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MIO fratello aveva l’aria di uno che non dormiva da una settimana. Sembrava un porcospino, con le punte dei capelli biondi sparate sul davanti e sui lati, ma fradicie e gocciolanti sulla fronte.
Eccolo, con la maglietta blu e i jeans neri strappati sulle ginocchia, lo sguardo confuso e disorientato.
Vederlo conciato così ha contribuito ad alimentare la mia rabbia. Le sue sneakers nere scricchiolavano sul pavimento della mia cucina.
Mi sono avvicinata. «Che cazzo ci fai qui?»
«Kare, dai...» I suoi occhi stanchi si sono spostati da me a Elodie, ancora seduta a tavola, ed è corso subito da lei.
«Che cazzo succede? Stai bene?» ha gridato, poi si è rivolto a me: «Sta bene?»
Il cuore mi batteva all’impazzata e avevo il petto in fiamme per la collera.
«Fuori da casa mia, Austin! Qui c’è un problema serio, adesso, parleremo dei nostri in un altro momento.»
Non riuscivo a credere alla sua sfacciataggine. Doveva averla ereditata da nostra madre.
E anche da nostro padre, a dire il vero. Era assurdo.
Sembrava molto più giovane della sua età. Non era mai stato particolarmente bravo a controllare le emozioni. Eravamo identici sotto tanti punti di vista, ma non in quello. Il modo in cui stava guardando Elodie mi ricordava il bambino dagli occhi verdi pieni di lacrime quando la missione di suo padre veniva prolungata di sei mesi. Piangeva ogni volta che lo spedivano da qualche parte. Esattamente il contrario di me: più crescevamo, più ero sollevata quando andava in missione. Anche se non lo ammetterei mai con nessuno.
«Stai bene?» ha ripetuto mio fratello a Elodie, che si era ripiegata ancora di più su se stessa. Il suo corpo era scosso dai tremiti, aveva le braccia strette intorno al pancione.
«La... la pancia. C’è qualcosa di strano. Il bambino...» Ha scosso la testa. «Non voglio farne una tragedia, potrebbe non essere niente di serio.»
«Sei incinta e non sembra che tu stia bene. Perché non chiamiamo qualcuno? Un dottore?»
Ho provato a pensare a chi chiedere aiuto. Non potevo chiamare mia madre e chiederle consiglio. E nemmeno Estelle.
«Dobbiamo portarla al Martin. Subito», ha proposto mio fratello.
«Cosa...?» stavo per dire, poi mi sono fermata. Ma certo, mio fratello parlava dell’ospedale di Fort Benning, che aveva lo stesso nome di Kael.
«L’ospedale», ha spiegato lui, mentre annuivo.
«Lo so, ero distratta», ho sbottato. L’idea che Austin sospettasse che stavo pensando a Kael mi mandava in paranoia.
«Su una scala da uno a dieci, quanto...» ha chiesto Austin a Elodie facendo una voce che avrebbe dovuto ricordare quella di un medico.
«Tu che ne dici?» ha risposto lei, respirando a fatica.
«Sì, scusa, non sono il dottor Stewart, o come diavolo si chiama Patrick Dempsey in quella serie tv.» Austin ha fatto sorridere Elodie, e siamo scoppiati a ridere tutti, anche se lei diventava sempre più pallida.
Ero in preda al panico, ma ho cercato di mostrarmi tranquilla e ho riso lo stesso. Ed era una risata genuina. Mi sentivo vuota, piena, preoccupata e serena, tutto insieme. Le emozioni sono così, è incredibile quante ne possiamo provare. La capacità umana di essere tante cose diverse allo stesso tempo, il peso di tutte quelle sensazioni mi premeva sul petto: era come la punizione di una divinità insensibile e spietata. Ero una specie di concentrato di sofferenza, problemi, traumi, amore non corrisposto e mancanza di controllo, e come se non bastasse forse Elodie stava entrando in travaglio prima del termine nella mia cucina.
Io ero a un passo da una crisi di nervi e lei rideva a una stupida battuta su Grey’s Anatomy?
«Comunque preferisco Doug Ross di E.R.», gli ha risposto Elodie, soffiando aria dalla bocca.
Ha inarcato la schiena, sempre tenendosi una mano sul pancione.
«Non so chi sia, ma...»
Lei lo ha fissato inebetita. «Come non lo sai? E.R. è una serie americana e Doug Ross è George Clooney!» Elodie ha avuto un altro spasmo.
«Ragazzi?» L’ho pensato almeno tre volte prima di riuscire a dirlo ad alta voce.
Mi hanno guardata entrambi. La mia amica sembrava un fantasma.
Non ho nemmeno dovuto fare troppo sforzo per convincerla.
«Va bene, okay. Andiamo.»
«Elodie, riesci ad alzarti? Forse è meglio andare direttamente al pronto soccorso, no? Magari faccio una ricerca su Google. Giusto per averne la conferma...»
Sapevo già che il suo era un attacco di panico e probabilmente sarebbe passato presto – o peggiorato, non si può mai dire – ma era incinta e non era il caso di rischiare, soprattutto vista la chiamata del ginecologo sui suoi esami del sangue appena un’ora prima. La ricerca su Google ha confermato i miei sospetti: meglio andare al pronto soccorso.
«Sì, dobbiamo andare. Forza, El.»
Il suo cellulare si è illuminato di nuovo sul bancone: ancora suo padre. Mi sono assicurata che Elodie non mi vedesse e ho rifiutato la chiamata, girando lo schermo a faccia in giù.
«Dobbiamo solo assicurarci che il bambino stia bene, ci mettiamo un attimo.»
«Il pronto soccorso non sarà affollato a quest’ora. Vengo anch’io», ha provato a persuaderla Austin.
Alla fine lei ha sospirato, alzando e abbassando il petto. Sembrava respirare meglio di un minuto prima, ma chiaramente c’era qualcosa che non andava.
«Okay, va bene», si è arresa. «Speriamo.»
Il pronto soccorso della base era sempre affollato, ma non ho detto niente perché Elodie aveva bisogno di essere tranquillizzata. Verità o bugia, a quel punto non importava. Lei ha annuito e Austin si è piegato per passarle le braccia sotto le gambe e sollevarla come se fosse una busta della spesa.
«Ce la faccio a camminare», ha protestato lei, senza però provare a scendere. Se lo avesse fatto, le avrei detto di lasciarsi aiutare.
Lui ha scosso la testa, io le ho tirato su il cappuccio dell’impermeabile per non farle bagnare i capelli ed Elodie ha sbuffato. Mentre mio fratello la portava alla macchina, ho cercato le chiavi, che erano rimaste nella tasca della divisa per tutto il tempo. Mi tremavano le mani, anche se la situazione pareva tutto sommato abbastanza normale, cioè non normale, ma non come nei film in cui tutti gridano, corrono, piangono e fanno casino.
Infilandomi le mani in tasca, mi sono ricordata che sarei dovuta già essere al lavoro.
Al diavolo la mia vita.
Li ho superati di corsa per aprire la portiera dell’auto e Austin ha adagiato dolcemente Elodie sul sedile. Dopo essermi assicurata che fosse comoda, ho dovuto fare appello a tutte le mie forze per non dire a lui di sedersi dietro o, meglio ancora, tornarsene da dov’era venuto. Era evidente che la sua presenza rasserenava Elodie, forse perché pensava, giustamente, che io non avrei avuto idea di cosa fare. Nemmeno Austin, ovvio, ma per qualche ragione Elodie sembrava più tranquilla ora che c’era lui, tanto che prima, quando l’aveva presa in braccio, gli aveva appoggiato la testa sulla spalla, nascondendosi il viso tra le mani.
Quando Austin ha aperto la portiera del passeggero, ho sospirato con fare teatrale, sperando che lui mi sentisse, e sono salita in macchina. Ho acceso subito la radio e ho controllato di nuovo Elodie. Austin guardava fuori dal finestrino mentre lei piangeva sul sedile posteriore. Gli tremava la gamba, come sempre quando era preoccupato. Mi è parso che muovesse le labbra, ma riuscivo a sentire solo la voce di Ryan Seacrest alla radio. Non sapevo cosa dire a nessuno dei due, così mi sono limitata a guidare.
La spia della riserva si è accesa appena mi sono immessa sulla statale.
Piove sempre sul bagnato.
Letteralmente.
«El, hai le carte dell’esercito?» ho chiesto, alzando la voce per sovrastare il gemito dei tergicristalli.
Speravo di sì, perché, a seconda dell’umore dell’addetto al triage, avere una donna incinta in preda ai dolori non gli avrebbe impedito di mandarci via senza i documenti. Nemmeno il suo viso gonfio e striato di lacrime e il pancione sarebbero riusciti a farlo cedere.
«Le ho prese io, erano in salotto», ha risposto Austin. «Kare, senti...» ha iniziato a dire poi, mentre cambiavo corsia per superare un camion.
«Non ci provare», l’ho aggredito.
L’ho visto stringersi le mani in grembo e ho aggiunto: «Non è il momento».
Ho lanciato un’occhiata a Elodie nello specchietto retrovisore per rendere l’idea. Si stava fissando il grembo con le guance bagnate di lacrime.
Lei ha incrociato il mio sguardo. «Non avevo mai avuto questi attacchi prima di trasferirmi qui. È tutto un casino ultimamente.»
«La tua vita era diversa, non avevi un marito in guerra e un bimbo grosso come un ananas nella pancia.»
I suoi occhi si sono illuminati e l’angolo della bocca si è sollevato per un secondo. «Sì, è vero. Mi dispiace di aver rovinato la giornata a tutti.»
Ha incrociato di nuovo il mio sguardo nello specchietto. Almeno aveva smesso di piangere, ma le spalle tremavano ancora.
«Saremo lì tra una decina di minuti.»
Austin si è allungato e ha provato a toccarmi la mano, come faceva sempre quando eravamo piccoli e i nostri genitori bisticciavano in auto. In genere al ritorno da un «divertente» weekend in famiglia imposto da mia madre. Non tollerava di stare chiusa in casa per troppo tempo, e mio padre non tollerava lei. L’impressione era che i nostri genitori fossero incapaci di stare insieme per i due giorni e mezzo di un fine settimana, quindi la domenica passavano il viaggio di ritorno dalla gita fuori porta, che la mamma era riuscita chissà come a convincerlo a fare, a gridarsi contro in macchina. Iniziava sempre con una «battuta» di mio padre e finiva con le porte che sbattevano e mia madre che dormiva sul dondolo in veranda. Penso che le piacesse di più dell’interno della casa da ufficiale di mio padre, che non era mai riuscita a sentire sua.
I nostri genitori erano in parte la ragione del forte legame che univa me e mio fratello, del nostro aggrapparci l’uno all’altra, e in parte la causa del nostro allontanamento. Stavolta – ho pensato mentre scansavo la sua mano – era Austin la canaglia. Era lui nostro padre. Anche se ero certa che ci fosse lo zampino di papà nel suo arruolamento, non potevo dare la colpa né a lui né alla mamma. Mio fratello mi aveva tradita, e io non volevo che mi toccasse. Non lo volevo nemmeno nella mia macchina.
Lui si è appoggiato al finestrino e ha guardato dritto davanti a sé. Conoscevo quello sguardo. La desolazione e il desiderio di perdono e approvazione. Ma non potevo dargli nessuna delle due cose. Non aveva decapitato una delle mie bambole o bucato la ruota della mia bici, come quando eravamo piccoli. Era una divergenza radicale. Come notte e giorno. E provavo una certa soddisfazione nel farlo soffrire, invece di cedere e perdonarlo soltanto perché detestavo vederlo triste.
Aveva preso una decisione, infrangendo la promessa che ci eravamo fatti da piccoli. Sarebbe partito per l’addestramento di base. E poi per l’Iraq o l’Afghanistan o chissà quale altro Paese avremmo invaso a quel punto. Tutto questo lo avrebbe avvelenato, come confermavano tutte le mie esperienze con l’esercito, e non ero pronta a parlarne. A prescindere da quante volte controllavo il cellulare e rileggevo la nostra ultima conversazione, non ero ancora pronta ad affrontare quella discussione.
Abbiamo viaggiato in silenzio, ognuno immerso nella propria sofferenza.