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AVEVO accettato di andare, spinta soprattutto dall’eccitante prospettiva di battibeccare con Kael. E anche dal fastidio per il fatto che le amiche di Elodie non avevano nemmeno pensato a invitarmi, o peggio, non mi avevano invitata di proposito. Lo avrei scoperto presto.
L’ansia mi aveva annodato lo stomaco, mi ero già pentita di essere salita sul furgone di Kael. La sua sagoma appariva sempre più vicina nello specchietto retrovisore. Mi aveva chiesto di aspettarlo a bordo. Avevo provato a replicare, ma il dolore dei graffi alle braccia mi aveva convinta a chiudere la bocca e sedermi in macchina a guardarlo caricarsi le mie due piante nuove sottobraccio. Era forte, il corpo di un uomo che portava il mondo sulle spalle ovunque andasse.
Quando è arrivato a pochi passi di distanza, ho alzato il volume della musica. Lui si è messo a sistemare la poltrona e le piante nel retro del furgone. L’ho osservato giocare a Tetris per qualche secondo, mi sono offerta di aiutarlo, poi ho lasciato perdere. Ho pensato ancora una volta di svignarmela, ho agganciato e sganciato la cintura di sicurezza per noia e ho controllato il cellulare. La mia foto della poltrona viola continuava a ricevere «mi piace» su Instagram. Era un bello scatto, d’accordo, ma non mi aspettavo di certo tanta attenzione.
Era strana, l’eccitazione che provavo scorrendo la lista di nomi più o meno familiari. In genere non me ne fregava niente di tutte quelle persone, davo solo un’occhiata alle loro pagine social quando non avevo nulla da fare. Ma ora che, grazie alla foto della poltrona, ero tornata in mente, per esempio, ai miei ex compagni del liceo, mi chiedevo cosa pensassero di me e della mia vita dopo il diploma. Speravo di dare l’impressione di condurre un’esistenza più piena di quanto non fosse davvero. L’ultimo anno di scuola risaliva già a tre anni prima, ma non mi pareva che fosse passato tanto tempo. Forse perché, a parte procurarmi un tetto sulla testa, non avevo fatto granché della mia vita, oltre a prendere il diploma da massaggiatrice, il che era fantastico, ma erano già passati due anni. Nel frattempo Kael era stato in missione due volte. Avevo i brividi, anche se fuori faceva un caldo bestiale.
«Passiamo prima a casa mia a lasciare le cose?» ho chiesto a Kael. «Puoi seguirmi con il furgone.»
Lui ha abbassato il volume della musica e ha scosso la testa. Si è afferrato l’orlo della maglietta e lo ha usato per asciugarsi il sudore della fronte. Dio, d’un tratto l’abitacolo sembrava minuscolo, nonostante fosse un Ford Bronco.
«Nemmeno per sogno», ha sorriso, continuando a frizionarsi.
Non ho sbirciato la pelle nuda sotto la maglietta, malgrado ogni fibra del mio corpo non desiderasse altro.
«Perché no?»
«Perché poi non vieni a casa di Tharpe con me. Mi fai scaricare la tua roba e ti tiri indietro, ne sono sicuro. Ti cono...»
Si è fermato prima di finire la frase.
«Ma quando mai!» Ho riso della sua sfacciataggine, anche se era andato molto vicino alla verità. «Voglio dire, sì, forse ci proverei, ma chissà... Magari andiamo e ci divertiamo.»
Ho colto il significato di quello che avevo detto nel suo stesso momento.
Mi sono affrettata a correggermi. «Non noi. Volevo dire io. Mi diverto.»
Mi ha guardata, più scettico che mai, ma i suoi occhi si sono accesi in un modo che mi ha quasi convinta.
«Karina, vuoi davvero farmi credere che verrai? Perché posso anche portarti le cose a casa e basta. Non sei obbligata. Penso solo che a El farebbe piacere. Sei importante per lei.»
Ho sbuffato, agitando le gambe, e sono finita più vicina a lui.
«Lo so, ma mi sembra di essermi autoinvitata, e poi non posso venire conciata così!» Ho indicato i miei vestiti. «Dai, ho un buco nella maglietta.» Ci ho infilato dentro un dito. Per fortuna, almeno le unghie erano a posto. «Farei la figura dell’idiota.»
«Per niente», ha replicato, come se non fosse strano farmi un complimento.
«Grazie», ho risposto, guardandolo negli occhi.
Gli si è mozzato il respiro. Forse non voleva fissarmi in quel modo, ma i suoi occhi dicevano tutt’altro.
Sono passati diversi secondi senza che nessuno dei due si muovesse. Nessun pensiero coerente riusciva a formarsi nella mia mente. Lo percepivo, vicinissimo a me, tutto intorno a me. La cosa più vicina alla sensazione che provavo era un bagno rilassante e rinfrescante alla lavanda.
Si è proteso in avanti e il mio cuore ha accelerato così tanto che ho temuto lo sentisse anche lui.
«Visto che possiamo essere amici?» Le sue parole sono crollate tra noi come una pioggia di sassi.
Ho battuto le palpebre, un po’ perplessa e molto imbarazzata di aver pensato per un attimo...
Non sapevo cos’avevo pensato. Ho scosso la testa, spostandomi verso il finestrino, lontano da lui.
«Vedremo, non farti troppe illusioni.» Ho cercato di mantenere il tono più leggero e al tempo stesso meno disperato possibile.
«Non mi faccio nessuna illusione, Karina.»
Ha inserito la retromarcia.
«Ehi, dove vai? La mia macchina è qui!» ho gridato, mentre schiacciava l’acceleratore.
«Ti sto solo accompagnando alla tua auto», ha risposto, con un sorrisetto stampato in faccia mentre sterzava. Ho afferrato la maniglia e ho riso con lui, con il mio cuore che martellava. Persino lo stereo era spento.
Ha superato qualche fila di auto parcheggiate e si è fermato accanto alla mia.
«Grazie del passaggio», gli ho detto, spalancando la portiera per uscire. Ho sentito aprirsi la sua mentre facevo il giro del furgone per raggiungere la macchina. Lui era in piedi dal lato del guidatore. Si sfregava una coscia mentre aspettava che salissi.
«Ti dà fastidio la gamba?» ho chiesto, guardandola.
Speravo proprio di no, soprattutto perché aveva trasportato una poltrona pesante e due vasi di piante per me. Ma la mia domanda è stata accolta dal silenzio. Anche quando restava a dormire a casa mia teneva sempre la gamba coperta, e mi ero così abituata a non chiedere niente che, onestamente, a volte mi dimenticavo della sua ferita.
«Sto bene. Ti seguo, allora.» Ha fatto penzolare il portachiavi sull’indice e ha guardato la statale, un centinaio di metri più in là.
Mi ha aperto la portiera della macchina, che non avevo chiuso.
«Non dovresti lasciarla aperta da queste parti. In nessun posto, a dire il vero.» Ha aggrottato le sopracciglia e si è sfregato le tempie con un dito.
«Adesso ci sto molto più attenta», ho risposto, e non era del tutto falso.
«Sì...» Ha indicato la portiera aperta. «Vedo.»
Gli ho fatto una smorfia mentre gli passavo davanti per mettermi al volante. Kael ha chiuso lo sportello prima che riuscissi ad afferrare la maniglia e ha battuto la mano contro il finestrino.
«Sai una cosa? Preferivo quando parlavi meno.»
«Non ne dubito.» Ha riso, e la sua voce si è allontanata mentre saliva sul suo furgone.
Quella giornata non sarebbe potuta essere più diversa da come me la aspettavo. Mi sono chiesta se, notando il suo Bronco nel parcheggio, sarei comunque entrata al mercato. Dopo essergli stata così vicina, la mia mente girava a mille.
Mi faceva impazzire, era inutile negarlo.
Ho acceso la radio. Stava giusto finendo una canzone, le note finali coperte dalla voce di Ryan Seacrest che pubblicizzava un’app per il dating. L’universo non si stancava di prendermi per il culo. Grazie, Ryan.
Ho cambiato stazione, ho impostato l’indirizzo di casa sul navigatore e ho piazzato il cellulare nel portavivande per poter guidare tranquilla. Probabilmente Kael non avrebbe avuto bisogno delle indicazioni, quindi forse sarebbe stato meglio far andare avanti lui.
Sono uscita dal parcheggio, con Kael dietro. Non riuscivo a credere che quelle arpie avessero organizzato un baby shower per Elodie senza invitarmi. Avevo passato la mattinata ad angosciarmi all’idea di un barbecue, stressandomi a sufficienza. Se fossi stata coinvolta nella festa, forse sarebbe stato anche peggio, tra l’ansia di trovare un regalo, aiutare con le decorazioni, coordinare persone che conoscevo a malapena. Quindi non mi dispiaceva perché mi sentivo tagliata fuori; la cosa che mi infastidiva di più era che fossero riuscite a organizzarle la festa prima di me. Ero la sua più cara amica, voglio dire, vivevamo insieme. Ufficiosamente o meno, dormiva a casa mia, sul mio divano, ogni sera.
Elodie avrebbe pensato che tenevano a lei più di me. Toni, la stessa ragazza che era andata a prenderla al pronto soccorso, probabilmente aveva addobbato tutta la casa per l’occasione, ed Elodie ne sarebbe stata felice. Senz’altro casa sua era molto più grande e bella della mia. Detestavo che quella gente avesse il potere di farmi sentire così insicura. Non volevo essere quel tipo di persona, ma qualcosa nel mio cervello mi costringeva a esserlo.
Ho guardato nello specchietto il Bronco bianco di Kael che mi tallonava. Per un attimo la sua presenza mi ha fatta sentire meglio. Ha placato il flusso incontrollato di pensieri che mi stava travolgendo. Per mia sfortuna, non potevo guardarlo e guidare contemporaneamente.
Più mi avvicinavo a casa e più mi innervosivo all’idea di andare al baby shower. Non ero invitata e, una volta arrivati, non avrei avuto tempo di prepararmi. Mi sono leggermente sollevata sul sedile per darmi un’occhiata nello specchietto retrovisore. Non ero del tutto impresentabile, la mia pelle era più bella dei giorni precedenti. Bastava che mi cambiassi e mi mettessi un po’ di mascara e di rossetto.
Giunti nel mio vialetto, però, mi ero convinta a non andare. Kael se lo aspettava, e anch’io, però era stato bello sognare a occhi aperti di partecipare a una festa insieme. Ero pressoché certa che non avrebbe piantato una storia infinita, magari solo un classico «Te l’avevo detto», ma non mi interessava, l’importante era evitare di essere socialmente torturata. Ha aspettato vicino al furgone mentre aprivo la porta sul retro e la zanzariera.
«Che sorpresa, la porta è chiusa!» ha gridato Kael dal vialetto.
Ero contenta di non dover trovare una scusa per tirarmi indietro, con lui. Lo aveva previsto, ovviamente, ma non mi avrebbe costretta ad andare con lui a quella festa, implorandomi come faceva Austin quando eravamo ragazzini.
«Sei sicuro di non aver bisogno di aiuto?» mi sono offerta mentre scaricava i miei acquisti.
«No, lascia solo la porta aperta, okay?»
Il vicino, Bradley, è uscito in veranda, ha lanciato un’occhiata a me e Kael, ci ha salutati cortesemente, ha afferrato il giornale ed è tornato dentro. Chissà se sapeva che poteva leggerlo online. Non sembrava il tipo.
Ho fatto un cenno a Kael, che ha sollevato la poltrona dal furgone. Poi sono andata un attimo dentro per spostare quella vecchia e fare posto alla nuova e, mentre entrava in casa mia, mi sono sforzata di pensare a qualcosa da dire. In sua presenza facevo sempre fatica a non riempire il silenzio.
Gli ho indicato dove piazzarla. Kael l’ha messa giù con cura e ha guardato l’altra.
«Non la butti via, vero?»
Ho annuito. «Forse sì, è vecchia.»
«Ma è comodissima.»
Sono scoppiata a ridere, ricordando le sue gambe che penzolavano dal bracciolo durante uno dei suoi pisolini. Sembravano passati secoli. Chissà se stavamo pensando la stessa cosa. Mi sembrava di sì.
«Puoi prenderla, se vuoi.»
Il suo viso si è illuminato. Non mi aspettavo una reazione simile per una vecchia poltrona che avevo sottratto a mio padre quando Estelle aveva ristrutturato casa loro.
«Te la pago», ha detto, facendo per prendere il portafogli. «Oppure facciamo che non mi devi più niente per la tua. Poltrona per poltrona.»
«Poltrona per poltrona? Sei tu a perderci, mi sa. Ma se ne sei consapevole, accetto.»
«Lo sono.» Ha sorriso. «Mi piace tantissimo, ci ho dormito come un bambino.»
Ho immaginato Kael che dormiva in un sacco a pelo nel deserto, il suo corpo costretto ad abituarsi alla forte escursione termica.
Lui ha guardato il cellulare. Gli ho detto: «Rispondi pure, non preoccuparti».
Ho aspettato un paio di secondi mentre scriveva un messaggio, poi ha alzato gli occhi. «Ultima chance di venire al baby shower.»
«Guarda, ti invidio per quanto ti divertirai, ma... ho da fare. Sarà quasi finito, ormai, e non ho nemmeno un regalo. Anzi, non ho neanche le scarpe.»
Lui si è appoggiato allo schienale della sua nuova poltrona e mi ha fissata.
«Okay», ha detto, con un profondo sospiro.
«Okay?» ho ripetuto.
«Posso portare i tuoi saluti.» Ha scrollato le spalle.
«Così sapranno che mi hai vista. Non mi va, Elodie ci rimarrebbe male. Sono stanca, sono stata in giro tutto il giorno e...»
Ha alzato una mano per fermarmi. «Ho capito. Il tuo nome non uscirà dalla mia bocca. Comunque resto dell’idea che dovresti venire e mandarle tutte al diavolo. Io devo andare, però, sono fin troppo in ritardo.»
«Vai pure», ho detto, troppo in fretta. Iniziava a prudermi il collo. Non vedevo l’ora che quella giornata terminasse.
«Okay.» Ha ridacchiato. Ero contenta che non ne stesse facendo un problema, ma parte di me avrebbe voluto che provasse almeno a convincermi. Dio, ero proprio fuori di testa.
«Ti porto dentro le piante prima di andare.»
Era di nuovo al telefono. Forse in realtà non voleva che andassi. Chissà da quanto tempo sapeva della festa. Magari stava chattando con qualcuno che era lì e non avrebbe gradito la mia presenza, oppure era lui stesso a non volermi. Non facevo parte di quel gruppo, a differenza sua. Anche se non lo frequentava spesso, almeno era del plotone ed era amico di gran parte dei ragazzi. Il mio cervello ha ricominciato a vagliare una serie di teorie complottiste nelle quali Elodie aveva raccontato alle altre mogli dei militari di me e Kael, e il mio petto ha cominciato a bruciare.
«Karina? Stai bene?» mi ha chiesto.
La sua voce mi ha riportata bruscamente alla realtà. La mia mente si avventurava sempre in luoghi estremi. Avrei preferito di no, ma ero fatta così. Da sempre.
«Sì», ho risposto, a denti stretti.
Kael se ne sarebbe accorto, ne ero certa. E poi mi avrebbe guardata e avrebbe detto qualcosa, sfiorandomi l’orecchio con le labbra, come quando si svegliava nel mio letto dicendomi...
«Sei sicura?» ha insistito. «Non sto parlando di me e te. Parlo di te, in generale.» Era fermo sulla soglia di casa mia, immobile come una statua e con la mascella serrata.
Ho annuito. «Sì, sono soltanto stanca. È stata una lunga giornata, e domani lavoro. Ho bisogno di una doccia, ma sto bene. Davvero.»
Ha sospirato e si è grattato il mento liscio. «Okay, ci vediamo, allora.»
«Ci vediamo», ho ripetuto.
Ha esitato prima di parlare. «Karina?»
L’ho guardato. «Sì?»
«I capelli ti stanno molto bene così», ha commentato, indicando la mia testa. Me li sono sistemati con la mano, a disagio.
Lui ha afferrato con un braccio la vecchia poltrona, facendo passare l’altro intorno allo schienale. Sono rimasta lì, non sapendo cosa dire a parte un «grazie» borbottato.
Ha portato via la poltrona dal mio salotto senza guardarsi indietro. Ho lasciato la porta aperta perché potesse portare dentro le piante e ho aspettato in cucina finché non l’ho sentita richiudersi. Ero confusa, e lui mi stava confondendo ancora di più. Sono andata a girare la chiave nella serratura, poi ho acceso la televisione e ho alzato il volume al massimo per non sentire il rombo del motore del suo furgone che si allontanava. Adesso che ero di nuovo a casa, da sola, le piante sembravano molto meno eccitanti di prima, come se avessero perso la loro magia. La poltrona, invece, era più bella che mai. Mi sono seduta, ho accarezzato la stoffa e ho cercato di rilassarmi e non pensare al baby shower, a Kael e a quanto fosse stata strana quella giornata.