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A cena ci tenemmo lontani da ogni schermaglia amorosa, con buona pace del lume di candela, della vista mozzafiato e del Barolo che non avevo mancato di portare. Al bando i giochi di sguardi e parole che spesso ne precedono altri.

 

Il rösti era magnifico e così la raclette. Parlammo di arte moderna e letteratura mitteleuropea. Delle analogie fra gli slavi del sud – la parola jugoslavi vuol dire questo – e gli italiani. Una casa comune, con le sue finestre affacciate sul Mediterraneo e la secolare dominazione veneziana. Da quei discorsi fu naturale arrivare alla situazione politica della Bo­snia. Nei giornali locali campeggiava allora la questione di Brc?ko, una terra contesa a cui nessuna delle parti intendeva rinunciare.

 

«Anche i serbi hanno le loro ragioni» affermò la padrona di casa versandomi del vino.

 

Fu sull’ultimo sorso che prese a parlarmi del suo lavoro. C’era qualcosa che la turbava, fin dall’inizio lo avevo sentito. Un nodo, dentro di lei, che doveva sciogliere a ogni costo. Fino a quel momento si era trattenuta, ora l’atmosfera rilassata la induceva a confidarsi.

 

«A volte mi chiedo se quello che faccio rispetti davvero i diritti umani».

 

«Cosa intendi?».

 

«Ti ricordi l’altra sera, a Banja Luka? I discorsi dei miei amici. Non è che avessero tutti i torti».

 

Dalle colline spirava un forte vento, lei si alzò per chiudere la finestra. Aspettai in silenzio che riprendesse il suo posto e il suo discorso.

 

«Quando ho abbracciato la Croce Rossa m’illudevo di contribuire al progresso dell’umanità» mi disse mantenendo lo sguardo sul panorama cittadino. Si accese una sigaretta, poi tornò a guardarmi. «Tu puoi capirmi, vero? Anche la tua scelta è basata su un ideale».

 

Annuii senza parlare, le fu sufficiente per proseguire.

 

«Quando passo da un fronte all’altro per il mio lavoro, dico a me stessa che lo faccio per la pace. In realtà nelle guerre c’è sempre una parte che ha più colpe o più armi. Ha ragione Pedro, aiutare tutti non è un atteggiamento neutrale. È un sostegno oggettivo al più forte».

 

Ero colpito. In pochi istanti aveva ribaltato la tesi sostenuta la volta precedente, quando me n’ero innamorato senza dare un nome a ciò che sentivo. Lasciai che quel fiume troppo a lungo contenuto continuasse a scorrere.

 

«Ti sembra giusto portare medicine a un uomo che ha massacrato senza pietà migliaia di persone? Quello che hanno fatto a Srebrenica è spaventoso. Bambini, vecchi, un’intera città spazzata via come se l’avesse travolta un uragano!».

 

Stava parlando del colonnello Dragojevic´. Avvertii l’immediata esigenza di cambiare discorso, proprio quando si faceva più interessante. Stavo piegando ai miei fini il suo sfogo, dettato da un’intima crisi di coscienza. Era un inganno intollerabile.

 

Forse il suo lavoro lambiva i margini dell’ingiustizia, ma anche nel mio c’erano evidenti storture. Era tutto sbagliato, per prima cosa essere lì, con una donna che mi faceva battere il cuore e che stavo inducendo a violare i suoi segreti.

 

Poi tutto si svolse in modo più sereno. Lei si mise a sparecchiare. Mi offrii di aiutarla, non sentì ragioni. «Tu sei l’ospite e hai fatto un lungo viaggio. Pensa a riposarti. Accendi la tv, metti la musica, fai quello che faresti a casa tua».

 

In un angolo del soggiorno c’era una chitarra, la accordai e presi a cantare a bassa voce, temendo di disturbare. Un allievo di Antonio mi aveva insegnato alcuni brani in lingua locale. Lo aveva fatto in modo riservato, stando attento a che nessuno ci ascoltasse. La ragione era molto semplice.

 

«Queste canzoni le ha scritte un autore di Spalato» mi spiegò un giorno con un’aria da cospiratore. «Si fa chiamare Gibonni, un soprannome che vuol dire “la scimmia”. E se lo guardi, in effetti…» aggiunse ridendo. «Prima della guerra le cantavamo tutti. Adesso a Banja Luka nessuno intonerebbe i versi di un croato».

 

C’era un brano che mi piaceva molto, il titolo era Ozdravi mi ti. Ne avevo imparato il testo a memoria senza capirne le parole, sapevo solo che conteneva una richiesta di aiuto. Dopo averlo eseguito sottovoce lo intonai di nuovo, stavolta più forte. Volevo che la mia voce cancellasse ogni pensiero, ogni rimorso. Non mi accorsi che Jacqueline era sulla porta.

 

«Riprendi dall’inizio, per favore» mi sussurrò. Io mi bloccai.

 

«Ti prego» insistette, pensando che non volessi più suonare.

 

«Ja ti donosim smijeh na napuklim usnama…».

 

Lei si sedette accanto a me.

 

«…dug sam pres?ao put da ga dijelimo napola…».

 

Ora il suo profumo si irradiava per tutta la stanza. Ne ero estasiato, ma la canzone non si fermò. Quella musica era il nostro idillio.

 

«…pa se spus?tam na pod kraj tvojega jastuka…».

 

Il mio tono si fece più intenso, la voce più roca. Il suo corpo aderiva al mio senza imbarazzi.

 

«Samo ozdravi mi ti…».

 

Al ritornello sentii che pure lei canticchiava, senza metterci le parole. Lo aveva orecchiato o già lo conosceva, a Sarajevo la radio passava spesso Gibonni.

 

«Tu sei del Sud» mi disse quando il motivo si spense. «Co­no­sci qualche vecchia canzone napoletana?».

 

«Non dirmi che ti piacciono».

 

«Prima Mulan, adesso questo. La vuoi smettere di applicarmi i tuoi stereotipi?» mi chiese ridendo. Poi, visto che non rispondevo: «Allora?».

 

Senza pensare intonai Era de maggio. adesso era in piedi accanto alla finestra. Aveva spento le lampade e sollevato la serranda, perché a illuminare il soggiorno fosse la luce della luna.

 

«È magnifica» mi disse rapita. Nel buio i suoi occhi cercavano i miei. «È una storia d’amore che, pur finendo bene, sa essere struggente».

 

«Ci voleva la poesia di Salvatore Di Giacomo per rendere bello un lieto fine» scherzai.

 

Nella penombra della stanza percepivo i suoi movimenti senza vederli. Si sfilò i vestiti e io, obbedendo a un istinto antico quanto il mondo, smisi all’istante di suonare.

 

Jacqueline era in piedi sulla porta, un breve corridoio ci separava dalla sua camera da letto. «Accarezzami ancora» mi disse invitandomi a seguirla.

 

Non capivo perché avesse detto ancora, non l’avevo sfiorata con un dito. Lei intuì la domanda che non avevo pronunciato.

 

«Mentre cantavi la tua voce mi ha accarezzato il cuore».

 

La desideravo, nel suo corpo cercavo tante cose. Lasciai la mano aperta e sfiorai la sua pelle delicatamente, come se te­messi di farle del male. A ogni tocco avvertivo in lei un brivido. Anche il mio corpo era nudo, eravamo vicini, sentivo battere il suo cuore. Il calore aumentò, le mie carezze si fecero più audaci. Nelle mie mosse c’era matematica di tempi, fisiologia di organi, chimica di reazioni. A vincere su tante scienze fu la magia, le sue parole rendevano possibile ogni cosa.

 

«Dimentichiamo il mondo» mi disse, lo ricordo ancora.

 

Dopo l’amore restammo attaccati a guardarci nel buio, la notte sa dare anche questo.

 

Fu lei a rompere l’incanto, quanto vorrei che non fosse avvenuto.

 

«C’è una cosa che devi sapere. Riguarda Georges, un chirurgo francese. Ci siamo conosciuti a Strasburgo, io ero lì per un convegno».

 

Affrontò il discorso con metodo, quasi mi stesse comunicando una questione di lavoro. Mi parlò del loro primo in­contro, della stima immediata che aveva provato. Il suo uomo salvava vite sui fronti più caldi del pianeta, dove lo portava il suo attivismo per Medici senza frontiere.

 

Prima che potesse descrivermi com’era scoccata la scintilla, presi a scivolare via dal letto. Sentivo un nodo allo stomaco, il bisogno di essere lontano acquistò una forza che superò tutto il resto. Mi dileguai senza un rumore, invisibile come un’om­bra. Lei continuava a recitare il suo monologo con partecipazione. Naturale, pensai, stava parlando del suo vero amore. Che stupido ero stato a illudermi che provasse le mie stesse emozioni.

 

Non so quando si accorse che avevo lasciato la stanza. I miei vestiti erano rimasti nel soggiorno, li afferrai al volo, un attimo dopo ero in strada. Lei non provò a seguirmi e io non sapevo dove andare, ripercorsi a piedi il sentiero dell’andata. Davanti a me le luci della città.

 

Camminai per ore fino a raggiungere il centro. Bussai al finestrino di un taxi. Il conducente, mezzo addormentato, mi lasciò entrare e per qualche marco mi riportò alla base.

 

Mi precipitai a svegliare il povero Steve. Per risalire sul De­fen­der e partire per Banja Luka non aspettammo neppure l’alba.