Capitolo trentacinquesimo
La fasciatura funzionò. Finalmente i medici dell’ospedale avevano trovato la cura giusta. I foruncoli si asciugarono. Non sparirono ma si calmarono un po’. Anche se ogni tanto ne spuntavano di nuovi, gonfi come prima. Mi trapanarono e mi fasciarono di nuovo.
Le sedute con l’ago elettrico erano eterne. Trentadue, trentasei, trentasette volte. Non avevo più paura dell’ago. Non avevo mai avuto paura dell’ago. Prima mi faceva incazzare. Adesso non mi faceva più incazzare. Non c’era nemmeno rassegnazione, da parte mia, solo disgusto, disgusto che mi fosse successa una cosa simile, disgusto per i dottori che non ci capivano niente. Loro erano impotenti e io ero impotente, solo che la vittima ero io. Loro tornavano a casa, dopo la giornata in ospedale, e dimenticavano tutto, mentre io non potevo dimenticare la mia faccia.
Ma ci furono dei cambiamenti nella mia vita. Mio padre trovò lavoro. Passò l’esame al County Museum di Los Angeles ed ebbe il posto di guardiano. Mio padre era bravo agli esami. Adorava la matematica e la storia. Passò l’esame, e finalmente ebbe di nuovo un posto dove andare tutte le mattine. C’erano tre posti liberi, e lui ne ebbe uno.
Chissà come, il County General Hospital di Los Angeles venne a sapere che mio padre non era più disoccupato, e un giorno Miss Ackerman mi disse: « Henry, questa è l’ultima seduta terapeutica. Mi mancherai ».
« Oh », dissi io, « non mi prenda in giro. Lei sentirà la mia mancanza quanto io quella dell’ago elettrico! ».
Ma quel giorno Miss Ackerman si comportò in modo molto strano. I suoi grandi occhi scuri erano liquidi. La sentii soffiarsi il naso.
Sentii anche una delle infermiere chiederle: « Ehi, Janice, cosa ti succede? ».
« Niente. Sto bene ».
Povera Miss Ackerman. Io avevo quindici anni, ero coperto di pustole e innamorato di lei. Non c’era niente che nessuno dei due potesse fare in proposito.
« Va bene », disse Miss Ackerman, « questa è l’ultima applicazione di raggi ultravioletti. Sdraiati sullo stomaco ».
« Adesso so come si chiama di nome », le dissi. « Janice. È molto carino. Come lei ».
« Oh, zitto », disse Janice.
La vidi ancora una volta, quando suonò il campanello del timer. Mi voltai, Janice sistemò la macchina, e uscì dalla stanza. Non la vidi mai più.
Mio padre non credeva nei dottori a pagamento. « Ti fanno pisciare in una provetta, si intascano i tuoi soldi, e tornano a casa dalla moglie, a Beverly Hills », diceva.
Ma una volta mi mandò da uno di loro. Da un dottore con l’alito cattivo e la testa tonda come una palla da basket, solo che aveva gli occhi mentre le palle da basket non li avevano. Mio padre non mi piaceva, e il dottore non era meglio di lui. Disse, niente fritti e molto succo di carota. Tutto lì.
Sarei tornato a scuola il semestre seguente, disse mio padre.
« Mi faccio un culo così a tener lontani i ladri. Ieri un negro ha spaccato una vetrina e ha preso un bel po’ di monete rare. L’ho preso, quel bastardo. Siamo rotolati giù insieme per le scale. Sono riuscito a trattenerlo fino a quando sono arrivati gli altri. Rischio la vita tutti i giorni. Perché mai tu dovresti passare le giornate col culo su una sedia a rimuginare? Voglio che diventi un ingegnere. Come cazzo farai a diventare un ingegnere, se l’unica cosa che disegni sono donne con le sottane tirate su sulla fica? Non sei capace di disegnare altro? Perché non provi con qualche fiore, o le montagne, o l’oceano? Intanto torni a scuola ! Subito ! ».
Bevvi un sacco di succo di carota e aspettai di poter tornare a scuola. Avevo perso solo un semestre. I foruncoli non erano spariti, ma erano meglio di prima.
« Lo sai quanto mi costa il tuo succo di carota? Devo lavorare almeno un’ora al giorno solo per il tuo fottuto succo di carota! ».
Scoprii la biblioteca pubblica La Cienega. Feci il tesserino. La biblioteca era vicino alla vecchia chiesa sul West Adams. Era una biblioteca molto piccola, con una sola bibliotecaria. Una donna di classe. Sui trentotto anni, ma coi capelli bianchissimi raccolti in uno stretto nodo sulla nuca. Aveva il naso aguzzo e gli occhi verdi, profondi, dietro le lenti senza montatura. Avevo la sensazione che sapesse tutto.
Giravo per la biblioteca in cerca di libri. Li tiravo giù dagli scaffali, a uno a uno. Ma non erano granché. Erano molto noiosi. Pagine e pagine di parole che non dicevano niente. 0 se dicevano qualche cosa ci mettevano troppo a dirla e quando l’avevano detta uno era così stanco che non aveva più nessuna importanza. Sfogliai un libro dopo l’altro. Di certo, tra tutti, ne avrei trovato uno che mi andava bene.
Tutti i giorni andavo giù alla biblioteca all’angolo tra Adams e LaBrea e c’era la mia bibliotecaria, severa, infallibile e silenziosa. Continuavo a tirar giù libri dagli scaffali. Il primo libro decente che trovai era di un tizio di nome Upton Sinclair. Le sue frasi erano semplici, e parlava con rabbia. Scriveva con rabbia. Scriveva dei porcili di Chicago. Diceva le cose com’erano, semplicemente, senza tanti fronzoli. Poi trovai un altro autore. Si chiamava Sinclair Lewis. E il libro si intitolava Main Street. Questo Lewis spogliava gli uomini della loro ipocrisia, uno strato dopo l’altro. Solo che gli mancava la passione.
Ricominciai a cercare. Leggevo un libro a sera.
Un giorno stavo girando per la biblioteca, e intanto guardavo di sottecchi la bibliotecaria, quando trovai un libro con questo titolo: Bow Down To Wood and Stone. Un bel titolo, perché era proprio quello che facevano tutti, inchinarsi al legno e alla pietra. Finalmente un po’ di fuoco ! Aprii il libro. L’autrice era Josephine Lawrence. Una donna. Non importava. Chiunque, anche le donne, poteva arrivare alla conoscenza. Lo sfogliai. Era come tanti altri libri: pagine di parole effeminate, oscure, noiose. Rimisi a posto il libro. E già che ero lì, con la mano alzata, tirai giù il libro vicino. Era di un altro Lawrence. Aprii il libro a caso e cominciai a leggere. Parlava di un uomo al pianoforte. Da principio sembrava tutto molto falso. Ma continuai a leggere. L’uomo al pianoforte era inquieto. Il suo cervello continuava a dire cose. Cose oscure e curiose. Le frasi erano serrate, incalzanti, come un uomo che urlasse, ma non « Joe, dove sei? ». Piuttosto, Joe, dovè qualcosa? Lawrence con le sue frasi serrate, dolorose. Nessuno mi aveva mai parlato di lui. Perché non lo pubblicizzavano?
Lessi un libro al giorno. Lessi tutto il D.H. Lawrence che c’era in quella biblioteca. La mia bibliotecaria cominciò a guardarmi in modo strano, quando arrivavo col mio tesserino.
« Come va oggi? », mi chiedeva.
Una frase gentile. Mi faceva sentir meglio. Come se fossi andato a letto con lei. Lessi tutti i libri di D.H. Lawrence. E mi portarono ad altri libri. A quelli di H.D., la poetessa. A quelli di Huxley, l’amico di Lawrence. Li leggevo uno dopo l’altro, difilato. Uno tirava l’altro. Attaccai Dos Passos. Non era eccezionale, ma buono, abbastanza buono. Mi ci volle più di un giorno per leggere la sua trilogia sugli USA. Dreiser non era il mio genere. Sherwood Anderson sì. E poi arrivò Hemingway. Che roba! Lui sì che le sapeva metter giù, le frasi. Era una delizia. Le sue parole non erano noiose, le sue parole ti facevano ronzare il cervello. Bastava leggerle, abbandonarsi alla magia, e si poteva vivere senza dolore, pieni di speranza, non importava come.
Ma quando tornavo a casa…
« Spegni la luce! », urlava mio padre.
Stavo leggendo i russi, Turgenev e Gorky. Mio padre voleva che le luci fossero tutte spente alle 8 di sera. Voleva dormire per essere fresco ed efficiente al lavoro, il giorno dopo. A casa non parlava d’altro che del suo lavoro. Parlava a mia madre del suo lavoro dal momento in cui metteva piede in casa la sera fino a quando andavano a dormire. Era deciso a far carriera.
« Bene, adesso basta con quei fottuti libri! Spegni la luce! ».
Per me, quei personaggi entrati da poco nella mia vita dal nulla erano tutto. Erano le sole voci che mi parlavano.
« Va bene », dicevo.
Poi prendevo la lampada, mi infilavo sotto le coperte, tiravo sotto anche il cuscino, e leggevo, col libro appoggiato al cuscino, sotto la trapunta. Faceva un gran caldo, la lampada si surriscaldava, e facevo fatica a respirare. Alzavo la coperta per far entrare un po’ d’aria.
« Che cosa succede? È una luce quella? Henry, hai spento la luce? ».
Tiravo giù in fretta la coperta e aspettavo che mio padre si mettesse a russare.
Turgenev era un tipo molto serio, ma riusciva a farmi ridere perché le verità sono molto divertenti, quando le si incontra per la prima volta. Quando la verità di qualcuno è la tua stessa verità, e lui sembra dirla solo per te, è una cosa fantastica.
Leggevo i miei libri di notte, sotto la coperta, con la lampada surriscaldata. Leggevo tutte quelle belle frasi e intanto soffocavo. Pura magia.
E mio padre aveva trovato lavoro, e per lui quella era pura magia…