18

 

 

Dal colonnello Valenza non arrivò la telefonata promessa. Fece di più: fu lui stesso a presentarsi anche se, da come fu annunciato, sembrò che fosse una delle periodiche visite al comando britannico.

 

M’informò del suo arrivo un maresciallo della sua segreteria, la modalità più ordinaria. Quando vidi il mio comandante scendere dal mezzo, però, mi accorsi subito che l’aria era diversa. Contrariamente al solito si presentò alla Metal Factory senza nessuno dei suoi ufficiali. Solo lui e il suo autista, a indicare che aveva preferito muoversi in modo riservato. Per que­sto non mi stupii quando mi propose di pranzare fuori dalla base, in abiti civili.

 

«È molto tempo che non andiamo al ristorante del castello. Hanno sempre quelle magnifiche trote salmonate?».

 

Non me lo lasciai ripetere, avevo bisogno anch’io di parlargli liberamente.

 

«Chiamo subito per prenotare».

 

Mentre componevo il numero mi fermai. Per essere certo che avremmo conferito a quattr’occhi mancava un dettaglio. «Ci serve un tavolo per due o vengono anche gli autisti?».

 

Lui mi diede una pacca sulla spalla.

 

«Facciamo per due, così mi aggiorni sulle tue conquiste elvetiche».

 

Anche se in modo strumentale, tornava a battere il tasto di Jacqueline. E sì che mi ero guardato dal parlargliene, era stata lei a dirgli del nostro incontro. Chissà perché era andata a trovarlo a Sarajevo, me lo chiedevo ancora.

 

Qualunque fosse la ragione, il colonnello Valenza era ormai entrato nella questione. Mentre guidavo verso il locale ci tenne a dirmi la sua. Definendosi “una vecchia battona da caserma”, un’espressione che amava molto, affermò di aver notato una luce inequivocabile negli occhi della ragazza.

 

«Quella è cotta di te, Liguori. Non mi sbaglio, fidati» soggiunse con fare da esperto. Io non risposi.

 

Lo chiamarono al telefono. Una conversazione con qualcuno del comando che lo impegnò per buona parte del tragitto. Io stringevo il volante in silenzio, chiedendomi se il mio capo, su Jacqueline, avesse visto giusto.

 

Una volta a tavola l’argomento dell’amica di Ginevra non fu più sfiorato. La cosa non mi stupì, il colonnello non aveva certo voluto che fossimo soli per parlarmi di lei.

 

«Rocco, abbiamo un problema» mi disse mentre gli riempivo il bicchiere di un mosto locale che in Italia non avrebbe degnato di uno sguardo.

 

L’affermazione non prevedeva risposta, attesi che fosse lui a continuare.

 

«Nei palazzi che contano, a Roma, non vogliono che facciamo questa operazione».

 

Terminai di mescere il vino, asciugai lentamente la bottiglia con il panno e la riposi nel cestello del ghiaccio. Nessuna reazione. Dentro mi sentivo scoppiare. Mi sforzai di replicare con un tono pacato.

 

«In quanto a palazzi, conosco solo quello dell’ospedale. Dove si nasconde un criminale di guerra ricercato dal tribunale internazionale».

 

Negli occhi del comandante passò un lampo. La pensava esattamente come me, ma doveva recitare il suo ruolo fino in fondo.

 

«Non mi sono spiegato. Questo Paese non è l’Italia, non siamo noi ad avere la sovranità. Certe decisioni devono tener conto di molti fattori».

 

«La politica, certo. E lei è d’accordo, colonnello? È di­spo­sto a obbedire? Se è così dovrà mettere al mio posto qual­cun altro, perché io non lo farò. Me lo vado a prendere da solo quel bastardo!».

 

«Cerca di capire, Liguori».

 

Mi aveva chiamato di nuovo per cognome. Chissà se era stato casuale o se lo aveva fatto per riprendere le distanze. Ci guardammo a lungo senza dire una parola. La sua espressione era dura, ma io gli tenni testa. Alla fine fu lui ad abbassare gli occhi.

 

Mi versò dell’altro vino. Poi tornò a fissarmi. Non era arrabbiato, tut­t’al­tro. Aveva previsto la mia reazione, e non era tipo da fare tanta strada senza un piano alternativo. Mi aveva messo alla prova, tutto qui, e io l’avevo superata. Si schiarì la voce.

 

«Non posso ribellarmi apertamente a una decisione presa a un livello così alto. Forse però…».

 

Pendevo dalle sue labbra. Lui mi tenne sulla corda ancora un attimo, poi vuotò il sacco.

 

«Forse possiamo procedere in un altro modo, se sei di­sposto a rischiare in prima persona. Ufficialmente l’msu non deve figurare, visto che l’Italia ha scelto di tenersi fuori. Ma conosco Mark e credo che sarà d’accordo».

 

Di colpo compresi dove volesse arrivare. Mi colse un moto di rabbia.

 

«Vuol lasciare a loro l’intervento? Dovrei restare a guarda­re mentre gli inglesi mi tolgono le castagne dal fuoco, ri­schian­do di prendersi un proiettile al posto mio?».

 

I miei pugni sul tavolo erano serrati. Il colonnello mi posò una mano su un braccio e la tenne ferma lì, a trasmettermi la sua forza. L’espressione del suo viso era incredibilmente calma.

 

«Non è detto che debba andare così. Tu potrai esserci se vuoi, l’importante è che ufficialmente io non lo sappia. È il mio comando che deve starne fuori, visto che è a me che hanno vietato di agire».

 

Non credevo alle mie orecchie. Tutto ciò che avevo imparato della vita militare si era capovolto nel tempo di un bicchiere di vino. La disciplina, gli ordini, la gerarchia: un mare di cazzate, la vita vera era altro. Esplosi.

 

«Ho capito. Se qualcosa va storto sarà stata una mia iniziativa».

 

Valenza non si scompose.

 

«In caso di intoppi avrò la possibilità di aiutarti. È proprio per questo che devo rimanere defilato. Se fossi coinvolto an­ch’io non ci sarebbe nessuno, più in alto, disposto a pararci il culo».

 

Mi presi una pausa, fissando il vino nel bicchiere senza toccarlo. La situazione che avevo davanti era del tutto nuova. Per il lavoro ero disposto ad assumermi dei rischi, ma agire con­tro le direttive del mio Paese non mi era mai balenato. Ero confuso. Arrestare i criminali era il mio pane e non capivo per­ché, all’improvviso, in un compito tanto chiaro fosse emerso qualcosa di sbagliato.

 

«Allora, ci stai?» m’incalzò il colonnello.

 

La domanda diretta, il volto franco, la mano pronta a stringere la mia ebbero l’effetto di una scossa. Di colpo realizzai che la mia decisione poteva essere solo una. Abbozzai un mezzo sorriso.

 

«Mi dispiace, a queste condizioni non farò nulla. Per me l’operazione Dragojevic´ finisce qui».

 

Mi alzai. Ci mise un attimo a capire. Sollevò lo sguardo, mi strizzò l’occhio, io non ricambiai. Nessuna confidenza, da quel momento il nostro rapporto cambiava. Per me lui diventava un complice, non un superiore. Non c’erano più i regolamenti, i loro dettami erano distanti quanto i confini dell’Italia. C’era una decisione da prendere, di fronte a quella due uomini.

 

Il colonnello l’aveva presa partendo da Sarajevo senza i suoi ufficiali, io lo facevo in quell’istante. Non so se il mio commen­sale sapesse dall’inizio come sarebbe finito il nostro pran­zo, ma l’arte del comando si esprime spesso in una scelta. Dal suo ufficio di Roma, in un tempo che mi sembrò lontanissimo, lui aveva chiamato proprio me. Per la lotteria dei Balcani aveva puntato sul mio numero.

 

Non lo avrei deluso. Si era fidato, nel muto accordo appena siglato anche lui rischiava molto, se pure in modo diverso. Una mia parola e la sua carriera trentennale sarebbe finita nel fango. Io ero la sua garanzia e lui la mia, io la linea avanzata e lui la retrovia di difesa. La sua posizione era sicura solo a patto che io non lo tradissi.

 

Raggiunsi l’auto, dove mi fermai al posto di guida, in attesa. Arrivò dopo un minuto. Dal ristorante alla base restammo in silenzio, non c’era più niente da dire.

 

Ripartì qualche ora più tardi, una volta concluso il rito dei colloqui con lo stato maggiore della divisione britannica. Davanti al suo mezzo col motore acceso gli feci il saluto militare, guardandolo negli occhi. La finzione ripartiva da lì.

 

Strinsi la mano al suo autista. Di lui si era occupato Steve, portandolo a pranzo alla base e offrendogli la propria branda perché schiacciasse un pisolino. La tirata che lo aspettava era lunga.

 

Vidi il fuoristrada avviarsi verso il cancello e solo allora mi voltai indietro. Dentro di me c’era una determinazione nuova. Il mio vero lavoro, nella Bosnia dei dilanianti conflitti e dei secolari intrighi, incominciò in quel momento.