27

Karina

GIOVEDÌ, alla vigilia del mio compleanno, ero seduta sul divano, a scorrere sul cellulare foto di celebrità sul red carpet di un evento di beneficenza. Ho sollevato il telefono per mostrare a Elodie l’attrice emergente di uno dei suoi film preferiti su Netflix, e lei ha strizzato gli occhi per vederla meglio dall’altro lato del divano.

«Wow, è bellissima», ho sospirato, zoomando sulla pelle liscia e i capelli lucenti.

«Il vestito non è niente di che», ha commentato Elodie, abbassando gli occhi sulla propria mise. Pantaloncini Nike neri che ero quasi certa fossero miei, visto che i suoi non le andavano più, e una t-shirt con una macchia che poteva essere di yogurt o di vomito.

Ho riso, e lei con me. «Giusto.»

Ero in pigiama anch’io, una vecchia t-shirt di mio fratello e un paio di pantaloncini. Ho pulito lo schermo del cellulare con l’orlo della maglietta. Da due giorni mi svegliavo con un mal di testa tremendo e a stento uscivo di casa, se non per andare al lavoro.

«Accidenti, adoro starmene spiaggiata sul divano in condizioni pietose a criticare le donne più affascinanti del mondo!» Ho alzato gli occhi al cielo e sono tornata a zoomare il viso perfetto dell’attrice. Davvero, non le si vedeva un solo poro.

«Parla per te.» Elodie mi ha fatto una linguaccia e si è passata una mano tra i capelli biondi scompigliati. «Dopo che sarà nato il bambino, non ce ne sarà più per nessuno.» Ha fatto schioccare i polsi, ridendo.

A volte Elodie riusciva a farmi sentire normale. Non pensavo a Kael da quando era tornata dal centro benessere e si era infilata il pigiama per unirsi al mio festival della tristezza.

«Cosa c’è da ridere? Siete bellissime tutte e due. Non vi rendete conto che siete ridicole quando dite queste cose?» ci ha rimproverate Austin, tornando in salotto con una ciotola di cereali, nonostante fossero le quattro del pomeriggio.

Si è seduto sul pavimento, di fronte a Elodie. Ha alzato lo sguardo e lo ha spostato su di me. «Be’, forse una e mezza.»

«Grazie», ha detto lei, con un sorriso, mentre io rispondevo con una risata sarcastica. Ha scalciato verso di me. «Parli di me e del bambino, vero?»

«Ah, ah. Siete veramente uno spasso», ho bofonchiato, corrugando la fronte.

«Vero?» ha detto Austin con un ampio sorriso falso.

«Se fossi ricca, sarei più carina», ha sospirato Elodie, indicando il mio cellulare. «Hanno i laser per qualunque cosa, ormai.» Ha sollevato l’orlo della maglietta per farci vedere le smagliature violacee sulla sua pelle chiara.

Ho sbuffato. «Tu non ne hai bisogno. Io sì. Qualche ritocchino qua e là. Una limatina sui fianchi», ho detto, modulando la voce per imitare quelle delle star in televisione.

«Almeno tu ce li hai ancora dei fianchi. Le mie curve andranno a farsi benedire dopo il parto. Potresti darmene un po’ dei tuoi», ha proposto, arricciando le labbra e spingendo il petto in fuori. «Per non parlare delle tette.»

Ha gettato la testa all’indietro e ho sorpreso Austin a fissargliele molto più a lungo di quanto avrebbe dovuto guardare il corpo di una donna sposata, per giunta con uno strano ghigno compiaciuto stampato in faccia.

«Perché siete così, voi ragazze?» ha protestato mio fratello, con gli occhi di nuovo sullo schermo del cellulare e senza smetterla di digitare. «Sembrate due psicopatiche.»

Ho cercato un nome nella barra di ricerca del mio Instagram.

«Perché le donne su internet sono così.» Gli ho mostrato l’ultima foto in costume di una famosa modella che seguivo solo per paragonare la sua vita lussuosa alla mia e il suo corpo modellato a suon di bisturi con il mio.

Mentre lei era a Bali, in cima a una montagna con un costume da bagno arancione che lasciava molto poco all’immaginazione, io ero sul mio divano con le dita sporche di patatine al formaggio.

Ho alzato la mano sinistra per mostrare i polpastrelli arancioni ad Austin ed Elodie.

«Come si dice: ‘Non sei brutto, sei solo povero’», ho riso, leccandomi sfacciatamente le dita.

Era assurdo il modo in cui criticavo il mio corpo mentre ero subito pronta a difendere Elodie quando si buttava giù. Non era sano, lo sapevo, ma non riuscivo a farne a meno. Un sacco di gente investiva fior di quattrini per farmi il lavaggio del cervello attraverso i media fin da quando ero piccola, quindi ci sarebbe voluto ben più di un po’ di logica per farmi smettere di pensare a certe cose.

«E di chi è esattamente questa citazione?» La voce di Kael ha attirato l’attenzione dell’intero salotto.

Ho alzato la testa di scatto. Che cavolo ci faceva in casa mia?

«Penso una delle Kardashian», ha detto Elodie mentre chiudevo con una molletta la busta di patatine.

Ho guardato Kael, rivolgendogli con una certa enfasi la mia domanda. «Non lo sai che si bussa prima di entrare a casa della gente?»

«Ho suonato il campanello.» Ha alzato le spalle. «Dev’essere rotto.»

Ho fissato un punto dietro di lui per evitare il contatto visivo, assicurandomi al tempo stesso che notasse la mia reazione.

Accidenti a me. Sapevo che la batteria stava per scaricarsi, ma non avevo ancora avuto tempo di cambiarla. Il suo atteggiamento era beffardo quasi quanto il mio, ed estremamente fastidioso.

«Non ti dà comunque il diritto di entrare in casa mia senza annunciarti.»

Non dicevo sul serio, ma volevo fosse chiaro che le cose tra noi non sarebbero mai tornate a posto. Si era capito due sere prima, in veranda. Per quanto fosse stato bello parlare con lui e togliermi un peso dal petto raccontandogli di Estelle, detestavo il fatto di aver dimenticato tanto in fretta che lui non andava bene per me e non potevo fidarmi di lui. Voglio dire, che cazzo, aveva causato l’ennesimo litigio tra mio padre e mio fratello, che ancora non si parlavano. Sapevo che era ingiusto dare la colpa a lui, ma era un modo per alimentare la rabbia che dovevo continuare a provare nei suoi confronti.

«Forse no, ma il messaggio di meno di un minuto fa di tuo fratello che mi dice di entrare sì», ha risposto, avvicinando alla mia faccia il cellulare per mostrarmi la schermata di una conversazione.

Quel cretino di Austin quasi si è strozzato con una risata.

«Dagli tregua, Kare, non ne posso più di vedervi litigare», si è lagnato.

«Tregua?» ho ruggito, ma senza alzare la voce. «Perché non ve ne andate a casa vostra?»

«Com’è andato l’incontro?» ha chiesto mio fratello a Kael, ignorando la mia invettiva.

Ero troppo curiosa di ascoltare la conversazione per continuare a prendermela con Kael, e in più sapevo che stavo facendo l’odiosa solo per attirare la sua attenzione, ed era una cosa che non sopportavo. In fondo, non aveva fatto niente di male la sera della veranda, a parte alla fine.

Ho approfittato del fatto che fosse concentrato su Austin per osservarlo con calma. Indossava la mimetica e si era fatto la barba, i suoi occhi scuri erano più intensi mentre parlava. Ero sicura che l’uniforme lo cambiasse, in un certo senso, era molto più minaccioso e sicuro di sé quando la indossava.

«Bene, non finiva più, ma ho buone notizie.» Si è sfregato le mani.

«Dai, raccontaci!» ha chiesto Elodie.

Quindi questo incontro era qualcosa di cui entrambi erano al corrente e non vedevano l’ora di conoscerne l’esito? Ho provato una fitta di gelosia, anche se forse non ne avevo il diritto. Il viso di Kael si è aperto in un sorriso e si è morso il carnoso labbro inferiore.

«Be’...» ha esordito, e Austin si è messo a sedere più dritto, quasi in ginocchio. Aveva gli occhi sgranati per l’attesa. «Mi lasciano andare.»

Mio fratello ha iniziato a esultare mentre lui continuava.

«È quasi tutto fatto, dovrò seguire dei corsi di reinserimento nella società e fare delle sedute di fisioterapia, poi sarò libero. Non riesco a crederci.» Si è portato una mano sul mento, nascondendo in parte il sorriso.

La sua gioia era contagiosa, ho dovuto stringere le labbra per non sorridere a mia volta. Sembrava sollevato e ringiovanito alla prospettiva di riconquistare la libertà. Per un secondo ho desiderato di essere sola con lui per condividere quel momento importante. Quando mi ha guardata – stava guardando proprio me –, ho sentito la presenza di Elodie e Austin come un’intrusione. Anche se in verità ero io l’outsider del gruppo, i suoi occhi puntati nei miei suggerivano una realtà alternativa.

«Evviva! Congratulazioni, amico», ha detto mio fratello, interrompendo il momento.

Si è alzato per abbracciarlo. Gli ha dato una pacca fortissima sulla schiena e io mi sono furtivamente asciugata gli occhi. Non capivo perché all’improvviso fossi tanto emotiva.

«Così? Senza condizioni?» ha chiesto poi, quando Kael si è sfilato dal suo abbraccio.

L’affetto fraterno che Austin nutriva nei suoi confronti non smetteva di sorprendermi. Lo avevo visto comportarsi così solo con le ragazze, tante, ma nessuna delle sue amicizie era mai sembrata profonda. Mi faceva sentire che c’era qualcun altro a prendersi cura di lui, e mi aiutava a essere più in pace con me stessa.

D’altro canto, però, mi intristiva pensare che si sarebbero allontanati e magari avrebbero perso i contatti quando Austin fosse partito per l’addestramento di base. E sarebbe successo molto presto. Il mio stomaco si è contratto a quel pensiero.

«Non sono così stupido da credere che non ci siano condizioni. Stiamo parlando dell’esercito degli Stati Uniti, non ce ne dimentichiamo», ha risposto Kael, secco. «Ma sono pronto a tutto. Per il momento sono un passo più vicino alla meta. È successo più in fretta di quanto pensassi. Secondo il mio primo sergente, qualcuno deve averci messo una buona parola.»

Austin gli ha dato un’altra pacca sulla spalla. Dei due era sempre stato lui a legarsi di più alle persone, da quando nostra madre era andata via. Ero certa che un terapista avrebbe avuto molto da dire al riguardo.

«Dove andrai? Non ti trasferisci, vero?» ha chiesto Elodie. «Phillip tornerà presto.» La sua voce dolce era più una preghiera che un’affermazione.

Austin ha spostato lo sguardo da lei a me. Non riuscivo a interpretare la sua espressione.

«Aspetterò che torni prima di andare. E comunque non sarò lontano», l’ha rassicurata Kael.

Ha fatto qualche altro passo nel salotto. I pesanti anfibi hanno lasciato sul vecchio pavimento di legno una traccia quasi impercettibile, ma che credevo non avrei mai avuto il coraggio di lavare. A volte, quando lo guardavo, mi convincevo che il suo posto era quello, come se fosse parte di casa mia.

«Non ti preoccupare», ha detto con voce dolce. Elodie si è sollevata per abbracciarlo. Ho distolto lo sguardo mentre lui le massaggiava la schiena con la mano.

Mentre la rassicurava, però, fissava intensamente la parete.

«Sì, ma resterà solo. E anche io», ha replicato Elodie.

Ho guardato prima lei e poi lui. Austin era in piedi in mezzo a loro e io ero pronta a uscire dal mio salotto e smetterla di intromettermi in quel triangolo amicale-famigliare che sembravano aver creato senza di me. Detestavo sentirmi tagliata fuori.

«Sono felice per te», ha detto Elodie a Kael, stringendogli le mani, che erano molto più grandi delle sue.

Ho provato una fitta di gelosia per il fatto che lei poteva toccarlo liberamente.

«Non mi trasferisco lontano. Atlanta è a meno di due ore di macchina. Non preoccuparti»

Non sono riuscita a trattenermi.

«Atlanta?» Non sapevo perché lo avevo domandato. Sapevo che gli piaceva Atlanta e non avevo il diritto di chiedergli di restare vicino a me o a Fort Benning, il detonatore del suo disturbo post-traumatico da stress, ma sentirgli dire esplicitamente che sarebbe andato via mi ha gettata vagamente nel panico. Avevo relegato il pensiero della sua partenza in un angolo della mia mente, e facevo di tutto per evitare di evocarlo.

I nostri occhi si sono incontrati. «Sì, il piano è questo. Devo solo decidere quando. Ero convinto che sarebbero passati mesi prima di avere notizie del congedo. Alcuni ci mettono anni.»

«Sono felice per te», ho detto, inghiottendo le emozioni irrazionali che mi stavano travolgendo.

Mi sarebbe bastato allungare un braccio per riuscire a toccarlo.

Lui ha annuito, sorridendo solo con un angolo della bocca.

«Grazie.»

Avevo la sensazione che il silenzio sarebbe potuto durare per sempre, e forse sarebbe andata così se fossimo stati soli, ma mio fratello è intervenuto e mi ha sottratto la sua attenzione. Dovevo proprio essere la sorella insopportabile.

«Dobbiamo festeggiare. È una grande notizia, cavolo! Hai visto, dovremmo andare a Cloudland. Lo hai già detto a qualcun altro?» ha chiesto Austin.

Ho pensato a Mendoza e agli altri del plotone.

«Cos’è Cloudland?» ha chiesto Elodie.

«No, sono venuto direttamente qui», ha risposto Kael, mentre Austin spiegava a Elodie che si trattava di un parco. Non vedevo come c’entrasse con quello di cui stavamo parlando, ma non mi importava, perché ero troppo impegnata ad analizzare il fatto che Kael fosse venuto a casa mia subito dopo aver saputo del congedo.

Le parole avevano un peso.

Mi stava guardando di nuovo. Me, non Austin. E nemmeno Elodie.

«Dai, allora diglielo, così possiamo festeggiare! Possiamo andare tutti a Cloudland per un weekend! Mendoza e gli altri ci vanno, te l’avevo detto che dovevamo andarci anche noi!» ha esclamato Austin, evidentemente esaltato all’idea.

«Ma sono incinta. Non possiamo aspettare fin dopo il parto?» ha protestato Elodie.

«Me ne sarò già andato a quel punto», ha obiettato Austin, e lei lo ha guardato con aria triste.

Si stavano comportando tutti come una famiglia, me compresa, nel ruolo della figlia maleducata in un angolo, troppo persa nei propri pensieri per partecipare alla conversazione, ma con la testa piena di idee e opinioni. Sapevo che anche a Elodie sarebbe mancato Austin. Da quando era tornato, era diventato quasi un fratello anche per lei. Ma presto avrebbe avuto il bambino e suo marito. Io stavo perdendo il mio gemello, e avrei perso la mia migliore e unica amica quando Phillip fosse tornato. Avevo già perso mia madre, non avrei rimpianto la perdita mio padre, e ora anche Kael stava per andarsene. Così tanti cambiamenti. Così tanta confusione.

«Dai, Martin. Andiamoci questo fine settimana. Possiamo stare fuori due notti. È anche il nostro compleanno», lo ha implorato Austin, giungendo le mani. «Puoi venire anche tu. Ci sarò io a proteggerti dagli orsi», ha aggiunto, rivolto a Elodie. Austin non era mai stato bravo a proteggere niente, però la speranza è l’ultima a morire, no?

«Sono quattro ore di macchina», ha puntualizzato Kael, guardando mio fratello.

«E allora? Possiamo finire il pavimento nell’ingresso e la parete di cartongesso stasera e partire domani mattina. È il mio compleanno.»

Kael ha alzato gli occhi al cielo. «Tu vai pure. Sei grande, hai ventun anni, chi te lo impedisce?»

Austin si è girato verso di me, gli occhi accesi di eccitazione. Gli è sempre piaciuto avere una scusa per festeggiare o stare in gruppo, fin da quando eravamo bambini.

«Tu vieni, vero?» mi ha chiesto.

L’attenzione di Kael si è spostata su di me. Ha corrugato la fronte, infastidito.

«Ti ricordo che ho un lavoro, quindi ne dubito.»

«Non puoi prenderti qualche giorno libero?» mi ha incalzata.

Elodie ha sollevato una mano per chiedere la parola, come se fossimo in classe e lei fosse l’alunna modello. «Be’, abbiamo entrambe solo i due clienti nuovi domani mattina e io posso spostare il mio», ha detto. A quanto pareva, aveva cambiato idea.

Le ho lanciato un’occhiataccia. Non volevo andare da nessuna parte con tutto il gruppo, e di certo non senza un minimo di organizzazione. Non avevo idea di dove fossero il mio costume o la valigia...

«Non so nemmeno con chi sia l’appuntamento delle dieci e mezza. Non ho controllato il nome, quindi non posso spostarlo.» Continuavo a cercare scuse plausibili.

Non sarei mai stata spontanea come mio fratello, non era nella mia natura.

«Possiamo aspettare che tu abbia finito di lavorare. Gli altri partono comunque in mattinata, quindi avremmo solo qualche ora di ritardo. Dai, Kare. El vuole andarci. E anch’io voglio. Non ti prendi una vacanza da...» Ha fissato il soffitto, calcolando. «Ehm, mai. Dai. È il nostro ventunesimo compleanno.» Mio fratello sembrava avere di nuovo dodici anni, quando implorava il mio aiuto per fare i compiti di biologia.

«Non lo so...» Mi sono mordicchiata le labbra. «C’è dell’acqua?» Stare vicino all’acqua era l’unica cosa che potesse farmi prendere in considerazione l’ipotesi di andare.

Anche se mi sembrava un progetto folle.

«Una cascata», ha confermato Austin.

«Una cascata!» Elodie ha battuto le mani, saltellando sul posto. «Okay, io ci sto.»

«Aspetta, è il posto dove siamo andati con mamma e papà? Quando siamo rimasti a dormire nella roulotte perché pioveva a dirotto?»

Austin ha riso, annuendo. Kael si è schiarito la gola.

«E va bene, ci vengo.» Ho alzato le spalle.

Non ero convinta che fosse una buona idea, ma volevo una reazione da Kael e in parte desideravo un qualche contatto con mia madre e la mia vita di un tempo.

«Sì! Evvai!» Austin era felice, e sorrideva a chiunque lo guardasse. Al momento era Elodie.

«Sono pressoché certo che tu non abbia l’attrezzatura da campeggio», è intervenuto Kael, sovrastando l’entusiasmo di Austin ed Elodie.

«Come fai a sapere cos’ho?» ho chiesto, infastidita dalla sua saccenza. Anche se in cuor mio dovevo riconoscere che in effetti sapeva un sacco di cose.

«L’indispensabile ce l’ho. Dovrebbe esserci una tenda nel capanno», ho detto, ricordandomi subito che era bucata, ma non era necessario che Kael lo sapesse. Me ne sarei procurata una, mio padre ne aveva diverse.

«Okay.» Il suo tono scettico mi ha stizzita da morire.

Così tanto che ho deciso che avrei chiamato mio padre e avrei caricato sulla mia macchina tutta l’attrezzatura da campeggio che riuscivo a farci stare. Se avessi potuto guidare il suo camper, avrei preso anche quello. Solo per dimostrare a Kael che si sbagliava.

L’ho sorpreso a fissarmi. «Che te ne importa? Tanto non vieni.»

Lui ha sorriso e si è morso il labbro inferiore. «Chi ha detto che non vengo?»

Ho agitato le braccia. «Tu!»

«No, non l’ho mai detto. Ci vengo. Ora lo dico a Mendoza così ci organizziamo con le macchine. Sarà divertente.» Non aveva smesso di guardarmi con aria di sfida negli occhi luminosi.

Ho inclinato la testa, ostentando il mio miglior sorriso di circostanza.

«Da morire», ho risposto, senza interrompere il contatto visivo.

Stava cercando di capire cos’avevo in testa, era ovvio. Ho fatto del mio meglio per oppormi e assumere un’espressione neutra. Un weekend con lui poteva trasformarsi in un inferno, ma a me sembrava il paradiso.

Austin era di nuovo su di giri, e parlava con Elodie di come orchestrare il fine settimana e il compleanno. Le loro voci si sono confuse, mentre Kael batteva le palpebre ma non staccava gli occhi dai miei. Mi rifiutavo di essere la prima a farlo. Persa com’ero nella nostra guerra per il controllo, non sentivo più niente intorno a me. Il mio cervello si è come astratto, mentre un’ondata di pensieri gli affluiva dentro.

Come sarebbe andato il weekend?

Avrebbe piovuto? Pioveva da giorni.

Ci sarebbe stato fango dappertutto?

Dove avremmo dormito?

Quanto sarebbe costato?

Chi avrebbe guidato per quattro ore?

Ci sarebbero state altre ragazze con cui Kael avrebbe potuto provarci?

«Sicura di voler andare?» mi ha chiesto lui, come se potesse leggermi nel pensiero.

Ho fatto una pausa.

«E tu?»

Ha aperto la bocca per rispondere proprio mentre il suo cellulare ha iniziato a vibrare. Si è infilato una mano in tasca e lo ha preso. «Torno subito, è mia mamma», ha detto. Mi ha lanciato un’ultima occhiata prima di allontanarsi.

Chissà se avrei mai saputo cosa stava per dire. Avrebbe fatto qualche battuta sulle mie doti da campeggiatrice? O magari avrebbe confessato di sentirsi solo ammettendo di voler passare del tempo con me? Bah. La mia immaginazione correva ancora a briglie sciolte, buono a sapersi. Ho guardato Kael dalla porta d’ingresso finché non sono più riuscita a vederlo, così mi sono avvicinata per provare a origliare la sua conversazione.

«Accidenti, non riesco a credere che lascerà l’esercito», ha commentato Austin, coprendo la voce di Kael in veranda.

«Inizio a essere un po’ triste all’idea di partire», ha aggiunto, chinando la testa.

Elodie lo ha guardato e gli ha sfiorato dolcemente la spalla. «Smettila di ripeterlo, stai facendo intristire me e il bambino.»

Lui ha sorriso. Ho distolto lo sguardo da loro per provare a individuare Kael. Anche se non aveva annunciato la sua visita, non potevo negare il conforto che provavo quando era vicino.

«Merda, sono già quasi le cinque, devo passare in quel negozio», mi ha ricordato Elodie. Me lo aveva accennato quella mattina e le avevo promesso di accompagnarla. Adesso che ero in pigiama e c’era Kael in casa, però, non avevo più tanta voglia. Soprattutto per il pigiama...

«Ho un coupon per uno di quei monitor strafighi e scade domani», ha spiegato Elodie ad Austin. «Sicura di voler venire con me?» ha aggiunto, guardando prima me e poi verso la porta d’ingresso, cercando Kael.

Avrei voluto mentire, vestirmi e uscire con lei, ma quello che volevo davvero era restare lì con Kael. Non sapevo decidermi. Be’, in realtà avevo già deciso, ma soltanto perché ero una persona accomodante e non volevo deludere Elodie, anche malvolentieri.

«Ci vengo», ho risposto, evitando di mentire dicendole che ne avevo voglia.

«Voglio venirci io! Per te va bene?» ha domandato Austin a Elodie, forse per salvarmi, oppure per uscire di casa. Chissà.

«Certo.» Lei ha sorriso. «Puoi accompagnarmi tu, visto che tua sorella chiaramente non ne ha alcuna voglia», mi ha presa in giro. «E poi puoi aiutarmi a portare i pacchi. Ah, e voglio anche delle fragole e quella specie di panna montata. Come si chiama, Karina?»

«Cool Whip.»

Ha sorriso e si è avviata verso l’appendiabiti sulla parete vicino alla porta. Si è messa una felpa sul pigiama e si è infilata un paio di scarpe da ginnastica. Era incredibile come riuscisse sempre ad avere stile senza fare il minimo sforzo. Kael, nel frattempo, camminava avanti e indietro nel mio giardino, l’uniforme dell’esercito quasi perfettamente mimetizzata con l’erba secca. Si è girato e ho notato che sorrideva mentre parlava al telefono con la madre, un sorriso che non gli avevo mai visto prima. Non riuscivo a immaginare quanto potesse essere felice. Se Elodie non avesse parlato, interrompendo i miei pensieri, la commozione avrebbe senz’altro avuto la meglio.

«Adesso andiamo. Sei pronto?» Elodie ha piegato la testa, sorridendo ad Austin. Lui ha annuito.

«Torniamo presto. Serve qualcosa? Altre patatine al formaggio?» ha chiesto Elodie, infilandosi le chiavi e il cellulare nella tasca anteriore della felpa.

Ho scosso la testa e sgranato gli occhi per farle capire che doveva piantarla di parlare della mia dipendenza da patatine proprio mentre Kael apriva la porta.

«Dove andate?» ha chiesto a mio fratello.

«Al centro commerciale. Vuoi venire?» Ho sorpreso Austin a guardarmi mentre glielo chiedeva.

«Andate tutti e due?» ha domandato Kael mentre Elodie trascinava Austin fuori dalla porta.

«Sì, sì. Anzi, dobbiamo sbrigarci, il negozio sta per chiudere», ha tagliato corto lei, superandolo e chiudendosi la porta alle spalle.

«Ma io...» Kael ha provato a obiettare.

«Tu aspetta qui, okay? Ci serve spazio nel bagagliaio.» Elodie lo ha pregato con le mani giunte, ormai quasi fuori dalla porta.

«Non ci vorrà molto», lo ha rassicurato Austin.

«Andiamo. Ciao!» si è congedata lei, chiudendosi la porta alle spalle.

Ho sospirato lanciando rapide occhiate tutto intorno, decisa a posare lo sguardo su qualunque altra cosa che non fosse il soldato confuso e imbronciato in mezzo al mio salotto. Ha fatto qualche passo e l’ho seguito, sistemandomi i pantaloncini e la maglietta. Mi sono passata una mano tra i capelli scompigliati.

«Pensi che ci metteranno molto?» ha chiesto, controllando l’ora sul cellulare. «Tuo fratello doveva dormire da me stanotte...» Si è guardato in giro nella stanza, osservando ogni singolo dettaglio, come sempre.

Era una delle cose che più mi affascinavano di lui. Kael non era un libro, era una biblioteca intera. La quantità di informazioni immagazzinate nel suo cervello avrebbe potuto cambiare il mondo, se solo le avesse condivise. Avevo avuto la fortuna di avervi accesso, qualche volta, e bruciavo dal desiderio di farlo di nuovo. La sua intelligenza lo rendeva magnetico, e acuto e saggio. E anche fastidioso e presuntuoso e irritante.

Dall’ultima volta che ci eravamo visti, avevo deciso di trasformare tutte le cose che mi piacevano di lui in difetti o in caratteristiche poco intriganti per superare il fatto di averlo perso, lui e la nostra breve storia. «Breve» era la parola chiave su cui focalizzarmi. Dovevo impormi dei limiti per tenerlo fuori dalla mia mente, come era giusto che fosse. Peccato che al momento era nel mio salotto, ma era stato Austin a invitarlo, non io.

«Non ne ho idea», ho risposto, lasciandogli intendere che non mi infastidiva la sua presenza in casa. Non volevo dargliela vinta.

L’ho fissato, sforzandomi di abbassare le mie sopracciglia troppo espressive. Non avevo intenzione di comportarmi da perfetta padrona di casa. Non lo ero, e non sarei mai stata come Estelle.

Io e Kael eravamo come il sole e la luna, ruotavamo uno intorno all’altra sul pavimento del mio salotto.

«Quindi che facciamo?» mi ha chiesto.

Ho alzato le spalle, spostandomi leggermente a destra mentre lui faceva lo stesso a sinistra. Stavamo danzando. Con la mente e il corpo.

«Non lo so. Ho da fare stasera», ho mentito.

«A quest’ora?» ha riso. Mi aveva beccata, ma era troppo educato per sottolinearlo.

Mi sono guardata intorno nella stanza, in cerca di qualcosa che avevo lasciato in sospeso. «Be’, devo...»

«Posso andare, se vuoi. Se hai da fare...»

Ho scosso la testa. «No, non preoccuparti. Torneranno presto.»

Mi sono avvicinata alla finestra e ho spalancato le tende. Austin era al volante della macchina di Elodie e lei si stava allacciando la cintura. Qualunque cosa si stessero dicendo, gli occhi di Elodie erano sgranati e luccicanti, come se stesse raccontando un segreto che trovava particolarmente divertente. A giudicare dall’espressione di mio fratello, era un segreto di cui era già a conoscenza, e lo trovava divertente anche lui. Gli occhi azzurri di Elodie risaltavano nella luce della sera. Lei ha incrociato il mio sguardo attraverso il finestrino e un secondo dopo ho chiuso di scatto le tende.

Perché lo avevo fatto?

Non lo sapevo. La parte razionale del mio cervello è tornata ad attivarsi e ho riaperto le tende, soltanto per vedere lei e Austin ridacchiare istericamente. Si stavano comportando entrambi da fratelli insopportabili. Lui è partito in retromarcia ed Elodie mi ha salutata con la mano, sempre senza smettere di ridere.

«Le servono solo un paio di cose e Austin non ha nemmeno un lavoro, quindi non ha soldi da spendere», ho ripreso, guardando il riflesso di Kael nella finestra.

«In realtà lo pago per l’aiuto che mi sta dando con la casa», ha ribattuto Kael. «Ed è anche bravo.»

«Buon per lui», ho replicato, sforzandomi di non suonare troppo rancorosa.

Non sapevo cos’altro dire. Abbiamo guardato entrambi il riflesso nella finestra. Lui era bellissimo, davvero. Era difficile distogliere lo sguardo dalla nostra immagine. Forse quei riflessi potevano vivere una vita diversa dalla nostra? Forse le nostre due versioni intrappolate in quel vetro avrebbero avuto una vita insieme? Era roba da alta letteratura, o da serie Netflix. E mi faceva sentire uno schifo, pensando a come erano andate le cose nella realtà.

Siamo rimasti immobili. Mi chiedevo a cosa stesse pensando. La sua mente aveva preso la stessa direzione della mia? O era andata in quella opposta? Dio, avrei voluto che dicesse qualcosa. Quando la luce dei fari si è affievolita ed è sparita alla mia vista, mi sono girata verso di lui. Le parole che mi erano rimaste in gola avevano preso fuoco e bruciavano da morire. Avrei voluto dire così tante cose e al tempo stesso nessuna, volevo che se ne andasse ma, ancora di più, volevo che restasse. Non avevo idea di cosa sarebbe successo, e non mi piaceva non avere alcun controllo, odiavo che avesse mentito e che anche lui, come tutti gli altri, preferisse mio fratello a me. Lo avrei aggiunto alla lista. Dopo l’altra sera non mi aspettavo di rivederlo e non capivo cosa gli passasse per la testa, mentre era chiaro che lui riusciva a leggere ogni mia mossa.

«Dovrei andare, vero?» Ha preso di nuovo il cellulare dalla tasca.

Volevo tanto chiedergli chi diavolo gli stesse scrivendo.

Chi può essere più importante del momento che stiamo vivendo? avrei voluto urlare.

«Non lo so. Tu vuoi andare?» ho chiesto, quasi in un sussurro.

Ha spalancato gli occhi e scrollato le spalle, molleggiando sui talloni. «Non lo so. Tu vuoi che resti?»

Non sapevo come rispondere. Ci siamo guardati negli occhi e ogni grammo di aria respirabile è stato come risucchiato dalla stanza. Stava fissando di nuovo il cellulare.

«Mi sembri molto impegnato. Posso accompagnare io Austin a casa tua, o può prendere un Uber.»

«Vorrei soltanto che...» ha iniziato a dire, rompendo il silenzio.

«Cosa vorresti?»

Ha sospirato, lasciandosi sfuggire uno sbuffo.

«Voglio dire, vorrei che potessimo... non so, essere amici? Non fare finta di esserlo e finire per litigare o scappare. Non come in un film di Ashton Kutcher. Vorrei davvero che potessimo stare insieme senza imbarazzo o senza che uno dei due si sentisse costretto a darsi alla fuga. Andavamo d’accordo, no? Tanto tempo fa...»

«Sì, tanto tempo fa. E adesso non ci riusciamo più», ho detto. «Hai visto com’è andata l’altra sera? E poi non mi fido più di te. Ogni giorno salta fuori qualche altra stronzata che riguarda mio padre e mio fratello, e non ci parliamo nemmeno!»

Mi mancava così tanto da fare male. E stavo per esaurire l’uso concesso a una singola persona delle parole «fiducia» e «bugia». In realtà stavo per esaurire le volte in cui potevo usare le stesse scuse con lui in generale. Ne ero consapevole, ma non sapevo come altro spiegare quello che sentivo. Era chiaro che, nonostante le sue scuse, ero decisa a non mollare. Era l’unica corazza che potevo usare per proteggere il mio cuore da lui.

«Perché, ti sei mai fidata? E poi non devi fidarti di me. La fiducia non è la base di un’amicizia. Io non mi fido di nessuno a questo mondo, eccetto mia mamma.»

La notizia mi ha ferita, perché ero convinta di avere io quell’esclusiva nella sua vita. Dio santo, a volte ero davvero patetica.

«Stai dicendo che non ti sei mai fidato di me?» gli ho chiesto, guardandolo come se stessi cercando di perforargli l’anima.

«Non ti rispondo nemmeno. Tanto troveresti il modo di rigirare quel che dico», ha detto con voce piatta.

Visto che restavo in silenzio, ha continuato: «Senti, non saremo mai d’accordo sul perché le cose sono andate come sono andate o se ho ragione io oppure tu, ma possiamo almeno essere d’accordo sul fatto di non essere d’accordo e cercare di essere amici come hai proposto tu l’altra sera?»

«Rigirare quel che dici?!»

Ha annuito.

«E adesso tiri di nuovo in ballo la storia del ‘possiamo essere amici’? Non ci posso credere, davvero.» Camminavo in cerchio, sempre più frustrata a ogni secondo che passava.

«Sei stata tu a proporlo. E poi che scelta ho? Non ti fidi di me e non ne senti il bisogno. Vuoi che resti qui a sentirti blaterare che secondo te sono un uomo di merda? O preferisci che ce ne stiamo qui tranquilli a chiacchierare finché non tornano? Vuoi che me ne vada e continuiamo a ignorarci? Perché sei passata in un minuto dal lamentarti con me della tua famiglia al cacciarmi fuori di casa. Ti restano soltanto due opzioni qui, perché la prima non mi sta bene.»

«Come se fosse così semplice», ho sbottato.

Non sapevo più a che argomento appellarmi, così ho sputato fuori tutto. «Hai aiutato mio fratello ad arruolarsi nell’esercito pur sapendo che ero all’oscuro di tutto. Hai una strana storia con mio padre che non capisco ancora fino in fondo, e mi hai usata per vendicarti di lui. Pensavo che...» mi sono fermata per dare al mio cervello il tempo di mettersi in pari con la mia bocca. «Pensavo che quello che c’era tra noi fosse vero. Dio, che idiota! Ma è così, ho abbassato la guardia per un secondo e mi hai presa per il culo. Non è una cosa da poco per me... Non sono abituata alle persone che mi feriscono senza un buon motivo e non dimostrano il minimo rimorso.»

Kael ha fatto un passo avanti. Il mio salotto non mi era mai sembrato tanto piccolo. «Non ho mai detto di non avere rimorsi, Karina. E non l’ho fatto per ferire te, ma per salvare tuo fratello.»

«Sul serio? Ma se lo conosci appena! Chi cazzo ti credi di essere?» Non avevo gridato, ma non ero nemmeno tranquilla. «A malapena conosci me», ho detto, per ferirlo.

«Ah, non ti conosco? E tu invece ti conosci? Pensi di sapere chi sei?»

Ho fatto schioccare la lingua, furiosa. «Io? Chi cazzo sei tu? Hai tipo cinque personalità.»

«Io?» Si è battuto la mano sul petto, appena sotto la targhetta con il suo nome sull’uniforme della giacca. «Sono il tizio che stai impiegando troppo tempo a sbattere fuori di casa. Quello che accusi di tutti i tuoi problemi. Ecco chi sono. E tu?»

Il modo in cui mi fissava mi rendeva impossibile anche solo pensare di distogliere lo sguardo.

«Una che farebbe volentieri a meno di tutto questo schifo.»

Mi sono allontanata di qualche passo per mettere un minimo di distanza tra noi e provare a difendermi.

«E va bene, allora me ne vado. Fammi sapere quando sei pronta per avere una conversazione civile, per una volta.»

Mi sono girata per guardarlo in faccia. «Per una volta?» ho ripetuto in tono sarcastico. Non riuscivo a credere alla sua sfacciataggine.

«Stai facendo di tutto per litigare, come sempre.» Mi ha scagliato contro quelle parole con tutta la forza che aveva.

«Stai oltrepassando il limite, Martin», ho sibilato.

Lui ha ridacchiato sentendomi chiamarlo con il nome dell’esercito. «Sto oltrepassando il limite perché sono sincero con te? O perché non vuoi sentire certe cose? Ti stava bene finché ti ascoltavo e tenevo la bocca chiusa e ora dici che non ti conosco?» ha ribattuto, con un ghigno. Sembrava il cattivo delle favole, un uomo bellissimo e troppo bravo a mascherare la sua malvagità. Mia madre avrebbe saputo spiegare perché era così.

Ha fatto un passo verso di me e io sono arretrata, rischiando di inciampare.

«D’accordo, allora, terrò per me le mie opinioni sulla tua vita d’ora in poi, ma in genere non è così che funziona una buona comunicazione. E nemmeno la sincerità con cui continui a riempirti la bocca.»

«Io ho cercato di comunicare con te. Ho aspettato che ti scusassi o anche solo che ammettessi che quello che hai fatto è sbagliato. E invece sembra che non te ne freghi nulla. Vieni qui, nel mio salotto, a lanciarmi contro accuse, dopo il modo in cui te ne sei andato l’altra sera! A dirmi che hai mentito per salvare mio fratello. Salvarlo da cosa?»

«Non sei pronta per parlarne. E cosa avrei dovuto fare l’altra sera? Tu mi hai detto di andarmene! Stavamo discutendo, e tu sei scappata in casa. Non avevo fatto niente. Eravamo seduti lì e all’improvviso hai dato di matto. Possiamo rassegnarci a non essere d’accordo, se vuoi, oppure no. Non dipende tutto da me, ma prima o poi, quando sarai pronta, se mai lo sarai, dovremo affrontare una conversazione. Non puoi pretendere che me ne stia ad aspettare finché non decidi di darmi una possibilità.»

Mi sentivo avvilita, impotente, confusa e arrabbiata. Soprattutto con me stessa.

«Non lo so cosa voglio, okay?» L’ho guardato. «So che la mia vita fa schifo al momento, e quando ci sei tu fa un po’ meno schifo. So che sono arrabbiata con te e vorrei soltanto che dicessi che ti dispiace, così potrei smetterla di prendermela con me stessa perché voglio stare con te.»

Mi sono corretta subito, mentre lui elaborava le mie parole. «Cioè, starti vicino.»

Stavamo ansimando entrambi, eppure eravamo fermi immobili, uno di fronte all’altra.

«Mi dispiace. Mi dispiace davvero tanto, Karina. Mi dispiace non averti detto niente e mi dispiace che tu ti sia sentita ferita e abbia perso la fiducia in me. Vorrei poter tornare indietro e cambiare le cose, ma purtroppo non posso. Non posso farci niente. Quel che è fatto è fatto.»

Le sue parole mi avevano commossa, non importava che fossero banali e avessi dovuto praticamente cavargliele fuori io. Avevo bisogno di ascoltarle. Era meraviglioso sentirle penetrare sottopelle.

«Anch’io vorrei poter tornare indietro e cambiare le cose», ho detto.

«Ma non possiamo. Quindi cosa vuoi fare? Sembra improbabile riuscire a evitare di incontrarci, almeno finché non mi trasferisco o non parte tuo fratello. Non so quale delle due cose succederà prima.»

Se lo avessi sentito ancora ricordare la loro imminente partenza, avrei dato di matto.

«Cerchiamo di essere amici e smetterla di battibeccare, una volta per tutte. Per il tuo bene, per il mio, per quello di mio fratello e di chiunque altro al mondo.»

«Tutto qui? Ci rassegniamo a non essere d’accordo?»

«Per il momento sì. Senza contare che oggi ho avuto una notizia fantastica e tra poco mi toglierò dai piedi, quindi smettila di attaccarmi e non rovinarmi il momento.» Il suo sorriso si è allargato.

«Sembri mio fratello», mi sono lamentata, arrendendomi. Ero troppo stanca per continuare e poi ero davvero felice per lui.

«Lo faccio apposta, così puoi dispiacerti per me e accettare tutto quello che dico.»

«Ah, ah.»

Ha riso. Mi sono coperta la bocca e ho riso anch’io. Era un colpo basso e un classico della manipolazione, ma avrei lasciato correre. Ho annuito. Volevo davvero una tregua, anche se fragile come il vaso di vetro soffiato sulla mensola del mio camino. Un altro ricordo di mia madre. Continuavo a pensare a lei ultimamente, non riuscivo a tenerla fuori dai miei pensieri.

«Credo che ti piacerei se mi conoscessi.» Kael ha piegato un po’ le ginocchia per guardarmi negli occhi.

«E va bene. Amicizia sia.» Gli ho allungato la mano per stringere la sua.

Un gesto stupido e impulsivo, ma lui ha ricambiato.

«Amicizia.» Ci siamo dati un’altra stretta teatrale.

Ho lasciato la sua mano per prima e sono andata a sedermi sul divano. Lui mi ha imitata, sedendosi dal lato opposto al mio. Il divano è sprofondato leggermente sotto il suo peso e la cosa mi ha confortata come una coperta calda.

«Quante strette di mano ci daremo? E sono autorizzato a parlare in questo nuovo accordo? Vorrei negoziare i nuovi termini visto che abbiamo rescisso il precedente.» Ha rovesciato la testa all’indietro.

«Forse.» Ho sorriso, finalmente sollevata.