Capitolo ventisettesimo

Wagner non aveva finito con noi. Un giorno in cortile, durante la lezione di ginnastica, mi si avvicinò.

« Che cosa fai, Chinaski? ».

« Niente ».

« Niente? ».

Non risposi.

« Com’è che non partecipi a nessun gioco? ».

« Merda. Quella è roba da bambini ».

« Va bene. Sei assegnato alla spazzatura fino a nuovo ordine ».

« E perché? Qual è l’accusa? ».

« Ozio e menefreghismo. 50 demeriti ».

I demeriti bisognava scontarli riempiendo e svuotando i bidoni della spazzatura. Era la regola. Se si avevano più di dieci demeriti e non li si scontava non ci si poteva diplomare. A me del diploma non me ne importava niente. Era un problema loro. Io potevo anche star lì in eterno, crescere e invecchiare in quella scuola, non mi importava. Mi sarei fatto tutte le ragazze.

« 50 demeriti? », dissi. « Tutto qui? Perché non facciamo cento? ».

« O.K., cento, aggiudicati ».

Wagner si allontanò barcollando. Peter Mangalore aveva 500 demeriti. Io ero al secondo posto, e stavo guadagnando terreno…

La spazzatura veniva’ raccolta una prima volta durante gli ultimi trenta minuti dell’intervallo della colazione. Il giorno dopo stavo portando in giro un bidone‘ insieme a Peter Mangalore. Era semplice. Avevamo in dotazione uno di quei bastoni con la punta aguzza. Bisognava infilzare le cartacce col bastone e infilarle nel bidone. Le ragazze ci guardavano. Sapevano che eravamo due tipi poco raccomandabili. Peter aveva l’aria annoiata e io avevo l’aria di fregarmene. Le ragazze sapevano che eravamo due tipacci.

« Conosci Lilly Fischman? », mi chiese Peter mentre giravamo coi nostri bastoni.

« Oh, sì, sì ».

« Be’, non è più vergine ».

« E come fai a saperlo? ».

« Me l’ha detto lei ».

« E chi l’ha sverginata? ».

« Suo padre ».

« Ummm… be’, lo capisco ».

« Lilly ha sentito dire che ho l’uccello grosso ».

« Sì, lo sa tutta la scuola ».

« Be’, Lilly lo vuol provare. Dice che vuole prenderlo dentro ».

« La sfonderai ».

« Eh, sì. Ma è lei che lo vuole ».

Depositammo il bidone della spazzatura e ci mettemmo a guardare le ragazze sedute su una panchina. Peter si avvicinò alla panchina. Io restai dov’ero. Peter si avvicinò a una delle ragazze e le sussurrò qualcosa all’orecchio. La ragazza cominciò a ridacchiare. Peter tornò al bidone. Lo prendemmo su e ci allontanammo.

« Allora », disse Peter, « è per oggi pomeriggio alle quattro. La farò a pezzi, quella Lilly ».

« Davvero? ».

« Hai presente quella macchina sfasciata dietro la scuola? Quella a cui Pop Farnsworth ha tolto il motore? ».

« Sì ».

« Be’, prima che la portino via ne farò la mia camera da letto. Mi scoperò Lilly nel sedile posteriore ».

« Certi tipi hanno tutte le fortune ».

« Mi viene duro solo a pensarci », disse Peter.

« Anche a me, e non sono nemmeno il fortunato che se la scoperà ».

« C’è un problema, però », disse Peter.

« Non riesci a venire? ».

« No, non è questo. Ho bisogno di un piantone. Ho bisogno di qualcuno che mi dica che il campo è sgombro ».

« Ah sì? Be’, posso farlo io ».

« Davvero lo faresti? », chiese Peter.

« Certo. Ma ci vorrebbe un altro, per sicurezza, per tenere sotto controllo entrambi i fronti ».

« Va bene. Hai pensato a qualcuno?».

« Crapa Pelata ».

« Crapa Pelata? Cazzo, è un ragazzino ».

« Sì. Ma ci si può fidare di lui ».

« Va bene. Allora ci vediamo alle quattro ».

« Ci saremo ».

Alle quattro ci trovammo con Peter e Lilly alla macchina.

« Salve! », disse Lilly. Sembrava eccitata. Peter stava fumando una sigaretta. Aveva l’aria annoiata.

« Ciao, Lilly », dissi io.

« Ciao, bambola », disse Crapa Pelata.

C’erano dei ragazzi che giocavano a touch football nel campo vicino, ma per noi andava bene, ci facevano da copertura. Lilly non riusciva a star ferma, si dimenava, ansimava, con i seni che le andavano su e giù.

« Bene », disse Peter, buttando via la sigaretta, « avanti, Lilly, facciamo conoscenza ».

Aprì la portiera posteriore della macchina, fece un inchino e invitò Lilly a salire. Poi salì a sua volta e si tolse le scarpe, i pantaloni e le mutande. Lilly abbassò gli occhi e vide l’uccello di Peter.

« Oh dio mio », disse, « non so se… ».

« Avanti, piccola », disse Peter, « non si vive in eterno ».

« Be’, va bene… ».

Peter guardò fuori del finestrino. « Ehi, voi ragazzi tenete d’occhio il campo ».

« Sì, Peter », dissi io, « non preoccuparti ».

« Fidati di noi », disse Crapa Pelata.

Peter spinse su la sottana di Lilly. La carne era bianca come il latte, sopra i calzettoni al ginocchio, e si vedevano le mutandine. Fantastico.

Peter afferrò Lilly e la baciò. Poi la lasciò andare.

« Brutta puttana! », disse.

« Non parlarmi così, Peter! ».

« Puttana, puttana! », disse lui, e la schiaffeggiò, forte.

Lilly cominciò a singhiozzare. « No, Peter, no… ».

« Zitta, fica! ».

Peter cominciò a darsi da fare con le mutandine di Lilly. Non era un’impresa facile. Erano strette, su quel suo grosso culo. Peter diede un colpo violento e le mutandine si strapparono. Peter gliele tirò giù sulle gambe, sui piedi, e gliele tolse. Le buttò sul pavimento. Poi cominciò a toccarle la fica. Le toccava la fica, gliela strofinava e intanto continuava a baciarla. Poi si appoggiò allo schienale. Non ce l’aveva proprio duro, solo barzotto.

Lilly lo guardò.

« Che cosa sei, finocchio? ».

« No, Lilly, non è questo. È solo che ho paura che quei due non facciano bene la guardia. Guardano noi, altro che far la guardia. E io non voglio esser beccato con le mani nel sacco ».

« Tutto bene, Peter, il campo è sgombro », dissi io. « Stiamo all’erta ».

« Sì, stiamo all’erta! », disse Crapa Pelata.

« Non ci credo », disse Peter. « Lilly, non fanno la guardia, ti guardano la fica ».

« Hai paura! Tutta questa roba e non ti viene duro! ».

« Ho paura di esser beccato con le mani nel sacco, Lilly ».

« Lo so io cosa fare », disse lei.

Lilly si chinò e passò la lingua sull’uccello di Peter. Gli leccava la punta enorme, mostruosa. Poi lo prese in bocca.

« Lilly… Cristo », disse Peter, « ti amo… ».

« Lilly, Lilly, Lilly… oh, oh, ooh, oooh… ».

« Henry », urlò Crapa Pelata. « Guarda! ».

Guardai. Era Wagner. Stava arrivando di corsa, e con lui c’erano i ragazzi che stavano giocando a touch football quando eravamo arrivati, più un po’ di pubblico della partita, ragazzi e ragazze.

« Peter! », urlai. « È Wagner! Sta arrivando con cinquanta persone! ».

« Merda! », mugolò Peter.

« Oh, merda », disse Lilly.

Io e Crapa Pelata partimmo di corsa. Corremmo fuori dal cancello e su per mezzo isolato. Ci fermammo e guardammo indietro, attraverso la staccionata. Peter e Lilly erano in trappola. Wagner si precipitò sulla macchina e spalancò la portiera per guardare bene cosa stava succedendo. Poi la macchina venne circondata e non riuscimmo a vedere più niente…

Dopo quella volta, non vedemmo più Peter e Lilly. Non riuscimmo a sapere dov’erano finiti. Io e Crapa Pelata ci beccammo 1.000 demeriti, il che mi fece passare al primo posto. Non c’era modo di scontarli, quei demeriti. Sarei rimasto alla Mt. Justin tutta la vita. Naturalmente riferirono tutto ai nostri genitori.

« Andiamo », disse mio padre, e io entrai in bagno. Lui tirò giù la coramella.

« Giù i pantaloni e le mutande », disse.

Non mi mossi. Lui mi afferrò per la cintura e la slacciò con uno strattone, poi mi sbottonò i pantaloni e me li tirò giù. Mi tirò giù anche le mutande. Arrivò il primo colpo. Era sempre lo stesso, lo stesso rumore secco, come un’esplosione, lo stesso dolore.

« Ammazzerai tua madre! », urlò.

Mi colpì ancora. Ma le lacrime non venivano. Avevo gli occhi stranamente asciutti. Pensai di ucciderlo. Pensai che doveva esserci il modo di ucciderlo. Bastava aspettare un paio d’anni, poi avrei potuto picchiarlo a morte. Ma volevo ucciderlo subito. Era uno stronzo. Non poteva essere mio padre. Doveva avermi adottato. Mi colpì ancora. Il dolore era sempre lo stesso ma la paura non c’era più. La coramella colpì ancora. La stanza non spariva più davanti ai miei occhi. Li tenevo bene aperti, vedevo tutto chiaramente. Mio padre sembrò sentire la diversità della situazione e cominciò a colpire più forte, ripetutamente, ma più mi picchiava meno sentivo. Era come se fosse lui, il più debole. Era successo qualcosa, era cambiato qualcosa. Mio padre smise di picchiare, ansimando, e lo sentii appendere la coramella. Andò alla porta. Mi voltai.

« Ehi », dissi.

Mio padre si voltò e mi guardò.

« Dammi pure un altro paio di cinghiate, se ti fa star meglio », gli dissi.

« Non osare di parlarmi in questo modo! », disse lui.

Lo guardai. Vidi le pieghe di carne sotto il mento e sul collo. Vidi i segni e le rughe. La sua faccia era stucco rosa, stanco. Era in canottiera, tutta grinze sulla pancetta molle. Non aveva più lo sguardo feroce. I suoi occhi vagavano incerti e non riuscivano a fissarsi nei miei. Era successo qualcosa. Lo sapevano gli asciugamani, lo sapeva la tenda della doccia, lo sapeva lo specchio, lo sapevano la vasca e la tazza del cesso. Mio padre si voltò e uscì dalla stanza. Lo sapeva anche lui. Era l’ultima volta che le prendevo. Da lui.