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Si mette sul letto accanto a me. La penombra silenziosa che ci avvolge fa apparire la scena irreale. Non mi parla con la voce, lo fa attraverso i suoi gesti misurati e decisi. Stacca l’asciugamano umido dal mio fianco scoprendo la cicatrice, che esamina con occhio esperto. Il sangue non si è fermato, adesso che non c’è più niente a trattenerlo si riaffaccia dagli orli della ferita.

 

Lei mi guarda senza dire una parola e, un attimo dopo, fa una cosa a cui non avrei mai pensato. Mi sale sulle gambe, avvicina la testa al mio torace. I suoi capelli mi vanno dappertutto scatenando una tempesta di sensi. Lei se ne accorge, ma ignora tutto ciò che non è la mia ferita e inizia a lambirla con la bocca. Le sue labbra aperte, appena bagnate di saliva, si arrossano di sangue.

 

Ho visto cose simili soltanto fra animali. La mia gatta curava così i suoi piccoli quando si azzuffavano. Pensando a lei realizzo che nei gesti di Jelena, in fondo, non c’è nulla di sbagliato. Apparteniamo allo stesso regno: la natura selvaggia e fiera che si governa con le leggi della forza. La giungla e le sue belve, la guerra nei Balcani, il giovane che un’ora fa ci avrebbe uccisi col suo coltello. È tutto dannatamente uguale.

 

Perciò non mi stupisco quando, fermato il sangue, la bocca della ragazza sale più in alto, verso il mio collo. Mi sente ansimare e preme il petto sul mio torace. È la nostra intima essenza che agisce per noi e anche adesso non c’è errore.

 

L’istinto di sopravvivenza ci sta parlando. Urla ai nostri corpi che sono ancora vivi e potevano non esserlo.

 

Nuotiamo in una nuvola sospesa. Allungo un braccio verso il comodino per spegnere la luce, lei mi ferma. Per i miei gesti vuole avere sguardi.

 

Una notte infinita ci avvolge nel suo manto. Infine crolliamo esausti, quando mi sveglio non so più niente del giorno e dell’ora.

 

Il tempo delle parole arriva dopo una colazione abbondante.

 

È Jelena a rompere il silenzio.

 

«Mi hai salvata. Quel bastardo mi avrebbe fatta a pezzi».

 

«Mi sa che tuo fratello ha ragione. Mi ha detto che il tuo fidanzato non gli piace».

 

«Fidanzato è una parola grossa». Poi, dissimulando l’interesse: «Così hai visto Nedim».

 

«Mi ha dato lui l’indirizzo della tua pensione. È molto che non vi sentite?».

 

«Da quando ho buttato via l’unica scheda di cui aveva il numero».

 

«Perché hai voluto che perdesse le tue tracce?».

 

«Avevo urgenza di sparire, non volevo più prestarmi al suo gioco. È stato lui a mandarmi in Olanda, procurandomi i documenti falsi per farmi assumere dall’ospedale. Mi ha spedita dal macellaio di Gra­c?a­nica per permettergli di raggiungerlo».

 

Potrei girare intorno alla questione, scelgo la via più diretta.

 

«Hai dato tu il farmaco al colonnello Dragojevic´?».

 

Mi guarda con un misto di rabbia e sorpresa, non si aspettava che le svelassi i miei sospetti con tanta franchezza. Non dopo una notte d’amore.

 

«Ti ho detto che mi sono sottratta alle mire di mio fratello» risponde sprezzante. «E poi Nedim non voleva colpire il colonnello direttamente» aggiunge enigmatica.

 

La guardo con aria perplessa. «E come allora?».

 

«Durante la guerra, a Banja Luka, si era sparsa la voce che Dragojevic´ avesse dei figli. Mio fratello voleva che scoprissi se era vero».

 

Sono spiazzato. Questo stillicidio di scoperte mette a dura prova i limiti della mia comprensione.

 

«Non mi torna. Il macellaio non aveva famiglia, se avesse preso moglie si sarebbe saputo».

 

Jelena sorride amaramente.

 

«Violentava le donne musulmane, e di certo non si preoccupava di usare il preservativo. Vieni con me, tenente Liguori, devo raccontarti una storia».

 

Tornati a letto mi parla dei suoi genitori, due ragazzi di paese che chiedevano di amarsi e di crescere i propri bambini. La tragedia dei Balcani li aveva trascinati nel baratro della guerra. Erano entrati in una fazione partigiana che conduceva la guerriglia nella Bosnia orientale.

 

«Mia madre si chiamava Samira» mi dice trattenendo le lacrime. «L’hanno catturata con quel che restava della sua banda dopo un attacco suicida al quartier generale dei serbi».

 

La sua voce diventa un sussurro. «Il colonnello Dragojevic´ l’ha data prima in pasto ai suoi uomini. Poi l’ha voluta nella sua tenda. Una prigioniera musulmana ai suoi occhi non era niente, solo un pezzo di carne da maneggiare a piacimento. Quando si è stancato l’ha finita con un colpo alla testa. Non conosco altri dettagli, il poco che so mi è stato riferito dall’unico miliziano sopravvissuto al campo di Omarska».

 

Nella mia mente si fa strada la luce.

 

«Per questo Nedim ha progettato la sua vendetta».

 

«Mio fratello non si muove da solo. Si è unito a una banda di fanatici che vogliono di nuovo la guerra. Il capo è un ustas?a che ha combattuto nella zona di Mostar e nella Krajna croata. L’operazione Tempesta, ne avrai sentito parlare. Pulizia etnica al contrario, la patente dei buoni non l’ha mai avuta nessuno».

 

«Ti hanno spedito loro all’Aia».

 

Le braccia di Jelena mi stringono più forte.

 

«Il loro gruppo è ben organizzato. Dispongono di armi, informazioni, una rete internazionale di contatti. Il piano di Nedim era semplice: il colonnello ci aveva strappato nostra madre, noi avremmo ucciso i suoi figli».

 

«Ma Dragojevic´ non ne aveva».

 

«È quello che ho appurato. Sul suo conto se ne sono dette tante. Che avesse amanti e figli segreti dovunque. Gli era stata attribuita perfino una compagna musulmana, ma erano leggende. Per tutto il tempo in cui ho lavorato all’ospedale ha avuto contatti con una sola persona».

 

«Ivan Bisenic´, il professore».

 

«Quando gli ho riferito quanto avevo scoperto, Nedim non mi ha creduta. Pensava che avessi dei ripensamenti, il che era anche vero. Mi ha insultata, minacciata. Non so quale altro piano abbia partorito, insieme a quei bastardi dei suoi amici. Forse hanno pensato di uccidere il colonnello o il suo amico, non lo so. Io avevo sempre più paura e sono fuggita».

 

«Credevo avessi lasciato l’ospedale perché ti era scaduto il contratto».

 

«Me lo avrebbero rinnovato. Come infermiera ci so fare, l’hai visto anche tu».

 

Lo dice con un sorriso malizioso, sfiorandomi il fianco con una mano. Avverto una vibrazione su tutto il corpo. È un attimo, mi concentro per tornare al discorso.

 

«Perché hai scelto Roma?».

 

«Mi ha invitata qui un tipo che conoscevo, un bravo ragazzo».

 

«Quello che ha scatenato la gelosia del tuo ganzo».

 

«Bogdan è uno stupido. Fra me e il mio amico non c’è stato niente.

 

«C’è un dettaglio che non afferro, Jelena. Perché Nedim mi ha dato il tuo indirizzo?».

 

E subito, mentre lo chiedo, alla mente mi affiora un nuovo pensiero. Non le do il tempo di rispondere. Siamo ancora in pericolo, che stupido a non averci pensato prima. Mi alzo di scatto.

 

«Vestiti, dobbiamo andare. Gli amici di tuo fratello potrebbero saltarci addosso da un momento all’altro».