12
Kael
IN casa mia si congelava. Ero stato accolto dal solito buio pesto. Le notti buie e fredde passate dormendo a terra nel deserto erano finite per il momento, ma i ricordi non svanivano tanto in fretta. Li trovavo quasi confortanti.
Era tutto troppo bello per essere vero. Ero a un passo dalla libertà, almeno apparentemente. Sapevo come funzionava il sistema, e aspettarsi che tutto andasse così liscio da permettermi di andarmene da Fort Benning senza conseguenze sarebbe stato da sprovveduti. Eppure c’ero più vicino che mai. Anche se non avevo nessun tipo di garanzia.
«Si ghiaccia qui dentro», si è lagnato Austin. Quando ho acceso le luci, ho visto che aveva le braccia strette intorno al corpo.
«Sei serio?» l’ho preso in giro. Il mio respiro si è condensato in una nuvoletta. «Non ce la farai mai a passare l’addestramento di base se non ti abitui a sopportare un po’ di freddo.»
Mi ha mostrato il dito medio e si è rannicchiato sul divano.
«Non può essere tanto difficile. Tu ce l’hai fatta, e anche quel coglione di Lawson.»
«Ovunque ti mandino per l’addestramento, ti faranno il culo per una battuta del genere», l’ho avvertito. «Non puoi rispondere male a qualcuno più alto in grado di te. Che sarei io, in questo caso.»
Austin lo trovava divertente, adesso, ma io non ero così sicuro che potesse farcela. Fare il soldato non era uno scherzo, correre su e giù per una collina finché il tuo sergente non ti dice che puoi fermarti, finché le gambe ti fanno così male che non riesci a camminare. E, dopo essere stato in missione, in confronto l’addestramento mi sembrava una vacanza alle Bahamas. Non che sapessi davvero come ci si sente in vacanza, ma avevo visto abbastanza film e serie tv da essermene fatto un’idea. Anche se quasi tutte le mie idee al riguardo venivano da mia madre e dalla sua fissa per le Real Housewives di ogni fottuta città del mondo che erano sempre in vacanza.
«Giusto.» Ha riso, facendomi il saluto militare.
Volevo credere che Fischer avrebbe resistito, e che sarebbe stato un buon soldato. Come aveva detto lui, Lawson ci era riuscito. E io avevo fatto l’addestramento con lui, quindi sapevo per esperienza diretta quanto fosse idiota. Austin era più forte di Lawson, e anche più umano. Per come lo conoscevo, ero convinto che sarebbe stato un valoroso militare se solo fosse capitato con il gruppo giusto. Il problema è che nell’esercito si limitano ad assegnarti a un plotone senza troppe cerimonie, quindi puoi solo sperare di trovare almeno una persona con cui sei in sintonia, o che tolleri.
«Un po’ di duro allenamento non mi ucciderà», ha detto, la voce stiracchiata come il corpo mentre si allungava sul mio divano.
«Sì, dici così adesso. Hai passato le prove fisiche per un pelo.»
Ho posato lo sguardo sulla poltrona di pelle vicino a me. Doveva essere gelida, non avevo alcuna intenzione di sedermici. Mi servivano altri mobili, ma in genere non c’era nessuno in casa oltre a me, quindi non mi erano mai sembrati necessari. Non essendo un amante della solitudine, però, non mi dispiaceva la presenza di Austin. Volevo stare da solo, non essere solo. Qualunque cosa significasse. Secondo la terapista, la mia condizione ideale era in mezzo agli altri e non ero abituato a stare solo. Per me era un concetto sconosciuto. In caserma dividevo la stanza con un commilitone, e durante le missioni dormivamo in gruppo nei container. Non sapevo cosa fosse la privacy, né cosa significasse avere tempo per me.
Nel container, il mio letto a castello era sotto il condizionatore a parete che funzionava un giorno sì e l’altro no. Prima che il caldo diventasse insopportabile, avevo convinto uno dei ragazzi ad aiutarmi ad aggiustarlo con degli attrezzi di fortuna, recuperati nell’accampamento. Ci sarebbero volute settimane per farlo sostituire, sempre che fossimo riusciti a farcene arrivare uno nuovo. Dovevamo cavarcela con quello che avevamo. Ci nutrivamo di pasti pronti, schifoso cibo liofilizzato, così, ogni volta che qualcuno del plotone riceveva un pacco da casa, era una festa, come la mattina di Natale.
I pacchi da casa erano di grande aiuto. Molti dei ragazzi del mio plotone non erano sposati, quindi li ricevevano dalle mamme. Come la mia, che mi spediva orsetti gommosi e Snickers. Di cose buone non ne avevamo molte, ma erano un bel passatempo mentre cercavamo di non lasciarci la pelle. Per esempio, la moglie di Lawson a volte nascondeva una bottiglia di vodka, o altri alcolici, o una canna in una scatola di cereali. Di tanto in tanto arrivavano le lettere dalle scuole, e i ragazzi più grandi si commuovevano per i disegni a pastello dei figli che stavano crescendo senza di loro. Faceva tutto parte del sacrificio che eravamo disposti a compiere per il nostro Paese, lo sapevamo bene, il che non significava necessariamente che lo accettassimo con serenità o che un bigliettino fatto a mano per il Memorial Day – il giorno in cui si commemorano i soldati americani caduti di tutte le guerre – non potesse mettere in ginocchio un omone di novanta chili.
Mentre la mia mente era intrappolata nel passato, i miei occhi vagavano nel salotto. Era più grande della maggior parte dei postacci in cui avevo vissuto nei quasi tre anni di vita nell’esercito. Il vero motivo per cui ero stato tanto contento della promozione a specialista era la possibilità di lasciare la caserma. Apprezzavo la comodità di dover semplicemente attraversare un prato per andare a lavorare, ma non sopportavo di avere un compagno di stanza. Sono sempre stato un po’ orso. Non mi piace condividere gli spazi con altre persone, non mi piace che la gente tocchi le mie cose, usare il bagno comune e sentire Phillip che tornava dal bar con una tizia e se la scopava a pochi metri dal mio letto.
Per un soldato la privacy non esiste, quindi avere Austin per casa era un po’ come essere tornato con i miei compagni di battaglia, anche se quella era casa mia e potevo starmene in bagno in santa pace senza che una squinzia mezza nuda venisse a bussare alla porta chiedendomi di uscire per fare pipì. Fischer era il coinquilino meno molesto che avessi mai avuto. Passava quasi tutto il tempo al cellulare o a giocare ai videogiochi e non sentiva il bisogno di riempire i silenzi. Non parlava quanto la sorella, anche se, cosa strana, una volta mi aveva detto che tra i due quella silenziosa era lei. Mi aveva confuso, perché invece a me sembrava che lei non smettesse mai di parlare, almeno con me. Ma si scusava tutte le volte che sproloquiava, per cui mi chiedevo chi nella sua vita l’avesse convinta che doveva stare zitta. Chiunque fosse, lo avrei preso volentieri a calci. Forse era una sua scelta tagliare fuori il resto del mondo? Non lo avrei mai scoperto, ma mi piaceva l’idea che Karina Fischer facesse le cose solo per me.
L’unico lato negativo di Fischer era forse il peggiore possibile. In alcuni atteggiamenti mi ricordava la sorella gemella, come nel modo di gesticolare mentre parlava e nell’assurda quantità di volte in cui roteava gli occhi e sbuffava. Entrambi usavano le espressioni facciali e le mani per esprimersi. Fisicamente non erano due gocce d’acqua, non al punto da capire al volo che erano gemelli, ma era evidente che fossero parenti. Un patrimonio genetico invidiabile, non c’è che dire. Soprattutto Karina. Porca miseria, era una di quelle donne che non doveva affatto impegnarsi per farsi notare, non passava decisamente inosservata e, se il tuo sguardo cadeva su di lei, era impossibile volgerlo altrove.
Tutto il plotone l’aveva notata e, quando Elodie aveva fatto amicizia con i ragazzi tramite il gruppo delle mogli, la sua coinquilina era diventata un argomento di conversazione fisso, fin dalle prime luci dell’alba. Durante l’allenamento, ogni mattina, tra una battuta e l’altra sul fatto che ero fermo per colpa della mia gamba, volavano commenti su di lei. Anche su El, a dire il vero, ma Karina era single, e nessuno si sbilanciava troppo con la moglie di quel matto di Phillips.
Quando Lawson aveva accennato alla possibilità di provarci con Karina, Austin era presente e aveva risposto che la sorella non era mai uscita con un soldato e non lo avrebbe mai fatto. Anzi, aveva precisato che non usciva con nessuno. Non si era minimamente scomposto mentre quel chiassoso gruppo di maschi eccitati blaterava volgarità sulla sorella. Mentre Lawson continuava a fare apprezzamenti sul suo corpo da urlo, lo avevo guardato e mi ero chiesto se a Karina sarebbe potuto piacere, se non fosse stato sposato. La conoscevo abbastanza da sapere che non si sarebbe invischiata in una relazione clandestina.
Impossibile. Lei era il tipo di donna che aveva bisogno di attenzione totale e incrollabile. Anche se non lo avrebbe mai ammesso. La Karina Fischer che conoscevo pretendeva molto più di uno stupido soldato che sniffava bombolette di panna spray sul retro di un mezzo militare di ritorno da una missione in cui avevamo rischiato tutti di morire. Aveva bisogno di qualcuno che sapesse apprezzare i lati più nascosti della sua mente, e se ne innamorasse ogni giorno di più, non certo di un idiota immaturo come Lawson. L’uomo con cui Karina avrebbe deciso di stare avrebbe dovuto avere la pazienza di un santo per cercare di capirla. Se non ci ero riuscito io, che malgrado la nostra diversità parlavo la sua lingua, era escluso che potesse essere Lawson o qualunque altro tizio avessi mai conosciuto. Ma non volevo pensare a lei, agli altri uomini e a quanto desiderassero il suo corpo e la sua mente.
Mentre Fischer fissava il cellulare, digitando senza sosta, facevo del mio meglio per togliermi sua sorella dalla testa. Dio, quella donna mi faceva impazzire. Nitidi e intensi ricordi attaccavano la parte del mio cervello che stava iniziando a odiarla, riportando una vittoria schiacciante. Sarebbe stato molto più facile detestarla che desiderarla e continuare ad avere fantasie su di lei. Il modo in cui le gocce d’acqua le restavano attaccate alle ciglia quando usciva dalla doccia. Il modo in cui il sudore le colava dalla schiena quando la prendevo da dietro, con una visuale perfetta sul suo corpo perfetto. Ma non era soltanto una mancanza fisica, quella che sentivo, mi mancava ascoltare le parole che uscivano dalla sua bocca, come se fossero soltanto per me. La mia inutile passeggiata lungo il viale dei ricordi mi stava rendendo irrequieto: avevo bisogno di una scusa per uscire dalla stanza.
Sono andato in cucina per tenermi impegnato. Potevo mangiare. Non mangiavo da un po’, così ho buttato nel microonde la prima cosa che mi è capitata a tiro. Lo stomaco mi brontolava da quando ero stato costretto a mollare la mia enchilada ancora calda sul tavolo di Mendoza. Proprio mentre infilzavo il primo boccone con la forchetta, lui aveva preso a pugni il vetro della porta sul retro. Gloria ci aveva cucinato una cena fantastica e la serata procedeva alla grande, poi però le cose erano precipitate. Proprio così. Una bomba a orologeria, letteralmente. Era bastato lo sfrigolio dell’olio sui fornelli per gettare Mendoza nel panico e fargli perdere il controllo.
Non riuscivo a togliermi dalla testa la faccia del figlio più piccolo, una maschera di terrore, quando aveva afferrato il braccio della sorellina ed era scappato di sopra, lontano dalla vista del sangue. Ho fissato la pizza surgelata che ruotava nel microonde pregando che si trasformasse nelle enchiladas che Gloria aveva passato ore a preparare. Cucinava benissimo. Mendoza era un figlio di puttana fortunato. Non solo aveva una moglie che lo amava per quello che era – comprese le sue stronzate –, ma che si prendeva anche cura della famiglia quando lui era in missione e non aveva mai guardato un altro uomo da quando avevano sedici anni. A volte lo invidiavo, avrei voluto anche solo la metà di quello che aveva lui, forse mi sarei accontentato già soltanto il cibo. Porca miseria, anche il polpettone di mia madre sarebbe stato meglio di quella pizza del microonde. In realtà avevo ancora accesso alla mensa, ma non avevo nessuna voglia di andarci e cercavo di uscire di casa il meno possibile. La mia vita sarebbe cambiata completamente una volta ottenuto il congedo, anche se mi sembrava impossibile. Mi stavo pian piano preparando a una vita nuova, alla libertà. Ero a un passo dalla svolta, e non vedevo l’ora. Non appena avessi imparato a cucinare.
Dovevo davvero iniziare a cimentarmi ai fornelli, e magari mangiare cibo sano, ma ultimamente non avevo tempo. Fare la spesa, tagliare, far sobbollire e tutto il resto – cose normali che le persone fanno ogni giorno – era fuori discussione. Avevo più tempo di quanto non ne avessi avuto nelle ultime due settimane, ma avevo investito quello che passavo con Karina per un corso dell’esercito in cui insegnavano a me e a un gruppo di soldati cose basilari come candidarsi per un lavoro o usare il sistema sanitario dei veterani. Non mi avrebbero lasciato fuggire a gambe levate. Sotto tanti aspetti sarei rimasto un soldato a vita.
Dipendeva tutto da come sarebbe andato il congedo. Non mi avrebbero tenuto, non con una gamba ormai inservibile. Era messa così male che non avrebbero mai più potuto servirsi del mio corpo, ma avrebbero avuto la mia mente per sempre.
Ci cascavo ogni volta. Mi ritrovavo a fissare la parete di cartongesso della mia cucina, con il ronzio del microonde in sottofondo, e sprofondavo nei ricordi del passato. Mi mangiucchiavo le unghie come allora. Certe cose non sarebbero cambiate mai. Il numero impressionante di volte che affondavo gli stivali nella sabbia del passato era un tormento sufficiente a farmi perdonare le mie colpe. Dopotutto, solo io sapevo quanto sangue c’era sulle mie mani.
I miei danni psicologici erano irreversibili. Karina era l’unica persona che mi aveva fatto sentire come se la mia pena fosse ormai espiata e potessi smetterla di punirmi. Era la sola a sapere qualcosa di quello che avevo fatto e visto, e non mi aveva mai guardato come se fossi un uomo indegno di lei. Ascoltare le sue parole mi aveva fatto stare meglio di tante sedute di analisi. Lei e il lavoro manuale erano le uniche due cose in grado di farmi distogliere la mente da quella merda. E dal momento che non avevo più Karina dovevo concentrarmi sul lavoro, ovvero trasformare quella fogna in un posto abitabile, o meglio ancora in una casa decente.
Dovevo metterla a posto per iniziare a far fruttare l’investimento invece di pagare l’affitto. Guadagnavo bene, ma spendevo quasi tutto per pagare la retta di mia sorella. Non restava molto, ma non sprecavo soldi come la maggior parte degli altri ragazzi. Risparmiavo e mi facevo il culo per garantirmi un futuro, una volta lasciato l’esercito. Non lo avrei mai ammesso con nessuno, nemmeno con me stesso, ma da qualche parte nella mia mente avevo sempre saputo che non sarebbe stato per sempre. Avevo iniziato a muovere le pedine da tempo.
La villetta bifamiliare doveva essere pronta per quando avessi avuto il congedo. In tempo per il ritorno di Phillip, e ormai non mancava molto. Le cose sarebbero state molto diverse se ci fosse stato lui. Probabilmente sarebbe stato nella mia cucina a bere tequila e parlare della sua paura di diventare padre. Io di certo non ce lo vedevo a badare a un bambino. Phillip aveva intenzione di trasferirsi in una delle due unità con Elodie, dopo la nascita del piccolo. Non ero esaltato all’idea di avere un neonato piagnucolante come vicino, ma mi faceva piacere dare una mano a lui ed Elodie, soprattutto dal momento che, per avere una casa nella base, la lista d’attesa arrivava fino a un anno, a volte di più, e non ci si poteva aspettare che vivessero tutti nella minuscola casa di Karina. E in più, stando qui, avrei potuto tener d’occhio Phillip.
La gamba mi faceva un male tremendo. Era così dall’inizio della giornata. Prima era sopportabile, tanto che ero riuscito ad accompagnare Mendoza in ospedale e tornare a casa, ma adesso era aumentato. Mi sono appoggiato al bancone e ho cercato di farla riposare un po’. Non volevo andare ancora dal dottore. Avrebbe soltanto rallentato i tempi del mio congedo. Mi avrebbero fatto operare di nuovo, mandando a puttane i miei piani, mi avrebbero prescritto altre medicine e mi sarei ritrovato a fissare il muro per ore, di nuovo.
Ma a volte faceva veramente male.
Ho lanciato un’altra occhiata alla pizza surgelata nel microonde. Il formaggio si era indurito e bruciato, sciogliendosi sul cartone. A quel punto ero così affamato che avrei mangiato anche quello. Avevo mangiato di peggio. Tutto sommato, tra i cibi precotti, la pizza era di alto livello.
Mancavano ancora un minuto e dodici secondi. Da soldato, avrei potuto fare tante cose in settantadue secondi. Ho reclinato la testa all’indietro e ho chiuso gli occhi. Ho sentito le esplosioni dei missili in lontananza un secondo dopo averli chiusi. A volte le esplosioni mi confortavano. Questa era una di quelle volte. Alcune cose della vita militare mi sarebbero mancate. La routine e l’adrenalina, per esempio. Non ero il tipo da BMX e arrampicata, ma di tanto in tanto avevo nostalgia del battito accelerato del mio cuore quando correvo per sfuggire ai proiettili.
Il microonde ha suonato, facendomi sobbalzare. Cazzo, ho pensato, sto già perdendo il controllo. Mi sono sporto per controllare che Fischer fosse ancora sul divano, impegnato a chattare con chissà chi. Speravo almeno che non fosse sposata, stavolta. Austin aveva davvero bisogno di qualcosa che lo mettesse in riga, e l’esercito poteva essergli d’aiuto. A me la vita militare aveva insegnato l’autocontrollo. Sapevo cosa dovevo fare ed esattamente quando. C’era ordine, c’era un obiettivo. A differenza del mondo esterno, dove una gomma bucata può costarti il lavoro e la stragrande maggioranza delle persone non ha accesso all’assistenza sanitaria.
La partenza di Fischer avrebbe mandato fuori di testa sua sorella, lo sapevo. Io non ci sarei stato, quindi almeno la mia faccia non le avrebbe ricordato tutte le cose sbagliate della sua vita. Non ero d’accordo con lei, ma non dipendeva da me. Ero diventato il cattivo di quella storia, per lei ero come Rowan Pope in Scandal, la serie tv che sorprendevo Karina a guardare ogni volta che andavo da lei. Ripensare al suo salotto mi ha rammentato che dovevo andarmene da lì appena avessi potuto salire sul mio Bronco e guidare fino ad Atlanta. Non potevo certo rischiare di trovare una ragione per restare.
Potevo concedermi qualche mese. Avevo delle cose da fare per cercare di recuperare parte dei miei soldi. Per esempio, levigare il legno del bancone che mi pizzicava il braccio mentre cercavo una posizione comoda per spostare il peso dalla mia gamba malandata. Entro qualche giorno avrei sistemato sia questo sia quello dell’altro lato della villa. Secondo il mio contatto al mercatino dell’usato, la settimana seguente gli sarebbe arrivata una partita di almeno dieci lastre di marmo. Il lavoro manuale stava diventando sempre più difficile ultimamente, per via del dolore alla gamba. Ero stremato, ma non potevo fermarmi. Poter contare su Fischer mi era di grande aiuto. Non c’era tempo per riposarsi, non riuscivo a scrollarmi di dosso la sensazione che stavo correndo verso una meta o di essere inseguito. Dall’esercito, da nemici con le pistole fissate a una cinghia sul petto che gridano in lingue che ho appena iniziato a capire, dal padre di Karina e Austin, dai miei problemi. Sapevo che la causa principale era la guerra, e che quella sensazione non sarebbe mai andata via. Il disturbo post-traumatico da stress è così. Sarebbe stata parte di me, di tutti noi. Per sempre.
Almeno mi ero liberato di un peso. L’arruolamento di Austin. Non volevo che Karina lo scoprisse in quel modo, certo, ma mi ero tolto un macigno dal petto, a prescindere dalle conseguenze.
I segreti di Fischer le avevano fatto perdere la fiducia che aveva in me, così se n’era andata. Prima o poi sarebbe successo comunque, suo fratello mi aveva avvertito. Non si avvicinava a nessuno, non si sarebbe mai fidata di me, né di nessun altro. Pensavo che sarebbe passato più tempo prima di rivederla, e se fosse stato per me non avrei voluto vederla mai più, ma ormai l’avevo imparato, le cose fuori dall’esercito non andavano mai come volevo.
L’ultimo posto al mondo in cui mi aspettavo di incontrarla era l’ospedale. Quando l’ho vista, sono andato nel panico. Temevo che le fosse successo qualcosa, che fosse ferita. E, appena ho appurato che stava bene, mi sono chiuso a riccio. Non volevo che notasse la preoccupazione nei miei occhi o la paura nella mia voce. Ho spento le emozioni subito dopo essermi concesso un istante di sollievo. Poi, tutto il resto è sparito. Per fortuna, anche Elodie stava bene e Austin non aveva fatto una delle sue cazzate. Meno male: l’ultima cosa di cui Karina aveva bisogno era angustiarsi per gli errori e le scelte di vita del fratello, visto che riusciva a malapena a gestire le proprie.
Era lì, davanti a me, sentivo i suoi occhi verdi che mi bruciavano la pelle. Percepivo il suo desiderio di essere guardata, ma non potevo farlo, se non quando lei ha distolto gli occhi. Ho notato la sua leggera aria di sfida, come se aspettasse che fossi io a parlare per primo, a scusarmi o a cercare di giustificarmi. Non sarebbe successo, ma mi stava mettendo alla prova. Era quello che voleva. Lo sentivo.
Pensare a lei mi provocava un’eccitazione che ormai poche cose riuscivano ad accendere. La mia mente e il mio corpo reagivano alla sua presenza al di fuori di ogni controllo, e non vedevo come la cosa potesse cambiare. Di certo non era salutare, ed ero sicuro che, se avessi sottoposto la questione a uno dei miei psicologi, avrei avuto tutta la sua disapprovazione, ma lei mi dava una sorta di ebbrezza, era come una droga. Una sensazione che solo la sua vicinanza e la paura della morte mi facevano provare. Negli ultimi tempi, mi sentivo insensibile a quasi tutto il resto.
Perché mi ero cacciato in un guaio simile? Le donne avrebbero dovuto essere il mio ultimo pensiero. Al momento, non potevo permettermi di lanciarmi in una relazione o fare promesse. L’unica cosa di cui dovevo preoccuparmi era uscire da quel buco infernale. E in fretta. Senza legami. Forse, se me lo fossi ripetuto abbastanza spesso, avrei finito per crederci.
Ero stremato dalla giornata, fisicamente e mentalmente, ma dovevo stare sveglio almeno un’altra ora. Potevo farcela. È una cosa da soldati, raggiungere una tale sintonia con il proprio corpo da sapere sempre esattamente dov’è il limite. Dalla pulsazione sopra la rotula a quella alle tempie, era tutto sotto controllo. Pensai alla scala del dolore da uno a dieci, quella che usavano medici e specialisti. Per adesso era un sei, forte, mentre il dieci corrispondeva a un dolore insopportabile.
Soffrivo, certo, ma un po’ di fastidio al ginocchio e le crisi di Mendoza non erano nulla in confronto a quello che avevo visto oltreoceano. Il suono dei razzi che fendevano l’aria e detonavano nel nostro campo base era ancora vivido nella mia memoria, come se fosse appena successo. L’immagine delle travi di metallo che cadevano come fulmini e il dolore di quando mi avevano colpito la gamba spezzandomi le ossa erano nitidi, ma impallidivano rispetto al ricordo del fuoco che lambiva la mia pelle mentre aspettavo che qualcuno venisse a tirarmi fuori dall’accampamento in fiamme. E i mezzi militari incendiati...
Austin ha gridato: «Amico, sei ancora vivo? Cazzo, sei lì dentro da dieci minuti. Che stai facendo? Mi presti qualcosa da mangiare?»
Sono tornato alla realtà della mia casa, il più lontano possibile dal fuoco e dalla morte. Fisicamente, almeno. La mia mente avrebbe continuato a bruciare, come sempre.
«Non è un prestito se non puoi restituirlo!» ho urlato in risposta, tenendo gli occhi chiusi e cercando di respirare normalmente.
Ho fatto ruotare il collo e ho sentito il solito fastidio. Le mani esperte di Karina avrebbero saputo esattamente come trattare i miei muscoli doloranti. Karina, Karina, Karina: trovava sempre il modo di insinuarsi tra i miei pensieri.
«Ehi, ti ripagherò alla fine dell’addestramento.» Parlava più piano adesso, e quando ho aperto gli occhi me lo sono ritrovato in cucina. Austin e io ci prendevamo in giro come due veri compagni di battaglia. Si sarebbe abituato subito ai continui scambi di battute e sfottò della vita militare. Era parte integrante dello stile di vita. Chi non sapeva stare agli scherzi se la passava peggio, a prescindere da quanto fossero pesanti le battute, che la maggior parte delle volte lo erano decisamente parecchio e sarebbero state considerate inappropriate in ogni altro ambiente di lavoro.
«Così rischi di fumarti il primo stipendio senza averlo ancora guadagnato. Vedrai, appena ricevono l’assegno, tutti si metteranno a bere e comprare sneakers trendy e altre idiozie su internet. Cerca di essere più sveglio di loro. Se proprio senti il bisogno di spendere subito quei soldi, dai un anticipo per una macchina.»
«Ma sentilo, Mister Responsabilità», mi ha preso in giro. «Risparmiare non è difficile. Mi pagheranno ogni due settimane, quindi basterà metter via un po’ di soldi ogni volta.»
Sono scoppiato a ridere. Lo pensava davvero. Avevo sentito tanti ragazzi, e anche uomini, dire la stessa cosa. Prima. Nel giro di un anno avremmo visto quanto aveva risparmiato, e quanto doveva ai negozi di mobili a noleggio. Se mi sbagliavo, sarei stato ben contento di rimangiarmi tutto.
«Lo pensano tutti. Ma può rivelarsi difficile quando ti esplode uno pneumatico o la bolletta della luce è troppo alta.» Ho riso. «Ah, giusto, tu non hai né una macchina né una casa.»
«Ma quanto sei simpatico.» Ha aperto il freezer e ha arraffato un piatto pronto, poi si è servito una birra dal frigorifero.
Non aveva l’età legale per bere, ma anche io l’avevo passata da poco eppure ero già stato in guerra due volte.
Fischer ha agitato la bottiglia nella mia direzione. «Ne vuoi una?»
Ho deciso in una manciata di secondi. «Ma sì, cazzo.»
Forse mi avrebbe aiutato ad allentare la tensione e ad anestetizzarmi. In realtà mi sarebbe servito qualcosa di più forte, ma mi sarei accontentato. Odiavo l’imprevedibilità del dolore, che andava e veniva come voleva. Le fiammate improvvise erano soltanto metà della battaglia. L’altra metà era starsene fermi abbastanza da lasciarle passare, il che per me era impossibile.
«Stai bene?» Austin ha rotto il silenzio della stanza. «Ho sentito suonare il microonde, ma non lo hai aperto», ha osservato, gettando un’occhiata all’elettrodomestico.
«Sì.» La mia voce era roca. Mi sono schiarito la gola e ho posato la bottiglia vuota sul bancone. Non avevo intenzione di dirgli che ero in una delle mie fasi di amore e odio per sua sorella. Così ho azionato in fretta il cervello e ho mentito.
«Stavo pensando a Mendoza e Gloria. Non vorrei riferire al nostro capoplotone cosa sta succedendo, ma tra poco non avrò scelta.»
Non mi ero mai rivolto al capoplotone, ma Mendoza non stava migliorando, e ormai avevo capito che poteva solo peggiorare. Il suo disturbo post-traumatico da stress era così fuori dal suo controllo che iniziava a sfuggire anche al mio. Cercavo di aiutarlo ogni giorno, tutto il giorno, ma l’ultimo episodio aveva dimostrato che, per quanto tempo passassi con lui, per quanto tenessi gli occhi aperti, di fatto il suo trauma non era guarito. Scattava sempre più spesso.
«Almeno nessuno si è fatto male», ha detto Fischer con espressione preoccupata. I suoi occhi erano quasi dello stesso colore di quelli della sorella. Al diavolo sua sorella. Mendoza era la mia priorità.
Mendoza si è fatto male. Si sta facendo del male.
«Sì», ho detto in un sussurro.
Avrei voluto poterne parlare con Fischer, proprio come avrei voluto poterlo fare con Karina. Invece mi sono limitato ad annuire. Non era pronto a conoscere i risvolti più oscuri del consacrare la propria vita al bene superiore del proprio Paese, e speravo che superasse il periodo di addestramento senza mai dover scoprire le clausole scritte in piccolo nel contratto che aveva firmato. Sarebbe stato troppo pesante per lui, e non avrebbe aiutato il suo morale di nuova leva. Avrebbe già dovuto impegnarsi per sopravvivere, e non volevo che vedesse Mendoza come un esempio.
Sua sorella avrebbe capito. Avrebbe provato pena per il mio compagno perduto e la sua famiglia. Tagliavo sempre corto quando mi chiedeva di lui, il che faceva di me un grande ipocrita, ma, se mai l’avessi rivista, le avrei detto tutto quello che voleva sapere. La sua saggezza mi sarebbe stata utile. Continuavo a contraddirmi ogni volta che pensavo a lei.
Ho spostato il peso da un braccio all’altro perché non si intorpidisse, sempre reggendomi al ripiano della cucina. Speravo di poter tornare nella mia stanza senza che Fischer si accorgesse che c’era qualcosa che non andava. Ormai ero un fenomeno a nascondere il dolore. I suoi occhi si sono posati sulle mie braccia e sono scesi fino alle gambe. Sapevo che Fischer non avrebbe dato troppa importanza alle mie ferite. Ma non volevo la pietà né i consigli di nessuno, e di sicuro non volevo che lo dicesse a sua sorella o accennasse alla cosa in presenza di suo padre, prima che avessi portato il mio culo fuori dall’esercito. Dovevo superare indenne i prossimi step, senza vedere un dottore, in modo da poter uscire e andare all’ospedale dei veterani una volta ottenuto il congedo.
«Stai bene?» ha chiesto di nuovo.
Mi sono guardato le gambe e sono riuscito a ridere. «Sì, tutto bene.»
«Non sembra», ha risposto.
Ho allungato la gamba dolorante. Il compito dei medici dell’esercito era aggiustarmi quel tanto che bastava per rispedirmi in una guerra che sarebbe già dovuta finire anni prima. Il loro lavoro non era assicurarsi che stessi guarendo bene, ma che lo stessi facendo in fretta. A loro era richiesto di accelerare il processo per risparmiare soldi, tempo e scartoffie. L’ospedale dei veterani era molto meglio, lì mi avrebbero trattato da essere umano. Avevo fatto le mie ricerche ed era così che volevo congedarmi, per non rinunciare a nessuno dei miei benefit e non andarmene con l’amaro in bocca dopo tutta la merda che avevo affrontato per il bene della «libertà».
«Cosa succederà a Mendoza se scoprono che è finito al pronto soccorso?» ha domandato Fischer, tracannando la sua birra.
«Oh, lo scopriranno eccome. Non sono sicuro di cosa faranno, dipende di che umore sono.»
«Sono così volubili?» ha chiesto, come se non fosse cresciuto da figlio di militare.
Ho annuito. «Non puoi sapere quanto.»
«Accidenti!» Si è grattato il mento. «Allora, hai deciso cosa farai dopo il congedo? Te ne vai sul serio?» Fischer si guardava intorno, in cucina. Era piena di materiali per la ristrutturazione. Scatole di pannelli per la pavimentazione, secchielli di pittura. Era un casino.
Ho annuito di nuovo. «Qui non c’è niente per me. Devo togliermi dai piedi. E in fretta. Parto appena riesco a firmare i documenti per il congedo. Non so ancora dove andrò. Atlanta, forse.»
«Se mi mandano in un posto figo, puoi venire con me. Spero di finire alle Hawaii.»
L’ha detto ridendo, tuttavia mi sono domandato se in fondo non ci sperasse davvero. Presto si sarebbe ritrovato con un gruppo di sconosciuti che sarebbero diventati fratelli prima di quanto potesse immaginare. Non avevamo servito insieme eppure sentivo un legame con lui, come se fossimo fratelli anche noi, ma non aveva senso legarsi troppo, visto che presto sarei partito e dovevo stare alla larga da sua sorella. Da qualunque cosa la riguardasse. Mi sarei continuato a preoccupare che potesse finire nei guai e lo avrei tenuto d’occhio, ma non mi sarei più sentito tanto responsabile. Non sarebbe più stato un mio problema. E nemmeno di sua sorella, speravo.
Ho fatto un mezzo cenno di assenso. «Vedremo, ti seguo soltanto se è un posto con il sole, case a buon mercato e meno pioggia.»
Le Hawaii mi sembravano abbastanza lontane dalla realtà per sognare con lui.
«Te lo dico: se mi spediscono a Fort Knox oppure a Fort Hood, mi incazzo di brutto.»
Non lo biasimavo, di sicuro non sarei andato a trovarlo né in Kentucky né in Texas.
«Mi incazzerò anch’io per te, nel caso. Potrebbero anche lasciarti qui.»
Fischer è scoppiato a ridere, facendo tintinnare la sua bottiglia contro la mia, ormai vuota. «Karina ne sarebbe entusiasta.»
A sentire il suo nome, ho aperto il frigo e ho preso un’altra bottiglia.
«Scusa. Cerco di non parlare di lei.» Anche Austin ne ha presa una seconda.
«Come sta?» Non ero a mio agio a discutere di Karina con lui, ma era la fonte più vicina a lei e la curiosità ha avuto il sopravvento.
Lui mi ha guardato per un secondo. Aveva la faccia da ragazzino bianco viziato che la passa sempre liscia, qualunque cosa faccia. Il tipo di persona che di norma non avrei sopportato, ma non era prevedibile come sembrava, e in realtà mi andava a genio più di tanti altri. Mi piacevano il suo buon cuore e la sua leggerezza.
«L’ho vista ieri per la prima volta da quando lo ha scoperto. Sta bene, immagino. Ce l’ha a morte con entrambi, al momento.» Ha fatto spallucce. «Ma c’era da aspettarselo. Alla fine sarà felice per me. Spero. Ormai non può fare altro.»
Si è leccato le labbra e ha bevuto un sorso di birra. Ho tirato fuori la pizza dal microonde, bruciandomi i polpastrelli. Lui ci ha infilato il suo piatto.
«È una che se la lega al dito, eh?» gli ho chiesto. Conoscevo già la risposta, ma volevo sentirla da lui, così forse il mio maledetto cervello se ne sarebbe fatto una ragione.
Austin ha annuito. «Puoi scommetterci. E si ricorda tutto, quindi, anche quando pensi di essertela cavata, tira fuori accuse ad anni di distanza, tipo ‘quella volta che mi hai presa a calci quando avevamo dodici anni’.» È scoppiato a ridere, ma a me sfuggiva l’ironia.
Mi avrebbe odiato per sempre per averle mentito. Lo sapevo, però non avevo ancora incassato il colpo. Mi avrebbe considerato un bugiardo finché campavo. Avevo mentito più di una volta, e non me lo avrebbe mai perdonato. Anche prima di quella mega bugia si fidava a malapena, quindi non c’era speranza che riuscissi a rientrare nelle sue grazie. Merda. Ma lo avevo accettato. Stavo pensando a lei solo perché il suo gemello era nella mia cucina.
«Martin», ha proseguito lui, a voce bassa, come per mettermi in guardia. «Te lo dico perché ti voglio bene, fratello: lei non ti perdonerà. Non so quanto fossero serie le cose tra voi e non voglio saperlo.» Sembrava più adulto di quello che era. Le luci della cucina hanno tremolato come per una sorta di presagio. Ha continuato a parlare gesticolando, mentre io cercavo di assimilare le sue parole. La sua onestà mi ha colto alla sprovvista. «Ma i nostri genitori l’hanno rovinata. E anche me, ovviamente...» Ha sorriso. «Però abbiamo affrontato le cose in modo molto diverso, e lei... be’, si chiude completamente e non voglio vederti provare e riprovare soltanto per fallire. Per il suo bene vorrei che non fosse così, ma non so se riuscirà mai ad avere una relazione normale con qualcuno. Io mi preoccupo per lei, ma tu non sentirti in colpa.»
Un’ondata di calore mi ha invaso il petto. «Non ti sembra di esagerare? Karina ha solo vent’anni e tu non mi sembri nella posizione di dare giudizi, visto che ti scopi le donne sposate.»
Il modo in cui mi ha guardato subito dopo mi ha fatto venire voglia di afferrarlo per la maglietta e sbatterlo contro il muro. Non l’ho fatto, ma ho stretto più forte la bottiglia.
«Ehi, ehi. Con chi scopo non sono affari tuoi, e posso parlare di mia sorella come voglio. Non la conosci nemmeno. Datti una calmata.»
Gli sono andate in fiamme le guance e stava alzando la voce.
«E tu credi di conoscerla, invece?» gli ho gridato. Ci stavamo sbraitando contro per una persona che non era neanche lì per intervenire. E che ci avrebbe coperti di insulti se fosse stata presente.
«No, infatti. È quello che sto cercando di dirti. Nemmeno tu potrai mai conoscerla davvero, e ti farà impazzire se ci provi o cerchi di farti perdonare. Io lo dico per te, per entrambi, ma se preferisci puoi ignorare i miei consigli e stare a vedere cosa succede. Sta punendo nostro padre dal giorno in cui nostra madre se n’è andata. E non molla.»
Ho sbuffato. Mi mandava in bestia che pensasse di potermi parlare in quel modo, ma era vero che conosceva Karina meglio di me, anche se una parte di me era convinta del contrario e si illudeva che fosse lui a non conoscerla.
«Come se tuo padre non se lo meritasse.»
Mi ha guardato.
«Cosa sai che io non so?» ha chiesto.
Siamo rimasti a fissarci. Non volevo aprire quell’argomento. Non potevo. Anche se Karina non mi avesse mai più rivolto la parola, mi aveva confessato cose che non avrei mai riferito a nessuno, nemmeno a suo fratello.
«Al diavolo! Non parliamone più», ho tagliato corto, passandomi una mano sulla testa rasata. «E comunque, forse andrò ad Atlanta prima del previsto. Potrei accelerare i lavori della casa che ho comprato lì e sperare di farci abbastanza soldi per comprarne magari un’altra nella mia città natale. Là gli immobili costano molto meno che in una grande città come Atlanta. Prima ripago il mio mutuo per la villetta bifamiliare, prima me ne concederanno un altro.»
Il profitto non sarebbe stato altissimo all’inizio, ma da qualche parte dovevo pur cominciare, e poi era praticamente impossibile che rifiutassero un mutuo a un veterano. Come è giusto che sia. Servire il tuo Paese dovrebbe almeno assicurarti il privilegio di possedere una casa tutta tua.
«Ehi, almeno hai dei progetti e un posto dove vivere. Io non ho nemmeno una città. Sono senza lavoro e senza casa», ha ribattuto Fischer. Non si stava lamentando, la sua era solo una constatazione.
Fischer era una contraddizione vivente, il ragazzo più sicuro di sé e al tempo stesso più insicuro che avessi mai incontrato.
«Non ti hanno mai detto che non ci si dovrebbe paragonare agli altri?» ho ironizzato.
«Sì, penso di averlo letto su una maglietta, da qualche parte.»
«Ehi, almeno tu hai un padre.»
Ha riso. «Giusto. Ma non una madre.»
«Merda.»
Abbiamo sorriso entrambi. Quantomeno riuscivamo a scherzare sulla dura realtà delle nostre vite. Era rassicurante sapere che tutti avevano dei problemi che influenzavano il loro modo di agire e che facevano fatica ad affrontare. Parlare con leggerezza di cose che non potevamo controllare era una valvola di sfogo. Dovevamo averne almeno una.
«Tu hai tua sorella.»
Il mio tono si era fatto più serio. Mi sentivo teso solo a pronunciare il suo nome. La seconda birra di Austin era quasi finita.
«A stento mi parla. Ha provato a buttarmi fuori di casa, quando sono andato da lei. Alla fine mi ha fatto restare lì per farmi una doccia e una dormita, ma, come ti ho già detto più volte, ha una rara capacità di portare rancore.»
L’ho fissato, ma la mia bocca è stata più veloce del cervello. «Verso chi? Verso vostra madre che vi ha abbandonati o vostro padre che si comporta come se non gli importasse un accidente di lei?»
«Verso entrambi, ma non solo. Ce l’ha con me, e persino con te!» Mi ha indicato. «Adesso sei tu a farne le spese. Ti ho chiesto io di non dirle niente, e forse non ti perdonerà mai. Con me deve parlare per forza, abbiamo condiviso un utero. Ma dico sul serio, non mi sorprenderebbe se ti cancellasse per sempre dalla sua vita. Quindi, ripeto, mia sorella non è una di quelle donne a cui basta fare un sorriso per sperare che si dimentichino la stronzata che hai fatto.»
A quanto pareva, io e Karina avevamo la stessa strategia di adattamento.
«Pensavo fossimo d’accordo di smettere di parlare di tua sorella.» Mi sono massaggiato le tempie con la mano libera. La seconda bottiglia di birra era ancora mezza piena, pateticamente in attesa sul ripiano.
«Sei stato tu a tirare fuori l’argomento, ma sì, per carità, basta. Parliamo di cosa cazzo c’è ad Atlanta che ti piace tanto. Non ci vado da anni.» Dalla faccia che ha fatto, pareva che gli si fosse accesa una lampadina in testa. «Dovremmo andarci per il mio compleanno, a fine mese compio ventun anni. O lì o da qualche altra parte. Stanno organizzando un campeggio, mi sembra, mi è arrivato un messaggio.»
«Be’, per cominciare ci stanno girando un sacco di film, per questioni relative ai crediti d’imposta, per questo volevo andarci prima che i prezzi delle case si impennino. E poi c’è sempre qualcosa da fare. Non è una noia mortale come qui», ho aggiunto, sventolando la bottiglia in aria. «E il cibo... Niente che si trovi qui regge il confronto. Comunque per me niente campeggio.» Avevo deciso appena i ragazzi del plotone avevano iniziato a parlarne.
«E dai!» Austin ha roteato gli occhi.
Non ero stato in tanti posti e non si poteva certo dire che fossi un esperto di cucina. Ero curioso e provavo sempre cose diverse, se ne avevo l’occasione, ma viaggiavo solo dove mi mandava l’esercito e le missioni militari non erano esattamente una gita di piacere. Ero stato in Germania una volta, ma non ero nemmeno uscito dall’aeroporto. Avevo mangiato un Bretzel e un sacchetto di M&M’s.
«Non ci ho capito niente finché non hai parlato di cibo», ha sorriso Austin, occhieggiando quello nel microonde. «Ma com’è che te ne intendi di mercato immobiliare?»
Ho riso, muovendo di nuovo le braccia sul ripiano. «Immagina cosa potresti fare se non perdessi il tuo tempo dietro a ragazze come Katie o ai videogiochi.»
Lui ha ridacchiato, ha sollevato la bottiglia e ha tracannato il resto della birra.
«Dopo l’addestramento, penso che sarò più simile a te. Più adulto e tutto il resto.» Ha preso un’altra birra dal frigo e l’ha aperta con la fibbia della cintura. «Per il momento, però, ho intenzione di godermi ogni goccia di libertà, finché dura.»
Ho annuito, chiedendomi se sapesse quanta poca ne avrebbe avuta in futuro.
Abbiamo fatto tintinnare le bottiglie e abbiamo bevuto entrambi un sorso. La birra era così fredda che mi ha fatto male ai denti. Non mi ero ancora riabituato ad avere un frigorifero a disposizione.
Quando il microonde ha suonato, ho tolto la sottile pellicola che copriva il contenitore di Austin e ho mescolato il cibo con la forchetta. Il profumino mi ricordava quello di casa di mia madre la domenica, quando ero bambino e tutti i miei cugini e le mie zie venivano da noi per l’arrosto e passavamo la giornata a inseguirci in giardino. Ne ho assaggiato un boccone e ho chiuso gli occhi. O stavo ancora morendo di fame, o era veramente buono.
«Hai già pensato al tuo ultimo pasto?» ho chiesto a Fischer.
Lui ha alzato gli occhi dal cellulare.
«Devo pensarci? Non vado mica in prigione.»
Non ho risposto.
«Comunque no, non ancora. Forse una pizza gigante. E poi birra. Un sacco di birra.» Aveva biascicato l’ultima parte della frase. Era irrequieto, agitato, non riusciva a stare fermo.
«Stai bene?» ho chiesto, accennando con la testa alla bottiglia che teneva in mano.
Ha annuito con convinzione. L’ho osservato. Mi ci è voluto un momento per provare a valutare il suo grado di sobrietà. Ma in fondo cosa importava? Non aveva niente da fare l’indomani.
«Non sono ubriaco, purtroppo. Spero che Karina smetta di essere incazzata con me.» Poi la sua voce si è abbassata, come se si fosse pentito. «Scusa, non volevo parlare di lei. Di nuovo.»
Mi sono passato una mano sulla bocca, stropicciandomi il mento. «Non fa niente, succede.» Mi sono scrollato di dosso il pensiero di lei. O almeno ci ho provato. «Be’, le hai mentito», ho aggiunto.
«Le abbiamo mentito», ha puntualizzato, portandosi la bottiglia alle labbra.
«Sì, lo so, ma tu sei suo fratello e tu le avevi promesso di non arruolarti, non io. Gliel’ho tenuto nascosto solo perché era giusto che fossi tu a dirglielo.»
Mentre parlavo, ho sentito che iniziava a montarmi di nuovo la collera. Avevo dovuto mentirle per dare a lui il tempo di aspettare, da vigliacco quale era, il momento giusto per informare sua sorella dei suoi piani. L’avevo baciata, mentre le mentivo. Avevo tentato di conquistare la sua fiducia, mentre le mentivo. Ecco che cosa avevo fatto.
«Lo so, ma non capisce. Credi ancora che abbia fatto la cosa giusta, vero?»
Ho annuito, pensando alla confezione vuota di pillole che gli avevo trovato in tasca quando era conciato così male che non si era svegliato nemmeno mentre lo trascinavo dal giardino in casa. Non ero ancora riuscito a scoprire chi lo avesse riaccompagnato. Avevo mentito a Karina anche nascondendole quell’episodio. Evidentemente lo facevo spesso, anche se non di proposito.
«E tu? Sei convinto di aver fatto la scelta giusta? È questa la vera domanda, Fischer.» Ho alzato le sopracciglia, mettendo in dubbio le sue parole.
«Non lo so ancora. Be’, di sicuro ho sbagliato a mentirle. È stato stupido e ha soltanto peggiorato tutto.»
«Sì, direi.» Le aveva dato una scusa per scappare da me. Era brava a scappare. Era una delle abitudini in cui trovava conforto.
«Se fossi in te», ha ripreso lui, «non insisterei per farmi perdonare. È una cosa che detesta. Puoi chiederlo a tutti quelli che la conoscono.»
A quanto pareva, però, nessuno la conosceva davvero. Io mi ero avvicinato ma, a ogni mio passo in avanti, lei ne faceva uno indietro, per prepararsi alla fuga.
«Non lo farò, ho una marea di altre cose di cui preoccuparmi.»
Mi ha fatto una smorfia.
Le nostre conversazioni su Karina erano a senso unico; in genere le sfruttavo per raccogliere più informazioni possibile su di lei. Volevo capire perché continuava a ossessionarmi. Dovevo svelare il mistero. Anche se ormai era un fantasma nella mia vita, non riuscivo a togliermela dalla testa.
«Non penso che le cose tra voi avrebbero funzionato, comunque. A volte può essere difficile da gestire e ha bisogno di un uomo che possa darle equilibrio. E poi è timida con i ragazzi. Non è mai stata con nessuno a parte Brien, che era un coglione.»
Era complicato stare al passo con Karina in una conversazione, sia intellettualmente sia emotivamente. Non diceva mai quello che mi aspettavo e mi teneva sempre sul filo del rasoio. Con i suoi giochetti mentali e le sue saccenti spiegazioni su qualunque argomento al mondo. Aveva ragione e torto allo stesso tempo, era fuoco e ghiaccio. Aveva mappato le vie di fuga ben prima di incontrarmi. In effetti era difficile da gestire, ma chissà se Austin si rendeva conto di quanto era ironico che fosse proprio lui a dirlo. La timidezza non c’entra niente con il suo modo di essere. Discreta, forse, ma non timida. Fischer non l’aveva mai vista come l’avevo vista io, non l’aveva conosciuta come l’avevo conosciuta io. Ovviamente.
Non è timida, è chiusa perché non si fida di nessuno. Non volevo dirlo ad Austin, non volevo esporre nemmeno una minima parte di lei – stava a lei decidere cosa mostrare e cosa nascondere –, quindi dovevo pensare bene a come avrei risposto.
«Ci sono un milione di motivi per cui poteva finire tra noi, quindi smettila di pensarci e di spiegarmi le tue teorie del cazzo su tua sorella.»
Mi sono rimesso dritto, riportando parte del peso del corpo sulla gamba.
«Okay», ha detto Fischer, con la bocca piena di stufato di manzo. «Ma anche tu devi smettere di pensare a lei... sarà almeno la terza volta che ripetiamo che dobbiamo cambiare argomento. E comunque dovresti ripensarci, sul campeggio», ha insistito.
Ho scosso la testa.
«Mi è bastato campeggiare con loro in Afghanistan, ti ringrazio. E, se ci aggiungi l’alcol e le ragazze, può solo essere peggio.»
Ha sorriso. «L’alcol e le ragazze non possono peggiorare niente.»