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Mark Stone non è il tipo che si commuove agli addii. Non lo ha fatto sette anni fa, dopo una caccia all’uomo condotta spalla a spalla, in giorni serrati come sardine in una scatola, fra pericoli di ogni tipo. Di certo una simile emozione non può sfiorarlo oggi.
Se non lo conoscessi a fondo, se non lo avessi visto fermarsi di fronte al dolore, penserei che il cammino dell’uomo, per lui, non sia diverso dal procedere di un’automobile. Un fatto meccanico.
Il mio amico ride e scherza come al solito, mi saluta come se dovessimo ritrovarci nel giro di qualche giorno. E questo incontro in aeroporto potrebbe essere l’ultimo.
Mentre si mette in coda per il controllo di sicurezza lo seguo con lo sguardo, dicendomi che è lui a vedere la vita nel modo giusto. Se la sorte lo vorrà avremo un altro tempo. Del resto, anche stavolta, chi avrebbe immaginato di trovarselo fra i piedi?
Prima di arruolarsi nel sas aveva fatto il poliziotto, una volta me lo ha raccontato. Ripesco dalla memoria il suo accenno a un periodo nell’antiterrorismo, da qualche parte nell’Ulster. L’aveva lasciato dopo una brutta vicenda, una sparatoria in cui erano morti dei civili. C’era stato un processo, terminato con la condanna di alcuni colleghi.
Lui ne uscì pulito, ma dovette abbandonare la polizia e in seguito scelse di abbracciare l’esercito. Vocazione al pericolo o nostalgia dell’uniforme, vai a capire. Certo non mi sarei aspettato di rivedere il suo muso proprio all’Aia, nel pool degli investigatori che indagano sui fatti della Bosnia. Non dopo quanto è successo laggiù.
Mi controllo le tasche. Stamattina mi hanno assegnato un’auto e un badge per l’accesso al palazzo di giustizia. Sono simboli del mio status, ormai appartengo allo staff della procura. Le chiavi della macchina sono al loro posto, quel contatto metallico mi rassicura.
Con un gesto automatico mi volto all’indietro, a cercare un’altra volta l’amico appena lasciato. Non lo trovo, il suo tratto di fila è scomparso oltre i varchi di passaggio. È solo un attimo, il mio sguardo è attirato da qualcosa in lontananza. Un volto di donna, una figura conosciuta. Mi sforzo di osservare meglio, ma non ci riesco. Altra gente si è accalcata nel punto che sto scrutando e ogni mio tentativo si rivela vano.
Esco, mi assale un vento di tramontana. Sollevo il bavero guardandomi intorno.
Il mio pensiero va agli impegni della giornata. In ufficio mi attendono le carte che Janet, l’assistente del dottor Schultz, mi ha appena recapitato. Come prevedevo il primario è stato di parola, la segretaria efficiente. Tornerò alla mia scrivania, ad annegare i rimpianti fra le pastoie di un’inchiesta che non vuole decollare.
Sto ancora spulciando quei documenti a caccia di un indizio rivelatore quando il mio telefono si mette a squillare. È strano che mi cerchino in ufficio, nessuno sa che mi trovo in questo angolo di mondo. La sua voce mi ferisce come un lampo in una coltre di nuvole. Provo a reagire.
«Jacqueline! Come hai fatto a trovarmi?».
Il mio tono tradisce la gioia che sento nel petto. L’euforia è contagiosa, lei ride a sua volta di gusto.
«Ho anch’io le mie fonti, mica solo voi sbirri».
Mi lascia nel dubbio ancora un po’ prima di decidersi a chiarire.
«È stata Silvia Loconte. Mi ha raccontato tutto, compresa la data del tuo arrivo. La proposta che vado a farti, invece, è frutto di una deduzione logica. Hai appena iniziato a indagare, giusto? Dunque la tua scrivania è ancora sgombra. Insomma niente scuse, Liguori: stasera sei a cena con me».
È all’aeroporto di Ginevra, mi spiega, in attesa di un volo che la porterà qui prima di sera. Ha già prenotato il ristorante del mio albergo, che è anche il suo. È una nuova rivelazione, stanotte dormiremo sotto lo stesso tetto.
Dispone di notizie aggiornate sul mio conto, merito dei frequenti contatti con la dottoressa Loconte. Viene all’Aia per intervistarla, sta stilando un rapporto sui processi ai criminali di guerra. Uno di quei dossier che la Croce Rossa confeziona per orientare il lavoro dei propri dipendenti.
Ora mi spiego l’istante di esitazione del procuratore, quando ci siamo incontrati nel corridoio. Stava per dirmi del suo arrivo, poi deve aver pensato che non fosse il caso.
Qualche ora più tardi eccoci a questo tavolo, noi due che ci siamo amati e forse ci amiamo ancora. Noi due che non abbiamo un passato e non abbiamo un futuro. Sempre fuori tempo o fuori luogo io e Jacqueline. Sempre lontani o col cuore a perdere, impelagati in percorsi inconciliabili. L’amore è una storia semplice, ma le storie d’amore sanno essere complicate.
Non smetto d’immaginare come potrebbe essere, mentre parlando d’altro consumiamo un ottimo salmone e il ricordo di ciò che è stato si alterna al pensiero di un’altra donna. Vera Morandi, chissà dove ti trovi, anche tu sei un enigma che non riesco a risolvere.
Procede tutto come mi aspettavo. Nei nostri sguardi c’è la stessa gioia, in fondo al cuore la stessa tristezza. E i discorsi: raccontarsi tutto senza dirsi nulla che conti. Sfiorare con le parole dove va la nostra vita, virare attorno all’idea di noi stando bene attenti a non atterrare.
Poi la sua domanda: «Ti fidi di Mark Stone?».
Ci siamo, di nuovo la loro vecchia ruggine. Risale all’arresto di Dragojevic´ ed è questa la cosa che più mi fa male. La colpa di non aver fatto chiarezza pesa anche sulle mie spalle. I suoi dubbi comunque mi offendono, rispondo risentito.
«Sicuro che mi fido. Perché me lo chiedi?».
«La sua condotta non mi convince. Pur non essendo uno stupido, si è subito accontentato dell’ipotesi più semplice. La versione del suicidio non mi sembra credibile».
«Ho anch’io le mie perplessità al riguardo. Ma finché non ci saranno certezze ciascuno ha il diritto di tenersi la sua idea».
Sono contrariato, il discorso ha preso una piega imprevista. Non mi va di dover giustificare il mio amico, non è per questo che sono venuto fin qui dall’Italia. I sospetti di Jacqueline mi mettono in un angolo, ma il mio posto è un altro, io sono l’uomo che cerca la verità.
«Forse hai ragione tu» ammette infine per calmarmi, ma non lo pensa. Cambia discorso. «Hai conosciuto il dottor Schultz?».
«L’ho incontrato stamattina».
«Mi sembra una persona corretta. Se fossi in te indagherei più a fondo sull’ungherese».
«Il medico che si occupava di Dragojevic´. Ho letto di lui nel fascicolo, non riesco mai a ricordare come accidenti si chiama. Ha uno di quei cognomi pieni di consonanti, che per un italiano…».
«Férenc Nyiszli. Fin dall’inizio l’ho trovato un personaggio molto oscuro. Il classico psichiatra rovinato dalla professione, che dopo una vita a contatto coi suoi pazienti finisce per sembrare uno di loro».
Accenno un sorriso mentre le verso altro vino.
«È andato in pensione, se non sbaglio».
«Sì, è piuttosto anziano. Credo sia tornato a Budapest. Verso Dragojevic´ aveva un atteggiamento che non esiterei a definire ambiguo. Si prendeva cura di lui in modo impeccabile, lo trattava con cortesia, ma per me era tutta apparenza. A volte lo osservavo mentre parlava al colonnello e mi faceva uno strano effetto».
«Puoi spiegarti meglio?».
Ho imparato a fidarmi delle sue sensazioni e non voglio perdermi una virgola del suo discorso. Lei finalmente riprende.
«Guardava Dragojevic´ come se ne avesse terrore. Come se in lui non vedesse un paziente, ma dell’altro. Qualcosa di spaventoso e lontano».
La sua frase mi sorprende, mi sarei aspettato un pensiero più concreto. Devo tenere i piedi per terra, non posso farmi trascinare in una ridda di illazioni campate in aria.
«In teoria è possibile che sia coinvolto» concedo, senza grande convinzione. «Quando è avvenuto l’incidente, Nyiszli non aveva ancora lasciato il reparto. Pur avendo maturato la pensione, continuava a seguire alcuni pazienti».
Lei assente.
«E fra loro c’era il colonnello. Ti direi che è una strana coincidenza se non sapessi che è una prassi funzionale alla continuità delle terapie. Lasciano agire il vecchio medico finché non trovano un sostituto all’altezza del compito. Credo comunque che dovresti approfondire».
Una conclusione che condivido, le assicuro che lo farò. Per il resto della cena parliamo d’altro. Con Jacqueline è facile, s’intende di tante cose, ha sempre nuovi argomenti da proporre. Eppure la serata non decolla, fra noi c’è una barriera che non sappiamo rimuovere.
Rientriamo insieme in taxi, ma arrivati nella hall le nostre strade si dividono. Succede all’atto di salire in camera. Ci mostriamo a vicenda le chiavi, i numeri sono lontani. Anche in questo albergo siamo su piani diversi, proprio come nella vita.
In ascensore le cedo il passo, lei scenderà per ultima. Un tragitto che sembra lunghissimo. Poi le porte si aprono, è la mia fermata. Prima che si richiudano le sfioro una guancia con un bacio, lei riceve senza ricambiare. È spossata, una stanchezza che viene da molte trasferte come questa. Mi ha visto infastidito, sta pensando di aver sbagliato a insistere tanto sulle mie indagini.
Ci salutiamo così, un po’ freddamente, come colleghi che s’incontrano in una città lontana e cenano insieme per sfuggire alla solitudine.
Per il giorno dopo non prendiamo impegni. Io sarò in ufficio dalle otto, lei passerà in tribunale in mattinata per incontrare la Loconte, che nel frattempo sarà rientrata dal suo viaggio. Vedersi sarà naturale e lo diamo per scontato, nessuno dei due ha il coraggio di proporre di più.