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Entro nell’argomento prendendola alla larga.«Si è stabilito qui a Cracovia per via di suo padre?».«Questo è il luogo che me lo ricorda di più. Per tutta la vita ha lottato coi suoi fantasmi, e… loro abitavano qui. Erano tanto le sue vittime quanto i suoi carnefici, hanno tormentato le sue notti nella stessa misura. Ora che lui se n’è andato quegli spettri sono l’unica traccia di lui che mi resta».

 

«Capisco». Gli verso del vino, non è il massimo ma si lascia bere. «Storia che si ripete, purtroppo. Come nei Balcani, ai giorni nostri».

 

Mi lancia un’occhiata fulminea. Stiamo arrivando dove temeva. Nel sederci a questo tavolo sapevamo entrambi come sarebbe finita la serata. Medita a lungo la sua risposta.

 

«Quanto è accaduto in Bosnia non è paragonabile alla Shoah» dice infine. «Ma è indubbio che, se la nato non avesse fermato quel conflitto, l’orrore sarebbe cresciuto fino ad avere conseguenze imprevedibili».

 

Siamo al dunque. Ora posso confinare il discorso nel recinto della mia indagine.

 

«Lei ha avuto modo, in ospedale, di leggere la scheda del colonnello Dragojevic´».

 

«Non avevo bisogno di consultare il suo fascicolo. Il suo processo ha avuto grande risonanza in Olanda e io a quel tempo mi trovavo lì. So tutto di Srebrenica e del campo di concentramento di Omarska».

 

«Dottore, mi spiace dirle questo. Comprenderà che, considerata la sua storia familiare, il passato del suo paziente…».

 

Non mi lascia neppure terminare, ha fretta di togliersi il dente.

 

«Poteva costituire un ottimo movente. Ne sono perfettamente consapevole. Per crimini come quelli del colonnello mio padre si è tormentato per tutta la vita».

 

Faccio un cenno di assenso con il capo.

 

«È proprio per questo che sono venuto a trovarla. Il fatto che Dragojevic´ sia un genocida, in sé, non vuol dire molto. Ma c’è dell’altro. Ho avuto occasione di parlare con il dottor Schultz del protocollo terapeutico che lei ha seguito con il suo paziente».

 

Solleva lo sguardo dal piatto, dove lo ha tenuto fino a que­sto momento. Per la prima volta mi sembra di vedere nei suoi occhi una luce sinistra. Devo ricredermi, anche nell’uomo che ho di fronte potrebbe essersi annidata la Nera Signora.

 

«Cosa le ha detto l’illustre primario?» ironizza.

 

«Sa meglio di me che praticare la emdr a una persona af­fetta da gravi turbe depressive poteva avere effetti collaterali».

 

«Negli Stati Uniti e in generale nel mondo anglosassone è una delle terapie più utilizzate. Questo non gliel’ha detto, il valente luminare di Norimberga?».

 

Pronuncia l’ultima parola con tono astioso. Non mi è difficile intuirne la ragione. La città che ha nominato è stata la culla del nazismo, la sede delle prime riunioni del partito, il luogo che ha visto varare le leggi razziali del 1935. Da lì è partita la distruzione di suo padre.

 

Mi verrebbe da rispondergli che il primario non c’è nato, vi si è solo trasferito per lavoro. Ma sarebbe una giustificazione assurda, come se quell’origine fosse il marchio di una colpa oggettiva.

 

Tossisco.

 

«Sul trattamento emdr mi sono documentato, so che ha molti sostenitori e che è sempre più diffuso. Il dottor Schultz mi ha detto però che nel caso di Dragojevic´ c’erano notevoli fattori di rischio, in relazione all’evolversi delle sue condizioni. E ha osservato che, per quanto si evince dalla cartella clinica, rivivere il trauma ha avuto su di lui un effetto negativo».

 

Nyiszli mi ha ascoltato in silenzio senza battere ciglio. Adesso ha gli occhi iniettati di sangue. Mi parla con una durezza insospettabile in un uomo tanto mite.

 

«Lei crede che siano i carnefici a portare le cicatrici dei pro­pri misfatti?». Il suo sguardo manda bagliori. «Si sbaglia, te­nen­te».

 

Conosce il mio grado, neanche questo mi aspettavo, mi sono presentato a lui con il solo cognome. L’ho decisamente sottovalutato.

 

«Sono le vittime a sopportare quel peso» prosegue. «Dopo la Seconda guerra mondiale gli aguzzini dei lager sono tornati alla vita di prima. Chi lavorava in ufficio si è rimesso alla sua scrivania, chi era fornaio ha ripreso a fare il pane. È per i prigionieri che i cancelli di Auschwitz non si sono mai aperti».

 

Non provo neppure a interromperlo. Con la mente si è perso lì dove sono andate le sue parole, ha spalancato l’ingresso con la scritta Arbeit macht frei e sotto quell’insegna ha visto suo padre, vittima fra milioni di altre di un orrore infinito.

 

Nyiszli non ha ancora concluso.

 

«Sa quanti sopravvissuti ai campi di sterminio si sono tolti la vita, a distanza di decenni da quei fatti? E parlo di intellettuali: menti eccelse, meccanismi perfetti. Persone come il poeta Celan, gli scrittori Améry e Borowski, il mio collega Bettelheim e il vostro Primo Levi».

 

Si è caricato come una molla. Sento che devo fermarlo o dirà cose sempre più compromettenti. Non mi va di giocare al massacro, non con lui. Non dopo quanto ha dovuto sopportare nella vita.

 

«Dottore, cerchi di calmarsi. Purtroppo le sue dichiarazioni non fanno che confermare i miei sospetti. Sono costretto a rivolgerle un’altra domanda. Mi creda, in questo momento sto odiando il mio ruolo. Dove si trovava la sera in cui Dragojevic´ ha ingerito lo Zoloft?».

 

Lui sembra quasi arretrare sulla sedia. Incredibilmente il suo viso si distende fino a mostrare una piega di sorriso.

 

«Non deve sentirsi in colpa, tenente Liguori. Lei sta svolgendo il lavoro che le compete. Le risponderò volentieri, è la cosa più semplice del mondo. Ero al reparto, potevo tranquillamente accedere alla stanza del colonnello e somministrargli quel farmaco. Però non l’ho fatto. Confesso che l’idea mi ha sfiorato mille volte, ma non ho mai trovato il coraggio di metterla in atto».

 

Mi allungo verso di lui per riprendermi tutta la sua attenzione.

 

«Mi sta dicendo che aveva pensato di dargli lo Zoloft. Si metta nei miei panni. Crederebbe a una simile coincidenza, dopo quanto è accaduto?».

 

Mi guarda come farebbe un bambino.

 

«Perché no? Evidentemente una soluzione così semplice non è venuta in mente solo a me. Mi piace credere però che l’abbia attuata lui. Se fosse stato un altro sarebbe un disastro, la catena delle colpe e dei rimorsi si allungherebbe. Non è bello dare la morte, mio padre me lo diceva spesso e lui lo sapeva bene, l’aveva vista in faccia tante volte».

 

La cena è finita e anche il nostro discorso non ha grandi margini. Senza parlare ci lasciamo servire un liquore locale a base di prugne. I bicchierini panciuti sono colmi fino all’orlo, il dottor Nyiszli manda giù la bevanda d’un fiato.

 

«Non ne sono stato capace, è questa la verità. Avrei voluto, ma per uccidere occorre l’anima di un assassino e io non ce l’ho».

 

In un istante comprendo il senso del suo invito. Mi ha voluto al suo tavolo per parlarmi da uomo a uomo e gettarmi in faccia il suo dolore.

 

«Ciò che ha detto è la pura verità, l’ho sperimentato anch’io nel mio lavoro. Per uccidere occorre una qualità speciale. Un istinto talmente forte che chi lo possiede, a volte, non ha bisogno neppure di un movente».

 

Lo psichiatra approva con il capo. Sono molte le cose che ci vedrebbero d’accordo, se il nostro fosse un tavolo votato all’amicizia.

 

«Ora tocca a me darle ragione, mio caro tenente» conclude. «È vero, ho scelto quella terapia per prolungare la sofferenza del mio paziente, quando il mio dovere era alleviarla. E l’ho fatto perché lo odiavo. Ho tradito il giuramento d’Ippocrate, la violazione più grave che un medico possa commettere. Non so con quanta consapevolezza io l’abbia fatto, ma una cosa è certa: non tornerò più a curare le persone. Non potrei, non mi fido più di me. Per questa colpa mi rimetto alla sua volontà. Faccia ciò che è giusto, mi denunci pure se vuole. Non ho più nulla da perdere».

 

Avanziamo verso la porta mentre rifletto sulle sue parole in cerca delle mie. Vorrei dirgli che stavolta si sbaglia, possiede ancora una cosa importante che si chiama libertà. Vorrei essere franco fino in fondo, ma sulle mie spalle c’è il peso di un inganno. Gli ho chiesto un biglietto da visita per tenermi in contatto ma ho mentito, in realtà mi serve per l’indagine. Lo darò agli esperti perché prelevino le sue impronte. Con quella prova, se la sorte lo vorrà, lo trascinerò in una cella, rubandogli ciò che non sa più di avere. Gli stringo la mano limitandomi all’essenziale.

 

«Il mio lavoro non è terminato, dottore. Tirerò le somme alla fine, solo allora conoscerà la mia decisione».