11

 

 

Pedinare Ivan Bisenic´ si rivelò molto semplice. La sua vita era un compasso che disegnava all’infinito il medesimo cerchio. Di giorno il suo raggio d’azione si spostava dalla casa in un quartiere popolare agli uffici del movimento. La sera si estendeva alle birrerie del centro o al cineclub della residenza universitaria, specializzato in pellicole a sfondo sociale.

 

Per rovescio della medaglia, stargli dietro si rivelò altrettanto inutile. Se c’era ancora, l’amicizia con il colonnello Dragojevic´ non era onorata da una frequentazione abituale. Da par­te del professore mai un movimento sospetto, mai un incontro con qualcuno che odorasse di milizia serba. Sempre le stesse azioni, che denotavano un impegno politico e culturale totalizzante.

 

Soltanto una volta il tema registrò una variazione. Una mattina vedemmo Ivan entrare in ospedale. Provammo a seguirlo, ma i militari all’ingresso ci sbarrarono la strada. Non insistemmo, per accedere avremmo dovuto esibire i documenti rivelando così la nostra identità. Ci fermammo a qualche metro di distanza, lui un quarto d’ora più tardi era già uscito.

 

Fu una giostra di percorsi ripetuti fino a che, dopo giorni di estenuanti scarpinate, io e Steve ci convincemmo che anche la pista Bisenic´ non portava da nessuna parte. Una mattina andai a parlarne con Mark Stone, che allargò le braccia.

 

«È l’unico contatto che ci risulta. Temo che dovremo ripartire da zero, cercare altre notizie».

 

Alzai le spalle con aria rassegnata. Stavolta l’inglese era sincero, non aveva idea di dove indirizzarmi. Io dal canto mio ne sapevo ancora meno. Fu il primo momento di vuoto dal mio arrivo a Banja Luka, pensai di riempirlo con un diversivo. Telefonai ad Antonio proponendogli un incontro. Lui al principio rimase sulle sue, mi rimproverava di non essermi fatto vivo prima. L’arrabbiatura gli durò poco, il tempo di far affiorare la sua natura ironica e al tempo stesso generosa.

 

«Lasciamo perdere, che è meglio. Piuttosto non avverti nell’auricolare un sottofondo, tipo uno sciame di api in movimento? Nel mio ufficio il caffè sta salendo, se non ti sbrighi lo bevi freddo!».

 

Quando entrai nella sua stanza la macchinetta gorgogliava, Antonio l’aveva azionata con perfetto tempismo. Il suo rumore gioioso sarebbe divenuto il segno distintivo della nostra amicizia.

 

Mi trattenni con lui a lungo, non avevo altro da fare. A Sarajevo mi avevano dimenticato, il colonnello Valenza era impegnato con una delegazione della Farnesina che alternava ispezioni ai reparti italiani a pantagrueliche cene nei ristoranti più in della città.

 

Quel giorno Antonio non mi risparmiò le sue frecciate in merito a Jacqueline. A suo avviso mi ero lasciato sfuggire un’occasione d’oro.

 

«Non mi hai mai chiamato, okay, io sono brutto e cattivo. Ma nemmeno con lei ti sei fatto sentire, ti rendi conto? Guagliò, vedi che il mondo non gira attorno a te! Quello è un mammifero di lusso, credi che si metta alla finestra ad aspettare il signor Rocco Liguori? Ma forse lo fai apposta, preferisci che si trovi qualcun altro».

 

Il mio sguardo si spostò verso Steve in cerca di sostegno. Peggio che andar di notte. Era passato al nemico, approvava le parole di Antonio con vistosi cenni del capo. Mi ero allevato una serpe in seno. Gli rivolsi un’occhiata torva e mi difesi da solo, promettendo che l’avrei chiamata presto. Antonio obiettò che il presto era passato da un pezzo.

 

«Va bene, mo’ ci penso io a te» tagliò corto. «Stasera uscia­mo con le amiche di Jelena, che sono una più figa dell’altra. Sapevi che a Banja Luka ci sono sette donne per ogni uomo? Te ne porto ventuno, te ne porto, voglio vedere se ne trovi una che ti aggrada!».

 

Accettai. Non ero in vena di conquiste, la mia casella del cuore era già occupata, ma l’invito di Antonio conteneva un elemento degno d’interesse. Alla serata avrebbe preso parte la sua assistente. Della ragazza mi aveva colpito il cambiamento di umore quando il discorso, a tavola, era caduto sul sostegno della Croce Rossa ai criminali di guerra. Un nuovo incontro era un’occasione per capirne di più.

 

Ci trovammo qualche ora dopo davanti alla birreria. An­tonio non aveva esagerato: all’appuntamento, con lui e Je­le­na, si presentarono quattro sventole che parevano uscite dalla selezione di Miss Universo. Steve prese subito a lanciarmi occhiate d’incoraggiamento, io lo ignorai. Mi sedetti accanto a Jelena che, laureata in letteratura italiana con tesi su Dante, parlava la mia lingua con una simpatica cadenza fiorentina.

 

Mi avrebbe fatto da interprete, le dissi ridendo. In realtà emerse che l’intero gruppo comprendeva alla perfezione quanto dicevo essendo tutte allieve di Antonio.

 

Il mio amico si comportava come se fosse il padrone del locale: chiamava i camerieri a voce alta, entrava in cucina a controllare la cottura delle pietanze. Quanto al bere, ordinò birra per tutti. Nell’aria densa di fumo, una patina di leggerezza coprì il dolore per l’intera se­ra­ta. Non era poco. Tutte le mie commensali avevano perso in guerra qualcuno o qualcosa d’importante: il fidanzato, un fratello, la casa, il lavoro.

 

Lasciai che la conversazione si spostasse sul conflitto recente in modo naturale, senza porre domande che non fossero giustificate dal contesto. Loro si limitarono a risposte accennate, ma ormai ero abbastanza addentro alla vicenda per cogliere le più piccole sfumature.

 

Aspettai che il clima si fosse riscaldato a sufficienza, poi sollecitai Jelena a parlarmi dei suoi studi danteschi. Mi ero fatto i miei conti: la poesia del Trecento, a tavola, non è il tema più gettonato, e gli altri avrebbero presto smesso di seguirci. Andò come avevo previsto. Quando fui certo che nessuno ci ascoltava lanciai la domanda che avevo in mente dall’inizio.

 

«Ti ricordi la cena dell’altra sera? A un certo punto, mentre i colleghi criticavano il lavoro di Jacqueline, mi è parso che tu fossi triste».

 

La mia frase le provocò lo stesso effetto della volta precedente. Gli argomenti letterari le avevano acceso gli occhi di luce, in un attimo il suo volto tornò a incupirsi.

 

«La Croce Rossa aiuta i criminali di guerra, non lo sapevi?».

 

Simulai un accento di perplessità.

 

«Da come lo dici sembra che forniscano un sostegno militare. In realtà si limitano a dare assistenza sanitaria, come ri­chiede la loro missione».

 

«Se curi un soldato ferito quello tornerà a combattere».

 

«Forse. Ma medici e infermieri devono prestare soccorso a chi ne ha bisogno. Non ci vedo nulla di strano».

 

Caricavo apposta le mie affermazioni di un candore eccessivo, per provocare una reazione che non tardò ad arrivare.

 

«Qui è pieno di cose strane, Rocco, mi meraviglia che tu non te ne sia ancora accorto. L’atteggiamento della nato, per esempio. Almeno su quello dovresti esercitare il tuo spirito critico, viste le insegne che porti».

 

Si era scaldata, complici la birra, il cibo e un’atmosfera familiare che abbatteva ogni barriera. Era il momento d’insistere, non mi lasciai sfuggire l’occasione.

 

«Cosa vuoi dire?».

 

«I criminali ricercati se ne vanno in giro tranquillamente per la città, vi passano sotto gli occhi e non li prendete. Ti sembra normale?».

 

Provai un brivido, il discorso aveva preso la piega che speravo. Al tempo stesso mi sentii toccato, la sua accusa riguardava anche me.

 

«Guarda che ti sbagli» replicai con veemenza solo in parte studiata. «A voi del posto sembra semplice, certe persone le avete viste crescere e fate presto a riconoscerle. Per noi è più difficile, nella migliore delle ipotesi abbiamo qualche vecchia foto».

 

Dicevo il vero, ma pure Jelena lo aveva fatto. Prese tempo in cerca della risposta migliore, nel frattempo si portò alle labbra il boccale. Lo svuotò in un sorso e mi fissò.

 

«Sei sicuro che le cose stiano come hai detto? Prendere un uomo che si trova in ospedale attaccato a un respiratore è tanto difficile?».

 

Riuscii a stento a trattenere un sussulto. Milan Dragojevic´ soffriva di disturbi ai polmoni, c’era scritto nel suo fascicolo. La ragazza si riferiva proprio a lui. Provai a farmi dire di più, lei si chiuse in un silenzio ostinato. Non si fidava di me, pensai subito, poi realizzai che la questione era diversa: aveva paura che qualcuno intercettasse il nostro discorso.

 

Si guardava intorno con aria preoccupata. Riprese a parlarmi del Canto di Paolo e Francesca, un tema che avevamo interrotto all’inizio della cena. Fino al momento dei saluti non ci fu verso di tornare in argomento.

 

A spiegarmi il motivo dei suoi timori fu Antonio il giorno dopo. Jelena non apparteneva alla maggioranza serba, i suoi genitori erano un croato e una musulmana. L’aveva assunta per quello all’università, scegliendola fra diversi candidati in possesso dei requisiti. Lei aveva un bisogno disperato di lavoro, nessun altro in città glielo avrebbe offerto. Il mio amico invece, grazie alla considerazione di cui godeva, aveva potuto inserirla nel suo feudo senza che qualche fanatico si permettesse di fiatare.

 

Le altre ragazze erano serbe, come quasi tutte le persone rimaste a Banja Luka dopo la guerra. Moderate quanto basta per sedersi a tavola con una della parte avversa, ma non tanto da poter scommettere sulla loro discrezione.

 

Se una di loro l’avesse scoperta a darmi informazioni, il rischio che lo riferisse alle orecchie sbagliate sarebbe stato elevato.