Capitolo quarantaquattresimo

La vedevo, la vita davanti a me. Ero povero e sarei rimasto povero. Non che volessi i soldi in particolare. Non so cosa volevo. Sì, lo so cosa volevo. Volevo un posto dove rintanarmi, un posto dove non fare niente. L’idea di fare qualcosa non solo mi spaventava, mi faceva venire la nausea. L’idea di fare l’avvocato o il consigliere municipale o l’ingegnere o qualcosa del genere mi sembrava irrealizzabile. Sposarsi, aver figli, farmi intrappolare nella struttura familiare. Andare tutti i giorni a lavorare in qualche posto e tornare a casa. Era impossibile. Fare le cose, le cose semplici, i picnic, il Natale, il 4 luglio, il Labor Day, la Giornata della Mamma… possibile che l’uomo fosse nato solo per sopportare cose del genere e poi morire? Avrei preferito fare il lavapiatti, tornarmene la sera tutto solo in una stanzetta e bere fino a crollare addormentato.

Mio padre aveva un suo programma. Mi disse: « Ragazzo mio, ogni uomo, nel corso della sua vita, dovrebbe comperare una casa. Alla fine muore e la lascia a suo figlio. Poi suo figlio ne compera un’altra, di casa, e muore. E lascia due case al figlio. Due case. Questo figlio compera un’altra casa, e fanno tre case… ».

La struttura familiare. La famiglia come mezzo per trionfare sulle avversità. Ci credeva davvero. Prendete là famiglia, mescolatela con un po’ di Dio e di Patria, aggiungete dieci ore di lavoro al giorno e la pappa è pronta.

Guardai mio padre, le sue mani, la sua faccia, le sue sopracciglia, e capii che quell’uomo non aveva niente a che vedere con me. Era un estraneo. Mia madre non esisteva. Ero maledetto. Guardai mio padre, e non vidi altro che un’indecente stupidità. Peggio ancora, aveva più paura di fallire degli altri. Secoli di sangue contadino e di educazione contadina. Il sangue dei Chinaski era stato assottigliato da una serie di contadini-servi che avevano rinunciato alla loro vera vita per vantaggi minimi e illusori. Nessuno a cui fosse venuto in mente di dire: « Io non voglio una casa, voglio mille case, e subito! ».

Mio padre mi aveva mandato in quella scuola di ricchi nella speranza che acquistassi l’atteggiamento del dirigente solo guardando gli altri bloccare le loro coupé color crema davanti alla scuola per tirar su le ragazze tutte eleganti. Invece io avevo imparato che di solito i poveri restano poveri. Che i giovani ricchi annusano il puzzo dei poveri e imparano persino a trovarlo divertente. Dovevano riderne, altrimenti sarebbe stato terrorizzante. L’avevano imparato attraverso i secoli. Non avrei mai perdonato alle ragazze di salire sempre in quelle coupé color crema con i ragazzi ridenti. Non potevano farci niente. Ricchezza significava vittoria e la vittoria era l’unica realtà.

Quale donna poteva scegliere di vivere con uno sguattero?

Per tutte le scuole superiori tentai di non pensare troppo a come sarebbe andata a finire per me. Sembrava meglio rimandare…

Alla fine arrivò il giorno del gran ballo di chiusura. La festa si teneva nella palestra delle ragazze, con una vera orchestra. Non so perché, ma quella sera andai a piedi fino alla scuola, due miglia e mezzo, da casa dei miei genitori. Mi misi fuori, al buio, a spiare attraverso le finestre schermate di fil di ferro, e restai di sasso. Le ragazze sembravano molto adulte, altere, deliziose, col vestito lungo. Erano tutte bellissime. Facevo fatica a riconoscerle. E i ragazzi, in abito da sera, erano fantastici, ballavano così bene, ciascuno con la sua dama tra le braccia, la faccia appoggiata ai capelli di lei. Ballavano tutti benissimo, e la musica era forte, chiara, bella, possente.

Poi colsi la mia immagine riflessa che li fissava… foruncoli e cicatrici sulla faccia, camicia stracciata. Ero come un animale della giungla attratto dalla luce. Perché ero venuto? Avevo voglia di vomitare. Ma continuai a guardare dalla finestra. Il giro finì. Ci fu un intervallo. Le coppie conversavano disinvolte tra di loro. Io non sapevo conversare né ballare. Tutti sapevano qualcosa che io non sapevo. Le ragazze erano così belle, i ragazzi così eleganti. Io sarei stato terrorizzato anche solo a guardarla, una di quelle ragazze, figuriamoci a starle vicino. Guardare una ragazza negli occhi o ballare con lei era una cosa che non riuscivo nemmeno a concepire.

Eppure sapevo che quello che vedevo non era bello e semplice come sembrava. C’era un prezzo da pagare, per tutto questo, un’ipocrisia generalizzata, alla quale era facile credere, e che costituiva il primo passo lungo una strada senza uscita. L’orchestra riprese a suonare, e i ragazzi e le ragazze ricominciarono a ballare. Le luci roteavano sopra le loro teste colorandoli d’oro e di rosso, di blu e di verde, poi ancora d’oro. Guardandoli, dissi a me stesso, un giorno la festa comincerà anche per me. Quando arriverà quel giorno, io avrò qualcosa che loro non hanno.

Poi non ce la feci più a sopportarlo. Li odiavo. Odiavo la loro bellezza, la loro giovinezza spensierata. Guardandoli ballare nelle magiche, colorate macchie di luce, abbracciati, soddisfatti, bambini che avevano avuto tutto dalla vita, fortunati, almeno temporaneamente, li odiai, perché avevano qualcosa che io ancora non avevo, e dissi a me stesso, ripetei a me stesso, un giorno sarò felice come voi, vedrete.

Continuavano a ballare, e lo ripetei anche a loro.

Poi sentii un rumore dietro di me.

« Ehi! Che cosa fai? ».

Era un vecchio con una pila. Aveva la testa come quella di una rana.

« Li guardo ballare ».

Teneva la pila proprio sotto il naso. Aveva occhi grandi e tondi, che luccicavano come quelli di un gatto, al chiaro di luna. Ma la bocca era avvizzita, floscia, e la testa rotonda. Possedeva una particolare, insensata rotondità che mi ricordò la zucca che giocava al professore.

« Fuori dai coglioni! Via di qua! ».

Mi fece scorrere la pila su e giù per tutto il corpo.

« E lei chi è? », chiesi.

« Il guardiano notturno. Fuori dai coglioni, prima che chiami la polizia! ».

« La chiami pure! Questo è il ballo dell’ultimo anno, e io faccio l’ultimo anno ».

Mi piantò la pila in faccia. L’orchestra stava suonando « Deep Purple ».

« Balle! », disse. « Tu hai almeno ventidue anni! ».

« Sono nell’annuario, classe 1939, diplomando, Henry Chinaski ».

« E allora perché non sei lì dentro a ballare? ».

« Lasciamo perdere. Me ne vado ».

« Ecco, bravo, vattene ».

Mi allontanai. Continuai a camminare. La pila del vecchio saltellava sul sentiero, mi seguiva. Uscii dal cortile della scuola. Era una bella notte, calda, quasi troppo calda. Credetti di vedere delle lucciole, ma forse mi sbagliavo.