia mi ricordo d’una volta lungo la via di Padova che un ladro volle provare a portarmi via il bagaglio: io lo sgozzai e lo lasciai per terra. Io sopporto il disonore, l’insulto in fronte a tutti, la vergogna, l’irrisione incessante, l’ingiuria sulla faccia, ma colui che mi sgraffigna qualcosa che è mio – foss’anche il più misero tagliere con cui mi nutro l’appetito – quello rischia lo spirito e il corpo nel furto e muore della sua piccola colpa. Ma di che strana pasta siamo fatti noi uomini!

GUIDO: Perché parli così?

SIMONE: Mi chiedevo, Signor Guido, se la mia spada ha tempra migliore di questo ferro tuo. Vuoi provare? O è troppo bassa la mia condizione perché tu incroci l’arma con la mia, per scherzo, o per davvero?

GUIDO: Niente mi piacerebbe quanto stare di fronte a te, per scherzo o per davvero a lama nuda. Dammi la mia spada. Fatti portar la tua. Questa notte deciderà il grand’esito se l’acciaio del principe o quello del mercante avrà migliore tempra. Non è questo che dici? Fatti portar la spada. Perché, signore, esiti?

SIMONE: Mio signore, questa è la più alta fra tutte le cortesie più nobili di cui hai ricoperto questa misera mia casa. Bianca, portami la spada. Sposta indietro il tavolo e il panchetto. Dobbiamo avere un circolo aperto per il nostro gioco armato. Bianca, reggi tu la torcia; non per altro, ma mi sa che lo scherzo si fa serio.

BIANCA (a Guido): Oh! Uccidilo, uccidilo!

SIMONE: Reggi la torcia Bianca. (Iniziano a lottare.) A te! Ah! Ah! Cosa?

(Viene ferito da Guido.)

Uno sgraffio niente più. C’era la torcia negli occhi. Non esser triste, Bianca. Non è nulla. Tuo marito perde sangue, non è nulla. Prendi un panno, e legalo intorno al braccio mio. No, così stretto no, con più dolcezza, mia buona moglie. E non esser triste, ti prego non esser triste. No: toglilo. Che importa se perdo sangue?

(Toglie le bende.)

Ancora! Ancora!

(Simone disarma Guido.)

Gentile Signore, vedi che ho ragione io, la mia spada ha miglior tempra e taglio più fine. Dunque incrociamo i pugnali.

BIANCA: Uccidilo! Uccidilo! Oh!

SIMONE: Bianca, spengi la torcia.

(Bianca spenge la torcia.)

E ora Signore, alla morte d’uno solo, o magari di entrambi, o forse di tutti e tre. (Combattono.) Là e là! Ah, diavolo! Ti tengo dunque in pugno?

(Simone ha la meglio su Guido e lo sbatte sopra il tavolo.)

GUIDO: Toglimi le tue grinfie dalla gola, pazzo, io sono l’unico figlio di mio padre, io sono l’unico erede dello Stato e quell’infida nemica che è la Francia aspetta solo che muoia la stirpe nostra per piombare sulla città.

SIMONE: Zitto! Tuo padre sarà più felice quando sarà senza figli. E quanto allo Stato, poi, mi sa proprio che la nostra Firenze non ha bisogno d’essere guidata da un timoniere adultero. La tua vita sporcherebbe il candore del suo giglio.

GUIDO: Togli via queste mani. Toglimi via le tue dannate mani. Lasciami andare, t’ordino!

SIMONE: No, sei preda d’un vizio tanto astuto che niente ti gioverà e la tua vita ridotta a un singolo istante di vergogna in tale vergogna termina e nel modo più vergognoso, termina.

GUIDO: Fammi avere un prete prima che muoia!

SIMONE: E che te ne faresti, tu, d’un prete? Racconta i tuoi peccati a quel Signore che questa stessa notte tu vedrai per non vederlo poi mai più. Racconta i tuoi peccati a colui che sa essere giusto perché non ha colpe, essere pietoso perché è giusto. Per quanto sta a me...

GUIDO: Aiuto Bianca! Aiutami, dolce Bianca, tu sai che non ho colpa alcuna.

SIMONE: E che, c’è vita ancora in quelle labbra bugiarde? Dunque muori come un cane con la lingua penzoloni! Muori! Muori! Il tuo corpo il fiume muto lo riceverà per lavarlo strascicandolo giù fino al mare.

GUIDO: Cristo Signore, prendi stanotte l’anima mia sciagurata!

SIMONE: E così sia per te. E ora l’altra.

(Muore. Simone si alza e guarda Bianca. Lei va verso di lui a braccia aperte, come se fosse inebetita dalla meraviglia.)

BIANCA: Perché tu non m’hai detto mai quanto sei forte?

SIMONE: Perché tu non m’hai detto mai quanto sei bella?

(La bacia sulla bocca.)

 

Sipario

Questo ebook appartiene a lidia barone - 1124737 Edito da Newton Compton Editori Acquistato il 01/08/2011 13.50.20 con numero d'ordine 63790
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