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Kael

2019

LA marea di abiti neri mi fa male agli occhi. È passato un po’ di tempo dall’ultima volta in cui mi sono trovato in mezzo a una folla tanto omogenea. Ero così abituato alla mimetica che ho indossato tutti i giorni per anni che, pur non essendo ormai più nell’esercito, continuo ad aspettarmi di vederla ovunque, anche nel mondo dei civili. A volte mi manca non dover decidere cosa mettermi. Stamattina, mentre prendevo dall’armadio una delle mie giacche fresche di lavanderia, mi è tornata in mente quella dell’uniforme, con il tessuto così rigido per la sabbia e la sporcizia rapprese che frusciava mentre marciavamo per ore e ore nel caldo torrido della Georgia. Mi porto la mano sotto la camicia per sfiorare le piastrine che tengo appese al collo.

Non sono uno di quei soldati che le sfoggiano con orgoglio come onorificenza o per procacciarsi drink gratuiti nei bar. Le indosso perché il peso del metallo sul petto mi aiuta a tenere i piedi ben saldi a terra. Probabilmente non le toglierò mai.

«Fa un po’ freddo qui», dice mia madre. Lascio le piastrine e abbasso le mani in grembo.

«Vuoi la mia giacca?» le chiedo. Lei scuote la testa.

«Devono tenere il corpo in fresco», spiega una voce familiare.

«Sei sempre il solito idiota, a quanto vedo.» Mi alzo e abbraccio Silvin. È molto più esile dell’ultima volta che l’ho stretto.

«Non cambierò mai», risponde, dandomi una pacca sul braccio.

Mia madre lo guarda con disapprovazione. «Dateci un taglio, voi due!» Lo colpisce più forte di quanto lui ha colpito me.

«Quante volte l’ho già sentito?» Silvin abbraccia mia madre e lei si scioglie in un sorriso.

Si sono incontrati poche volte, ma lei gli è affezionata, anche se è un coglione con un senso dell’umorismo a dir poco grossolano. Le sue battute volgari ci hanno fatto ridere nei momenti più bui delle nostre vite, e per questo gli ho sempre voluto bene anch’io.

«Come stai, amico?» chiedo in tono leggero, pur sapendo che probabilmente soffre più della maggior parte delle persone presenti in chiesa al momento. Come me l’ultima volta.

Si schiarisce la gola e batte le palpebre arrossate. Gonfia le guance e sbuffa prima di rispondere. «Bene, direi. Certo, preferirei essere a Las Vegas a giocare alle slot con una pornostar e i suoi soldi.» Ridacchia, un po’ impacciato.

«E come darti torto?» scherzo di rimando, per rendere meno pesante la situazione. A volte è meglio rimanere in superficie, dove non ci toccano le emozioni.

«Vieni a sederti con noi oppure hai già un posto?» domando.

«Non è uno stupido concerto, Martin», ride, sedendosi vicino a mia madre.

La risatina di Silvin è l’unico barlume di gioia in tutta la chiesa, anche se di certo nasconde una profonda tristezza. Il soffitto della chiesa gronda letteralmente dolore. Quel genere di tristezza che ti penetra nell’anima e non va più via. È visibile. Un peso che ti schiaccia il petto e ti scorre nel sangue.

Silvin sospira e si appoggia allo schienale della panca. Vi si abbandona pesantemente, quasi stesse cercando di trasferire parte del suo tormento al legno. Fissa un punto davanti a sé, perso in qualche ricordo che si rifiuta di uscirgli dalla mente e gli nega ogni possibilità di pace. È troppo giovane per sembrare così vecchio. È cresciuto un bel po’ da quando tutti noi del plotone lo chiamavamo «Baby Face», imitando il suo accento del Sud. Viene dal Mississippi e alla nostra prima missione dimostrava quindici anni. Ora, invece, sembra più grande di me. Baby Face è cresciuto parecchio da quella volta che sono piovuti dal cielo pezzi che parevano di tonno crudo, colpendolo in faccia. Solo alla seconda esplosione il mio cervello aveva elaborato l’orrore, realizzando che quelli che gli cadevano addosso non erano pezzi di pesce, ma di carne umana. Ero talmente vicino che un dito con una fede atterrò accanto alla punta del mio anfibio. Vidi il volto di Johnson cambiare espressione quando, girandosi, si rese conto che il suo compagno, Cox, non era più vicino a lui. Notai qualcosa nel suo sguardo, come una luce che si spegneva. Poi prese l’arma e continuò ad avanzare. Non ne parlò più e rimase in silenzio anche mentre la vedova incinta di Cox piangeva al suo funerale.

A pensarci bene, il funerale di oggi sembra inquietantemente simile.

Mi guardo intorno in cerca di un orologio. Non sarebbe quasi ora di cominciare? Voglio che finisca tutto prima di avere il tempo di capire davvero cosa ci stiamo a fare qui. I funerali sono tutti uguali, almeno quelli dell’esercito; ero ancora un bambino l’ultima volta che ho assistito alla cerimonia funebre di un civile. Sono stato ad almeno dieci funerali da quando sono partito per l’addestramento di base. Per dieci volte mi sono seduto in silenzio su una panca e ho osservato le facce degli altri soldati che fissavano un punto dritto davanti a loro, le labbra strette in un’espressione collaudata. Per dieci volte ho visto dei bambini – che non capiscono la vita, figurarsi la morte – gattonare ai piedi dei genitori. Per dieci volte ho sentito qualcuno scoppiare in singhiozzi tra la folla. Per fortuna, soltanto metà dei deceduti erano sposati e avevano una famiglia, quindi soltanto per la metà delle volte ho sentito i pianti disperati delle mogli la cui vita era andata in mille pezzi, cambiata per sempre.

Mi chiedo spesso quando smetteranno di arrivare le telefonate. Tra quanti anni smetteremo di riunirci in questo modo? Andrà avanti così finché non saremo tutti vecchi e con i capelli bianchi? Sarà Silvin a venire al mio funerale o io al suo? Io vado a tutti, come Johnson, che intravedo con la coda dell’occhio. Anche Stanson, che ha in braccio il figlio appena nato. Lui è ancora nell’esercito, ma anche chi di noi non è più in servizio attivo partecipa alle commemorazioni. Una volta sono andato fino a Washington per un tizio che conoscevo a malapena, ma che Mendoza adorava.

C’è molta più gente del solito oggi. Ma non mi sorprende: il soldato a cui stiamo dando l’estremo saluto era tra i più benvoluti. Non riesco a pensare al suo nome, a pronunciarlo nella mia mente. Non voglio farmi questo. E non voglio farlo a mia madre. Sono passato a prenderla a Riverdale ed è venuta con me. Lui le è sempre piaciuto. Piaceva a tutti.

«Chi è quella signora?» Mia madre tossisce dopo averlo chiesto. Indica una donna che non riconosco.

«Non ne ho idea, mamma», le sussurro.

Gli occhi stanchi di Silvin sono chiusi. Distolgo lo sguardo.

«Sono sicura di conoscerla», insiste lei.

Un uomo in completo scuro sale sul pulpito. È ora.

«Mamma, stanno per cominciare», la zittisco.

Scruto tra le panche in cerca di Karina, ormai dovrebbe essere arrivata. Al mio fianco, mia madre tossisce di nuovo. Le capita sempre più spesso, ultimamente. Ha questa tosse da quasi due anni, forse di più. A volte scompare, e lei interpreta la cosa come una ricompensa per aver smesso di fumare. Quando invece peggiora, si infastidisce e dice che allora tanto varrebbe accendersi una sigaretta. Ci litigo da metà della mia vita, da quando avevo dieci anni e il medico le comunicò che avrebbe perso un polmone se non avesse smesso di fumare. E prende già tante medicine. La vedo premersi il fazzoletto sulle labbra mentre tossisce più forte. Chiude gli occhi per un attimo, prima di tornare a fissare l’altare pieno di fiori. La bara è chiusa, ovviamente. Nessuno vuole che questi bambini vedano un corpo quasi irriconoscibile.

Cazzo. Devo smetterla. Con tutto il tempo che ho passato in cura da professionisti incaricati di aggiustarmi, pensavo di essere diventato più bravo a tenere lontani quei pensieri. Ma le tecniche che ci insegnano non funzionano mai. L’oscurità resta, irremovibile. Forse il governo dovrebbe chiedere un rimborso per la terapia. L’hanno pagata loro, come è giusto, ma ha funzionato? Evidentemente no. Non per Silvin, non per me, non per il corpo nella bara.

Fermati, mi consigliavano i terapisti quando la mia mente prendeva direzioni oscure.

Fermati e pensa a qualcosa che ti trasmetta felicità o pace. Concentrati sulla terra che hai sotto i piedi, sei al sicuro adesso. Questo ripetevano.

Penso sempre a lei quando ho bisogno di pace. Lo faccio fin da quando la conosco. Ma dura soltanto finché non torno alla realtà e voglio punirmi perché non è più nella mia vita. Allora sprofondo ancora di più nelle tenebre.

Non faccio in tempo a terminare la mia sessione di autoterapia.

«Se volete prendere posto, siamo pronti a cominciare.» La voce dell’impresario di pompe funebri è bassa e tranquilla. Probabilmente fa questo diverse volte a settimana.

Intorno cala il silenzio e il funerale inizia.

Dopo la funzione, mentre alcuni si mettono in coda per un ultimo saluto, noi restiamo seduti. Silvin incrocia il mio sguardo e indica in alto, come se stesse cercando di dirmi qualcosa. Alzo gli occhi proprio mentre qualcuno mi picchietta sulla spalla. Mentirei se non ammettessi che per un momento ho sperato che fosse Karina. Anche se sono sicuro che non può essere.

Infatti ho ragione. In piedi dietro di me c’è Gloria, indossa un vestito nero con i fiori bianchi. Glielo avrò visto almeno dieci volte. Dieci funerali. Questa giornata è già stata una corsa sulle montagne russe: Karina, Silvin, quell’affare per un quadrilocale a pochi passi da Fort Benning che mi sono fatto soffiare dalle mani, e adesso ci si mette anche Gloria, che mi ricorda sempre suo marito.

«Ehi, Gloria.» Mi alzo dalla panca per salutarla.

Lei mi abbraccia, fa un passo indietro, e mi abbraccia di nuovo.

«Come stai? Ero preoccupata per te. Ormai non mi rispondi più al telefono.» Fa una smorfia. «Stronzo», sussurra, guardandomi dritto negli occhi.

«Ero sommerso di lavoro, e poi lo sai quanto odio il telefono.»

Alza gli occhi scuri al cielo. «I bambini sentono la tua mancanza. Mi chiedono sempre di te.»

I bambini. Un rigurgito acido di senso di colpa mi brucia in gola.

«Anche a me mancano.» Le guardo i piedi, dove di solito c’è il più piccolo, aggrappato alla sua gamba. «Chiamerò più spesso, hai ragione, sono uno stronzo.» Le sorrido e lei annuisce, forse me la sono cavata.

La catenina che porto al collo è pesante. Due piastrine: una è mia, l’altra sua. Devo smetterla di scappare dal dolore per la sua morte, devo essere una figura di riferimento per i suoi figli, come gli avevo promesso. Glielo devo.

«Sì, sei proprio uno zio stronzo», ribadisce, con un sorriso. «Ma ogni tanto ti tocca farti vivo, almeno con loro.» Alza lo sguardo e mi fissa. «Non ti avevo nemmeno riconosciuto, con questa.» Mi sfiora la barba sulla mascella.

«Sì, be’, visto che adesso sono un uomo libero, ho iniziato a comportarmi come tale.»

«Mi fa piacere. Sono contenta di vederti, anche se in questa circostanza. E anche tua madre.» Guarda verso di lei. La mamma, senza smettere di parlare con la donna che aveva riconosciuto prima, si gira ad abbracciarla e baciarla sulla guancia.

«Karina sta benissimo», commenta Gloria, arricciando le labbra e scrutandomi. «Cioè, è sempre bellissima, ma sembra...» Distolgo lo sguardo. «Sembra felice, ecco», conclude, sorridendo.

Gloria ha sempre voluto bene a Karina e, stando alle voci che ho sentito, hanno continuato a frequentarsi, anche dopo che ho lasciato la base.

Lancio occhiate furtive tutto intorno, in cerca dei capelli di Karina. Sono di nuovo castani. Di una sfumatura a metà tra «il castagna e il cioccolato», mi ha detto una volta. La tinta di quando si sente bene. Cambiare colore di capelli era uno dei suoi rituali, una delle tante piccole cose che faceva per esercitare il proprio controllo, fingendo che fosse un caso.

«Sì, mi fa piacere che sia felice», replico. «L’ho vista stamattina.»

Non c’è bisogno che mi dica che lo sa già. Lo capisco dalla sua reazione, impassibile.

«I bambini sono con te?» chiedo, cambiando argomento. Alza di nuovo gli occhi al cielo e scuote la testa.

«No, sono con mia madre a Fort Benning. Penso che siano andati a troppi funerali.»

«E non vale anche per noi?»

«Ah, di sicuro.»

Una donna si avvicina a noi per abbracciare Gloria. Sembra conoscerla, attaccano subito bottone. Mia madre è ancora immersa nella sua conversazione, così torno a cercare Karina. Com’è possibile che non l’abbia ancora vista? La chiesa non è grande. Del resto lei è brava a mimetizzarsi, a nascondersi tra la folla. È una delle sue abilità.

Qualcuno fa il nome di Mendoza e io mi sforzo di non ascoltare Gloria che snocciola automaticamente le solite frasi. Ho sentito i suoi «Grazie» e «Sto bene» così tante volte. Mi dispiace per lei, sempre costretta a vivere nel passato. È un posto difficile da abitare e ancora più difficile da lasciare. Io lo capisco meglio di tanti altri.

La voce di mia madre fende i saluti mormorati e le condoglianze scambiate tutto intorno a noi, strappandomi ai miei pensieri.

«Mikael, ricordami dov’è che tua sorella vuole andare al college?» mi chiede, evidentemente confusa, nonostante le centinaia di conversazioni che abbiamo avuto al riguardo.

«Al MIT», dico alla donna con cui sta parlando, e finalmente la riconosco. È la mamma di Lawson. So che è una persona migliore di suo figlio, e d’altronde non ci vuole molto. Dopo quattro anni nel suo stesso plotone e due missioni in Afghanistan, lo conosco meglio della sua stessa madre. La guerra avvicina le persone più di qualunque altra circostanza, a parte la morte. E nel mio mondo le due cose vanno a braccetto.

«Giusto, al MIT. Sai, è la migliore della sua classe quest’anno, e anche l’anno scorso. Mancano ancora due anni, ma sarebbero pazzi se non la ammettessero.» I suoi capelli neri stanno iniziando a sfuggire dal fermaglio. I ricci che l’ho aiutata ad acconciare stamattina si stanno afflosciando.

Mi torna in mente Karina che ride di me perché mi sono bruciato le dita con un arricciacapelli. Ho capito che era la persona più premurosa e altruista che avessi mai incontrato quando si è offerta di insegnarmi ad arricciare i capelli di mia madre con il ferro dopo aver notato le scottature sulle sue mani. Alcune mattine le tremavano così tanto da non riuscire a reggerlo, ma era troppo testarda per chiedere aiuto.

Non torno a casa spesso quanto dovrei, però a mia madre piace che sia io a sistemarle i capelli, quando posso. Mi dice che un giorno sarò un buon padre. Lo diceva anche Karina, con sguardo sognante, come se fosse in grado di prevedere il futuro. Ma si sbagliava, evidentemente, e pure mia madre, perché spera ancora che le darò dei nipoti che tramandino il nome di famiglia. E lo trovo alquanto improbabile.

Sospiro e prendo il telefono dalla tasca per abitudine, senza smettere di perlustrare la chiesa. È quasi vuota ora, sarà più facile trovarla. Alla fine saprò per certo che non è qui, oppure spunterà dall’angolo della sala in cui si è nascosta. Sempre che non se la sia svignata, cosa che, conoscendola, non è del tutto da escludere...

«Sono qui, Dory.»

Il tono dolce di Karina mi riempie contemporaneamente di sollievo e stupore.

«Oh, parlano tutti di te e finalmente eccoti qui», dice mia madre.

Karina aggrotta le sopracciglia e scuote la testa.

«I soliti pettegolezzi.» Arriccia le labbra in un sorriso e cinge le spalle di mia mamma con un braccio.

Le dita di Karina si insinuano tra i suoi capelli e aprono il fermaglio. Con mani delicate le smuove i riccioli e richiude il fermaglio, sistemandolo proprio come piace a lei, molto meglio di quanto riesca a fare io. Accidenti, ne hanno fatta di strada da quando tutto è iniziato. L’idea che mia madre non abbia più Karina nella sua vita per colpa di quello che è successo mi fa quasi impazzire. Il senso di colpa è opprimente. Non è come per Gloria, che può andare a trovarla quando vuole, in dieci minuti di macchina: mamma non riesce quasi più a guidare.

«Vuoi uscire?» le chiede Karina. «Si soffoca qui dentro.» Il verde dei suoi occhi cattura i riflessi delle vetrate colorate della chiesa.

Mamma la segue, mentre io resto al mio posto. Si girano entrambe verso di me.

«Allora?» dicono, all’unisono.

«Vengo con voi?» Guardo Karina.

Lei ricambia il mio sguardo schiudendo leggermente le labbra, ma non dice niente.

Quando ci avviamo, il mio cellulare vibra. Lo prendo e noto l’occhiata di Karina. Fissa inviperita il telefono, uno dei suoi peggiori nemici. Si aspetta che risponda, come faccio sempre, così ignoro la chiamata senza staccare gli occhi dai suoi. Si umetta le labbra. La conosco abbastanza da sapere che è sorpresa e la considera una vittoria. Comunque era solo uno dei miei collaboratori.

«Andiamo?» chiedo, deciso a stare al suo gioco. Lei annuisce e ci precede fuori dalla chiesa, mentre il rintocco delle campane risuona nell’aria.