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Kael

«MERDA.» Ho scagliato il cellulare sul sedile di pelle vuoto.

Perché Fischer non era ancora pronto a uscire? Sapeva che sarei passato a prenderlo alle nove. Eravamo d’accordo che mi avrebbe aspettato fuori. Non era previsto certo che mi unissi alla festicciola di compleanno della loro famiglia disfunzionale. Peraltro era stato lui a dire che voleva andarsene da casa di suo padre prima possibile e a scrivermi per sapere dove diavolo ero finito. Speravo proprio che l’esercito gli avrebbe insegnato ad avere più rispetto degli altri. Io ero il primo a mettere le esigenze delle persone a cui tenevo davanti alle mie, ma nei rapporti ci vuole un equilibrio di cui lui era del tutto incapace.

Ho parcheggiato in strada subito dietro la macchina di Karina e ho poggiato la fronte sul volante. Cazzo, non riuscivo a credere di essermi appena fermato davanti casa di quell’uomo. E nemmeno di essere diventato amico di suo figlio ed essere uscito con sua figlia, a dire il vero. Che diavolo mi diceva il cervello? Avrei dovuto rispondere ad Austin di portare le sue chiappe fuori da lì e andarcene.

Prima di entrare ho ripreso il cellulare. C’era un messaggio di Elodie. Mi sono fermato a leggerlo, prendendo tempo perché sapevo che dentro c’era Karina. Ho chiuso il messaggio di Elodie e ho digitato una K. Pensavo che fosse la cosa giusta da fare, scriverle qualcosa per allentare la tensione prima di entrare in casa. Ho esitato con le dita sul suo nome, sarebbero bastati un paio di clic, ma non ci sono riuscito. Ho rimesso il cellulare nella tasca dei pantaloni della tuta e mi sono avviato verso la veranda.

Le case degli ufficiali erano decisamente esagerate. Come delle piccole piantagioni senza terra, a schiera o in fondo a strade senza uscita, pensate per premiare i soldati che erano riusciti a salire abbastanza in alto nella scala gerarchica ed erano andati al college per le buone azioni compiute al servizio del Paese.

Se lo meritavano – forse meritavano anche di più –, ma a volte era difficile da digerire, soprattutto quando sapevi che la maggior parte di quel denaro proveniva da spargimenti di sangue e guerre inutili. Gli Stati Uniti sono fondati sulla guerra, e uomini come il padre di Karina approfittavano di un sistema che era nato come un qualcosa di cui essere orgogliosi ma che, nel frattempo, aveva rovinato la vita di tante persone e aveva permesso a un sacco di idioti di riempirsi le tasche. Sognavo di diventare un soldato fin da piccolo, ma non mi era mai passato per la testa niente di tutto questo. Sapevo solo che volevo fare qualcosa di cui andare fiero, qualcosa di cui mia sorella e mia madre potessero andare fiere. Volevo aiutare il popolo americano a sentirsi al sicuro, guadagnandomi uno stipendio fisso e assicurandomi l’assistenza sanitaria. Questa era la mia risposta ufficiale, ma in realtà il motivo principale per cui mi ero arruolato era tirarmi fuori da Riverdale prima di finire nel posto sbagliato al momento sbagliato, come era successo a molti ragazzi della mia età.

Il padre di Karina era sistemato per la vita, a differenza mia, che avevo corpo e mente a pezzi. Nella migliore delle ipotesi sarei riuscito a congedarmi all’inizio dell’anno successivo, lui invece prestissimo sarebbe andato in pensione. Avrebbe vissuto il resto dei suoi giorni in completa spensieratezza, mentre migliaia di uomini e donne continuavano a servire il Paese nell’esercito e lottavano per far quadrare i conti. Certo, anche i soldati avevano diritto alla pensione, a una bella pensione, ma gli uomini cattivi no. E non avrei saputo stabilire con certezza a quale delle due categorie appartenesse quell’uomo.

Ho abbandonato la testa all’indietro, ho chiuso gli occhi e ho cercato di ricordare a me stesso che io non ero come lui. Avevo fatto del mio meglio, cazzo. La maggior parte delle persone che conoscevo non era come lui. I pesi e contrappesi funzionavano ancora quando si trattava della battaglia dell’esercito tra il bene e il male. Il padre di Karina poteva tenersi il suo nuovo furgone nel vialetto, i brillanti risultati conseguiti nella sua carriera e le sue immeritate onorificenze, purché restasse esattamente dov’era e non facesse del male a nessun altro. Potevo accettarlo, anche se non era giusto. Forse non si sarebbe mai fatta vera giustizia.

Cristo, stavo per entrare in casa sua, e c’era tutta la sua famiglia, là dentro.

Ci sarebbe stata anche Karina, certo. Mi mandava in bestia che fosse riuscito a riportarla sotto il suo fottuto controllo. Ma perché non le lasciava vivere la sua vita in pace?

Odiavo che fosse imparentata con lui. Com’era possibile? Mi spiaceva che non avesse avuto un buon padre. Lei era così pura. Più disincantata di chiunque abbia mai conosciuto, ma con un cuore grande. E desiderava tantissimo l’approvazione del padre, anche se era troppo testarda per ammetterlo. Pensavo di essere stato sfortunato con il mio, ma avrei comunque sempre scelto un fantasma invece di un diavolo.

Ho guardato di nuovo la casa. «Accidenti a me!»

Il bagliore alla finestra era giallo scuro, come quello di una casa stregata. Un segnale di pericolo che forse avrei fatto meglio ad ascoltare. Perché non riuscivo a staccarmi da quella famiglia? O meglio, perché doveva esserci anche lei? Avrei preferito mille volte dover affrontare Fischer padre che lei. A dire il vero ero sorpreso che Karina fosse tornata a casa sua, dopo tutto quello che era successo. E insieme al fratello, per giunta. Entrambi legati a una routine che detestavano.

Andare o non andare...

Fanculo. Ormai ero quasi in veranda, non avevo altra scelta. Ho suonato il campanello. Di lì a poco ho sentito girare il chiavistello e sulla soglia è apparsa la matrigna di Karina, più simile alla guida di un museo che a qualcuno che stia aprendo la porta di casa sua. Aveva gli occhi chiari e i capelli più scuri di quanto ricordassi. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a fissare il suo viso nella memoria. Era troppo simile alle altre mogli degli ufficiali. Mi ha ricordato quando ho passato sei mesi al confine coreano e ho imparato un sacco di cose sulla Corea del Nord, dove le mogli degli ufficiali hanno tutte lo stesso taglio di capelli e si vestono tutte nello stesso negozio. Avevano un cartello che mostrava le varie opzioni di acconciature. La matrigna di Karina si sarebbe adattata subito lì, visto che pareva seguire le regole di suo marito senza battere ciglio

«Martin, ciao. Benvenuto, entra pure», mi ha accolto sorridente.

«Grazie.» Ho annuito, incerto su cosa fare.

«Siamo tutti a tavola, stiamo mangiando la torta. Siamo felici di averti qui.»

«Sono sicuro che lo siano tutti.» Le ho sorriso, reprimendo il desiderio di darmela a gambe. Poi mi sono ricordato che forse non ci sarei riuscito nemmeno se ci avessi provato.

«Lo sono, almeno metà di loro.»

La sua onestà mi ha fatto sorridere.

Non capivo se fosse ingenua o del tutto delirante. Troppo spesso le due cose erano correlate, o la linea di demarcazione era sottile.

«Entra», mi ha esortato, spostandosi di lato per farmi passare.

Mi ha fatto strada e io, per abitudine, ho chiuso la porta a chiave prima di seguirla attraverso il salotto, fino alla sala da pranzo. Karina era seduta a tavola, le braccia distese davanti a sé. Era accigliata, gli occhi fissi su una fetta di torta lasciata a metà in un piatto. Poi li ha posati nei miei.

Ha distolto subito lo sguardo, tuttavia, sistemandosi nervosamente i capelli dietro un orecchio. Era così bella. Perché era così dannatamente bella? Era l’unica donna che avessi incontrato in tutta la mia vita a emanare un simile bagliore, una luce come quella del sole, da cui non riuscivo a distogliere lo sguardo. Anche se mi accecava.

Negli ultimi giorni non avevo fatto altro che pensare a lei e sforzarmi di ricordare il suo aspetto l’ultima volta che l’avevo vista. Capelli tinti, maglietta bucata e gambe nude. Terribilmente eccitante. E lo era ancora di più adesso, seduta lì a ignorarmi. Mi faceva desiderare ancora di più di avere la sua attenzione. Karina trovava sempre il modo di esprimersi attraverso il suo aspetto o il suo atteggiamento, a differenza mia, che indossavo la stessa uniforme tutti i giorni, dentro e fuori.

Ho colto un riverbero di luce dagli orecchini che portava, mentre mi avvicinavo. Erano a forma di mezzaluna, e le sfioravano le spalle. Si era truccata e, per come la conoscevo, si era messa in ghingheri. Aveva un abito rosa con dei piccoli fiorellini bianchi, e piuttosto scollato. Mi sono sforzato di non buttare l’occhio al décolleté mentre si girava verso il fratello, seduto accanto a lei. Non mi ha guardato. Era incazzata, percepivo la sua rabbia da come mi ignorava. Era il suo modo di punirmi. Era fatta così. E io ero il cretino che desiderava stare al suo gioco.

«Ehi, amico!» mi ha gridato Fischer, sollevando in aria le braccia.

«Ti odio», gli ha mimato lei con le labbra, alzando gli occhi al cielo. Sempre senza guardarmi. Ha iniziato a giocare con la collana. Forse si era messa quel vestito senza maniche, con le sottili spalline sulla pelle, solo per provocarmi. Se scoprivo che Fischer le aveva detto che sarei andato a prenderlo, anche se gli avevo chiesto ben due volte di non farlo, lo avrei ammazzato, cazzo.

«Non saluti nemmeno?» Austin ha dato una leggera spallata alla sorella. Ho avuto la tentazione di dirgli di lasciarla stare, ma poi ho pensato che forse era meglio aspettare qualche minuto prima di rovinare la cena di compleanno.

Alla domanda di suo fratello, ha girato la faccia dall’altra parte. Tutti gli altri nella stanza mi fissavano come se fossi entrato nella casa sbagliata. Sapevo che Karina avrebbe fatto del suo meglio per evitarmi per tutto il tempo in cui sarei rimasto lì. Se fossero stati più di cinque minuti, sarei andato ad aspettare Austin in macchina, lo avevo avvertito al telefono.

Fischer si è messo a ridere. «Vieni a sederti, mangia una fetta della mia torta.»

Il tenente generale Fischer è entrato con una birra in mano. Ero come intrappolato con tre Fischer, quattro se si contava anche la moglie, che non era riuscita a dileguarsi in cucina abbastanza in fretta.

Mister Esercito si è seduto a capotavola tronfio come un Lannister. Mi inquietava, anche se detestavo ammetterlo. Gli avevo lanciato a malapena un’occhiata mentre entrava nella stanza, ma mi ero assicurato di tenere la schiena dritta e di non assumere un’aria troppo intimorita. Non doveva accorgersi della mia paura. Gli stronzi come lui si nutrivano di quelle sensazioni.

«Assaggia la torta, Martin. È veramente buona, la crema è spettacolare», ha insistito Fischer.

Karina non sembrava entusiasta all’idea di condividere con me la sua torta di compleanno, anche se ormai il suo nome sopra non c’era più.

La scritta diceva solo BUON COMPLEANNO AUSTIN &...

Karina era stato tagliato via. Ho guardato nel piatto di lei, ma non c’era traccia della scritta con la glassa verde, forse tra gli avanzi in quello del padre.

«Grazie, ma sono a posto così. Ho appena cenato», ho mentito.

Austin l’ha indicata. «Dai, prendine una fetta.»

Ne ha mangiato un altro boccone, buttandolo giù con un sorso di birra.

Non riuscivo a credere che fosse già il compleanno di Karina, o meglio, suo e di Austin. Ci ho riflettuto per qualche istante, scavando nella memoria. Non mi aveva mai detto la data esatta, ma avevo ascoltato abbastanza dettagli dei suoi ricordi per riuscire a indovinarla. Ero quasi convinto che fosse quel venerdì, ma sapevo che si sarebbe incazzata di brutto se glielo avessi chiesto davanti a tutti. Avrei aspettato che fossimo fuori da lì per domandarlo ad Austin.

Lui sembrava godersi i festeggiamenti anticipati, mentre Karina continuava a smuovere la torta nel piatto, senza toccarla.

Sapevo che non amava le feste in generale. Nemmeno le sue. Con me aveva affrontato a malapena il presente e aveva parlato un sacco del passato, di come la madre trasformasse il compleanno in un’intera settimana di celebrazioni.

La moglie di suo padre è tornata nella stanza, con fluide movenze ha tagliato una fetta di torta e l’ha messa in un piatto, posandolo davanti a me. «Ecco qui», ha detto in un tono da ospitale padrona di casa.

«Cristo santo. Non la vuole questa maledetta torta!» è sbottata Karina.

Si sono girati tutti a fissarla, me compreso. Suo fratello è scoppiato a ridere in tempo per farla sembrare una battuta divertente, così ho accettato la maledetta torta, visto che nessuno in famiglia pareva intenzionato a darmi tregua e che Karina sembrava pericolosamente infastidita dalle moine dei suoi.

Austin ha battuto sulla spalliera della sedia vuota vicino a lui, facendomi cenno di sedermi. Avrei mangiato la torta, ma non avevo alcuna intenzione di abusare dell’accoglienza. Più restavo, più alte sarebbero state le possibilità che si scatenasse l’inferno. Se Fischer fosse stato al corrente di quello che era successo tra me e suo padre, non mi avrebbe mai chiesto di spezzare il pane – o la torta – con quel pezzo di merda di genitore che si ritrovava. Ero ancora indeciso se parlargliene o meno, ed ero abbastanza sorpreso che non lo avesse fatto Karina, anche soltanto per fare un torto a suo padre. Si meritava che il figlio fosse disgustato da lui quanto lo ero io, quanto lo erano tutti quelli che conoscevo. L’unica ragione per cui non gli avevo detto niente era che non volevo dare a Karina un motivo per odiarmi ancora di più. E sentivo il bisogno di tenermi fuori dai loro problemi di famiglia. Ne avevo già abbastanza con la mia.

A prima vista, i Fischer sembravano la famiglia perfetta. Un esempio lampante che l’apparenza inganna.

«Vuoi una birra?» ha chiesto Austin.

«Sono in macchina.» Ho preso le chiavi e le ho fatte penzolare dal mio dito indice. Lui ha annuito.

«Stavo giusto dicendo a mio padre quanto sei stato gentile con me», ha detto, mentre mi portavo alle labbra la prima forchettata di torta.

«Ah, sì?» ho risposto, a bocca piena. Non dovevo mostrare rispetto a nessuno e Karina avrebbe apprezzato la mia totale mancanza di buone maniere alla tavola del padre.

«Sì, gli ho anche detto che sei tu l’uomo da chiamare se avesse bisogno di qualche lavoretto in casa.» Fischer era tutto orgoglioso. L’ironia della situazione era quasi penosa.

Karina mi stava fissando, in attesa di una reazione. Non avrei dato quella soddisfazione né a lei né a nessuno di loro.

«Grazie. Sì, è stato un grande aiuto avere due mani in più, devo dire. Gli farò spaccare la schiena finché non parte.»

«Finché non parte?» ha chiesto il generale Fischer. «Dov’è che vai?» Quell’ultima domanda era rivolta a suo figlio soltanto.

È calato il silenzio. Mi sono accorto troppo tardi di aver sganciato una bomba.