9
«CONOSCI bene Mendoza?» ho chiesto ad Austin mentre attraversavamo il parcheggio.
La pioggia si era fermata, ma ero sicura che sarebbe ricominciata. Il cielo era del colore di una roccia di fiume. Quel colore era riuscito ad attenuare lo choc dell’incontro con Kael, che ora si stava trasformando in rabbia. Ho aperto la portiera e sono salita a bordo. Stringevo in mano il freddo metallo delle chiavi, ma non ero ancora pronta ad andare. Anche se in genere preferivo evitare le discussioni e fingere che i problemi non esistessero, stavolta volevo delle risposte.
«Piuttosto bene, direi.» Ha scrollato le spalle. «Non bene quanto Martin, ovviamente, ma siamo abbastanza in confidenza.» Austin ha abbassato il finestrino, facendo entrare l’aria fresca e umida nell’abitacolo. Era una sensazione piacevole.
«Cosa pensi che gli sia successo?» Ho fatto una pausa. «A Mendoza?»
«Intendi in generale? O adesso?»
«Entrambe.»
«Adesso, non sono sicuro. Avrà fatto a cazzotti con qualcuno, oppure non so. E in generale, be’... soffre di un forte disturbo post-traumatico da stress. Loro sì che ne hanno vista di merda, laggiù.» Ha usato il plurale, quindi si riferiva anche a Kael. Ero contenta che non avesse fatto il suo nome. Avrebbe reso più intenso il freddo che mi ammantava la pelle.
Si è passato le dita tra i capelli color sabbia, che arrivavano quasi a sfiorargli le orecchie. Lunghi, per i suoi standard. Tanto, però, presto glieli avrebbero rasati.
«Mendoza è davvero fuori di testa, ultimamente. L’ho visto in questo stato da quando sono in città, ma Martin sostiene che sia peggiorato da prima che io tornassi dalla Carolina del Sud. Sta passando davvero un brutto momento. Dicono tutti che la moglie lo pianterà se non si dà una regolata, ma è dura per lui. È messo piuttosto male, ma cosa può farci? Se ne parla con qualcuno, lo rinchiuderanno chissà dove... E se invece si tiene tutto dentro, per provare a resistere continuerà a fare cazzate come questa.» Austin mi sembrava più maturo di quanto non fosse mai stato in tutta la nostra esistenza. Forse era davvero pronto alla vita militare, dopotutto?
«Quante missioni ha fatto? Stavolta è tornato con Kael, no?» gli ho chiesto.
Mio fratello pareva saperne più di me su tutti loro. A volte facevo confusione con le missioni, con i loro cognomi e casini, e non si poteva certo dire che Kael fosse stato un libro aperto durante la nostra breve relazione. Non gli piaceva parlare dell’esercito né di quello che aveva fatto o visto. Eppure, a pensarci bene, io avevo scritto un intero romanzo sulla mia vita, solo e soltanto per lui. Sarebbe stato carino, da parte sua, farmi avere almeno un manuale di istruzioni come regalo d’addio. Invece non ero riuscita nemmeno a ottenere che mi guardasse negli occhi per più di un secondo.
«Sì, Mendoza e Martin sono stati rimandati a casa insieme perché erano messi male. Le ferite di Phillips erano meno gravi, immagino, ma ho sentito che era con loro quando la jeep ha preso fuoco.» Austin si è fermato per tossire.
«Fumi ancora?» l’ho redarguito.
«Shhh. Comunque Phillips non lo conosco bene, ma era il compagno di battaglia di Kael.»
Ho sospirato. Austin stava già entrando in modalità soldato. Ho avviato il motore, sono uscita in strada e ho acceso la radio.
«Compagno di battaglia? Vedo che hai già imparato il gergo... E poi, scusami, si chiama Phillip di nome e Phillips di cognome?»
Austin è scoppiato a ridere. «Conosco queste espressioni fin da quando eravamo piccoli, dovresti ricordartele anche tu, no? E sì, si chiama Phillip Phillips», ha ridacchiato di nuovo. «Come quella ragazza del nostro liceo, Kristy Kristie.»
Ho sorriso. Austin ha abbassato il volume così tanto che non riuscivo più a sentire la radio.
«Oddio, povera Elodie», ho ironizzato. «E invece, Mendoza, perché è stato rimandato a casa? È rimasto ferito o è solo per il disturbo post-traumatico da stress?»
«Non direi solo per il disturbo post-traumatico da stress. I traumi mentali possono essere molto peggio di quelli fisici, sai...» Ha preso una sigaretta elettronica dalla tasca e ha fatto un tiro. L’abitacolo della macchina si è riempito di vapore.
«Ehi!» Ho abbassato anche il mio finestrino.
«Ho smesso con le sigarette normali, dovresti essere orgogliosa.»
Ho sospirato. «Lo sono, ma continui a fumare.»
«E comunque perché ti interessa tanto la storia di Mendoza?» ha chiesto, umettandosi le labbra.
«È solo...» Mi sono sforzata di pensare a una risposta che fosse un buon compromesso tra una bugia e la verità. «Sono curiosa, visto che ora sono amici tuoi.»
«Kare, possono andare storte un sacco di cose se sei un soldato. Se cerchi rogne, le troverai, puoi starne certa. Ma, in generale, essere nell’esercito ti semplifica la vita: hai un alloggio, pasti caldi tutti i giorni. Vorrei che ti concentrassi sui lati positivi invece di tormentarti con quelli negativi.»
Così quella sarebbe stata la nostra nuova dinamica: io divisa a metà, che non sapevo cosa provare. Affinché Austin continuasse a parlare apertamente con me, dovevo accettare la sua decisione e sperare per il meglio, ma ero arrabbiata. Per quanto mi impegnassi, non potevo farci niente.
«Te lo chiedo perché voglio sapere se sta bene. Sono preoccupata per Mendoza. So che Kael corre sempre in suo aiuto quando si trova in difficoltà o ha bisogno di qualcuno che lo convinca a non buttarsi giù dal balcone. E se la moglie lo lascia», ho fatto una pausa per mandare giù il groppo che mi si era formato in gola, «sarà terribile.»
«Sì, perderebbe la testa se Gloria se ne andasse. Spero che non lo faccia. Hanno tre figli, e nessuno sa prenderlo come lei. A parte Martin.»
Ho sentito gli occhi di Austin su di me, ma ho tenuto i miei fissi sulla strada.
«Può essere molto difficile. Questo stile di vita, intendo. Noi ci siamo cresciuti, lo capiamo bene», ha proseguito. «Ma la ferma obbligatoria dura solo per tre anni, poi avrò i soldi per il college e un posto dove vivere. Potrò comprarmi una macchina. Quindi smettila di preoccuparti per me. Mi dispiace che sia andata così e, se potessi tornare indietro, te lo direi nei tempi e con i modi giusti, ma ormai la decisione è presa.»
Non mi andava di litigare con lui. Ero triste e arrabbiata, e stavo ancora pensando a Mendoza e a quanto Kael fosse coinvolto nella sua vita.
«Capisco la tua opinione sulla vita militare, davvero, e in parte la condividevo, lo sai. Ma non ho comunque i soldi per studiare», ha continuato.
Allora gli ho ricordato: «Avevamo entrambi una borsa di studio. Io la mia l’ho usata».
Lui ha alzato gli occhi al cielo e si è appoggiato allo schienale. «Sì, lo so, ma tu sei più intelligente di me. Io non sono buono a stare sui libri, sono il casinista della famiglia. Quello che si è fatto arrestare una volta e...»
«Quasi due. Hai fatto arrestare e aggredire Kael.»
«Quella non è stata colpa mia!»
«Il fatto in sé forse no, ma era colpa tua se eravamo in quel posto. Per salvarti il culo.»
Austin ha alzato le mani. «E va bene, mi dispiace. Ma non potevo restare a guardare mentre una ragazza veniva minacciata e maltrattata dal fidanzato.»
Nei miei ricordi i volti dei giovani agenti della polizia militare erano sfocati, ma la scena di loro che estraevano i manganelli prima ancora di porre una qualsiasi domanda era chiara come il sole. La voce di Kael riecheggiava ancora nella mia mente: Ecco cosa succede quando addestri la gente a uccidere e non a contenere.
Kael aveva cercato di aiutare Austin, ma era stato subito preso di mira.
«Mi sono già scusato cento volte. Senti, Kare, sto facendo quello che posso, okay? E sì, continuo a fare cazzate, ma va molto meglio di quando vivevo con zio Mike, devi ammetterlo.»
Ho accelerato nella corsia di sorpasso e mi sono sforzata di credere alle parole di mio fratello.
«Devi imparare a prendere le cose in maniera diversa, Kare. Sul serio. So che sei arrabbiata perché non te l’avevo detto e lo hai scoperto in un modo del cazzo, ma non siamo più dei bambini e non posso mantenere promesse fatte prima che potessi immaginare come sarebbe stata la mia vita.»
«Questo lo capisco, ma quella che hai intrapreso è una strada senza ritorno. E Kael ti ha aiutato tenendomi all’oscuro di tutto. Io ero convinta di potermi fidare di lui...»
«Karina, tu non ti fidi di nessuno. Non prendiamoci in giro. La cosa che ti dà davvero fastidio è che lui sia coinvolto», è sbottato Austin, aggrottando le sopracciglia e portandosi di nuovo la sigaretta alle labbra.
Poi ha proseguito. «Martin è un bravo ragazzo, te l’ho già detto e te lo ripeto. Si prende cura di noi. Di tutti noi. Hai visto come si comporta con Mendoza. Fa lo stesso anche con noialtri. È grazie a lui che ho avuto un bravo selezionatore, un suo amico. Non puoi punirlo per questo. So che stai cercando una ragione per odiarlo.»
«Dubito di aver bisogno di una ragione.»
Austin ha sbuffato, scuotendo la testa.
Una nuova, dolorosa fitta di tradimento. Avevo aperto il mio cuore a Kael, condividendo con lui i miei sentimenti e i miei segreti, e sapeva perfettamente come avrei reagito alla scelta di mio fratello di rinunciare alla sua libertà per entrare nell’esercito, eppure lo aveva aiutato. Forse gli interessava più di Austin che di me, e rendermene conto mi aveva ferita da morire.
«Be’, mi fa piacere che tu ti sia fatto un amico», ho commentato, nel tono più sarcastico di cui ero capace.
Parte di me, in realtà, era intenerita dai sentimenti del mio gemello nei confronti di Kael. Quando parlava di lui, sentivo nella sua voce la sicurezza di cui sapevo che aveva bisogno. Austin è il tipo di persona che tira fuori il meglio di sé quando è in mezzo alla gente. Un altro aspetto in cui siamo molto diversi. E che ha preso da nostra madre.
«Kare, non gli avresti comunque dato mezza possibilità.»
Ero felice di essere quasi arrivata, perché mio fratello mi stava facendo incazzare sempre di più, nonostante mi stessi sforzando di essere comprensiva.
«Non c’entra nulla. Sono preoccupata per te. Non me ne frega niente di lui», ho detto, tanto a lui quanto a me stessa.
Austin ha alzato di nuovo gli occhi al cielo. Non mi credeva, ovviamente, ma ho continuato.
«Non è tutto bianco o nero. Mi avete mentito entrambi, e tu sei appena arrivato e devi già ripartire. Io qui ho solo papà, Estelle ed Elodie, e tu te ne vai di nuovo. E non al college o a lavorare in un’altra città: ti arruoli nel dannato esercito. Quando diventi un soldato, non puoi semplicemente mollare o scappare. Una volta che sei dentro, le possibilità che tu ne esca sono infinitesimali, lo sai.»
«Non è vero. È pieno di gente che dopo qualche anno di servizio si congeda. E poi hai mai pensato, anche solo per un momento, che potrebbe essere un bene per me?» Le labbra di Austin si sono contratte e ha alzato la voce. «Puoi credere quello che ti pare dell’esercito e so che l’abbandono di mamma ti ha traumatizzata, e vale anche per me, ma alcuni sono felici della vita militare», ha detto, con una scrollata di spalle. «E, davvero, pensa a mamma e papà. A che tipo di coppia erano. Non erano fatti per stare insieme, a prescindere dall’esercito e dalle missioni. Il loro matrimonio non sarebbe durato comunque. Non puoi dare la colpa di tutto all’esercito.»
Ho battuto le palpebre due volte, grata di essere ferma a un semaforo. «Non sarebbe stato lo stesso», ho obiettato. «Lui non sarebbe stato sempre via e lei non si sarebbe sentita tanto sola. È stato questo a cambiare le cose per lei. La solitudine.»
«Certo, non il fatto che lei e papà si odiavano. Era la solitudine il problema.»
«La solitudine è pesante, Austin. Sentirsi sempre sola, senza amici, senza famiglia, può consumarti.» Ho inspirato a fondo.
«Ma a volte può essere un bene», ha replicato.
Come era possibile che due fratelli gemelli fossero così diversi?
Non ero più sicura di parlare ancora di mia madre. Il semaforo è diventato verde e ho svoltato nel vicolo accanto a casa mia. Ci stavamo scaldando entrambi, ma pensavo fosse meglio essere onesti e parlare dei nostri problemi invece di ignorarli, per una volta.
«Io sono solo adesso», ha risposto. «Sono letteralmente un senzatetto, la mia macchina si è rotta la settimana dopo che sono tornato.» È scoppiato a ridere.
Ne parlava con leggerezza, però era la dura verità. «Avrò degli amici nell’esercito. Cazzo, magari mi metteranno di stanza qui. Succede. La città natale di Martin è a un centinaio di chilometri di distanza.»
Ci avevo pensato anch’io. Visto che aveva fatto domanda per la fanteria, probabilmente lo avrebbero mandato a Fort Hood o qui. O almeno, tutti dicevano che quelli erano i posti dove veniva spedita la maggior parte dei soldati di fanteria.
«Oppure alle Hawaii, ti immagini? Così puoi venire a trovarmi, andare in spiaggia e bere rum dalle noci di cocco.»
Ha sorriso. Il suo sorriso infantile di quando eravamo ragazzini. Era cambiato tanto dai ricordi che avevo di quei tempi, ma non importava quanto sembrasse un uomo, ormai: per me sarebbe sempre rimasto quell’adolescente dispettoso. Era entrato nella pubertà prima di me e mi era sempre parso più grande, malgrado ci somigliassimo molto.
«Magari. E se invece ti mandassero direttamente in missione?»
«E se ti prendesse in pieno quel furgone che sta facendo retromarcia?» Ho schiacciato immediatamente il freno. Bradley, il proprietario del negozio di materassi, stava facendo manovra con il suo enorme furgone metallizzato a meno di tre metri di distanza.
«Non puoi basare la tua intera vita sui ‘se’, Kare. Rischi di impazzire stando continuamente a preoccuparti per tutto quello che potrebbe succedere.»
Ero sempre stata così. Non sapevo come altro fare.
«Va bene, smetterò di essere incazzata con te se ti manderanno di base alle Hawaii o qui. Se ti spediscono in Texas, gli accordi saltano.»
«Anche il Texas andrebbe bene. Non è lontano.»
«Non ci pensare nemmeno. In Texas non ci torno.»
Porte sbattute, urla, i pianti di mia madre in veranda e lo scricchiolio del metallo sono i miei più vividi ricordi dello Stato della Stella Solitaria.
«Adoravi il Texas. Hai dimenticato quanto ci divertivamo?» ha chiesto con espressione di finta innocenza.
No, Austin, non ho dimenticato le tristissime feste a cui ti accompagnavo. I ragazzi disgustosi e troppo grandi per provarci con me. Tutte le ragazze che hanno smesso di parlarmi dopo che le hai ignorate.
Ho filtrato i miei pensieri prima di esprimerli. Eravamo parcheggiati nel vialetto davanti a casa mia e dovevo andare al lavoro.
Ho sganciato la cintura di sicurezza. «No, non ci torno neanche morta.»
Ha sorriso. «Nemmeno ad Austin? È la mia città, te lo ricordi?»
«Ah, un’altra delle favole di mamma.»
Mia madre amava raccontarci storie sugli argomenti più disparati. Avrebbe dovuto fare la scrittrice, con un’immaginazione tanto fervida che oscillava costantemente tra finzione e realtà. Stando a quella storia, Austin, la capitale del Texas, aveva preso il nome da mio fratello. La leggenda di nostra madre narrava che lo Stato era in difficoltà da mesi, fino alla sua nascita. Motivo per cui un sindaco o un senatore avevano deciso di chiamare la città come lui, anche se, essendo gemelli, eravamo nati a pochi secondi di distanza.
Austin aveva la sua città e io avevo una mia isola da qualche parte al largo della costa della Florida. Là le spiagge erano di sabbia bianca e c’era persino un castello con il nome di mia madre. Ha continuato a raccontarmi miti e segreti della nostra isola anche molto dopo che avevo smesso di crederle. Mi aveva fatto giurare che non li avrei mai riferiti a nessuno, nemmeno a mio fratello. E poi mi aveva parlato di regine che portavano il suo nome e ideavano elaborati piani di fuga dall’isola. Suonava tutto così stupido ora, ma ripensare alla regina intrappolata mi aveva fatto realizzare che tutte le sue favole avevano significati troppo profondi perché potessi capirli, da bambina.
«A volte le sue bugie non erano poi tanto male», ha commentato Austin mentre mi strofinavo gli occhi con le mani. Non stavo piangendo, ma sentivo che stavano per riempirsi di lacrime. «Ricordi quella sulla nonna che in realtà era un drago travestito?» Ha riso, mentre io battevo forte le palpebre.
Ho espirato profondamente. «Forse le inventava per affrontare la realtà.»
Siamo rimasti in silenzio, ognuno perso nel proprio passato.
Sentivo una fitta allo stomaco ogni volta che pensavo a mia mamma. I bei ricordi erano molto diversi da quelli brutti. Era come avere due madri, come se anche lei avesse avuto una gemella. I momenti brutti ora erano facili da cancellare, non era difficile distaccarsi emotivamente. Mi ci erano voluti anni, ma negli ultimi tre ero riuscita a sradicarli dalla mia memoria, uno alla volta. Quelli belli, invece, quelli in cui ridevamo finché ci faceva male la pancia e mangiavamo burro d’arachidi direttamente dal barattolo con i gambi di sedano, erano più difficili da rimuovere. Restavano attaccati, per quanto forte tirassi per strapparli, facendomi sentire la sua mancanza. Facendomi sentire peggio.
Mi sono girata verso Austin. Stava guardando fuori dal finestrino. Chissà a quale versione di nostra madre pensava. Io mi ero abbandonata ai ricordi di una donna piena di vita che pianificava il nostro viaggio sulla mia isola.
Era meravigliosa, diceva. Il sole era caldo e le persone cordiali. Con voce dolce e sognante descriveva la spiaggia segreta da cui si vedevano le stelle più luminose nel cielo buio. Rischiaravano la notte di incredibili bagliori. Mi aveva promesso che un giorno mi ci avrebbe portata.
«Se ci andiamo, non torniamo più indietro», diceva, giocherellando con le punte dei miei capelli.
«Austin può venire con noi?» le avevo chiesto una volta. Rammento benissimo com’era cambiata la sua espressione, il modo in cui si era girata verso la casa, dal dondolo.
«Non penso che possa», aveva risposto, e io avevo seguito il suo sguardo fino in salotto, dove mio padre e mio fratello stavano guardando una partita di football, parlando, ridendo, e ingozzandosi di patatine e salse.
Poco prima della fine della sua vita con noi, aveva ricominciato a venire nella mia stanza. Non sempre, ma un po’ più spesso. Anche se ero stanca morta, dopo la scuola e il lavoro, restavo sveglia solo per passare del tempo con lei. Mi chiedeva di raccontarle della nostra isola, di come me ne stavo prendendo cura.
Come stava la gente che abitava lì?
Ballavano ancora sulla sabbia tiepida mentre il sole tramontava sull’oceano?
Voleva i dettagli. Voleva anestetizzarsi.
Era così che affrontava le difficoltà. Crescendo, ho sviluppato uno spiccato interesse per la psicologia. Volevo capire perché le persone si comportano in un certo modo. Leggevo libri e facevo ricerche su internet: indagavo sui fatti e sulle ragioni che motivavano i comportamenti umani a cui assistevo tutti i giorni.
Più imparavo, più mi rendevo conto che mia madre aveva bisogno di fingere che andasse tutto bene, come quando ero ancora piccola. Quando le cose non erano messe così male. Mi implorava, con l’alito che puzzava di alcol, di portarla lontano con le favole che un tempo raccontava a me. Iniziavo a recitarle, ma lei interveniva dopo poco.
Piangeva anche, a volte. In silenzio, ma sentivo le lacrime calde scorrermi sul braccio e il suo corpo che tremava nel buio. Allora le dicevo che ero contenta che fosse venuta a trovarmi di nuovo, dopo tanto tempo. Sorrideva quando le raccontavo che l’acqua dell’isola era calda e la gente del posto se la spassava. Riprendevo le storie da dove lei si era interrotta e le accarezzavo i capelli sulla fronte, finché non ricominciava a parlare.
Più triste era, più le storie erano lugubri.
Non era facile addormentarsi dopo i suoi racconti più inquietanti, e di solito restava nella mia stanza. Dal momento che era il massimo dell’attenzione che riuscivo a ottenere da lei, in un certo senso ci speravo.
Era sempre stata una narratrice così convincente che anche da più grande, quando ormai sapevo che la metà delle cose che diceva era inventata, avevo continuato a volerle ascoltare. Era divertente vivere nella sua realtà, per quanto triste e oscura. Quando ci eravamo trasferiti in Georgia, aveva iniziato a dormire più spesso in veranda e a sprofondare sempre di più nel suo mondo, fino a passare più tempo lì che nel nostro.
«Dove pensi che sia adesso?» Non lo stavo davvero chiedendo a mio fratello, e nemmeno a me stessa. Era più che altro un appello all’universo.
«Non lo so.» Austin non mi ha guardata. «Ma sicuramente non è qui.»