Capitolo ventottesimo

I tre anni di medie inferiori passarono in fretta. Verso la fine del secondo mi scoppiò l’acne. Ce l’avevano in tanti, ma niente di paragonabile alla mia. La mia acne era veramente tremenda. Ero il peggior caso della città. Avevo la faccia, la schiena, il collo e parte del petto coperti di brufoli e foruncoli. Successe proprio quando stavo per consolidare la mia fama di duro e di leader. Ero ancora un duro, ma non era più la stessa cosa. Fui costretto a ritirarmi. Guardavo la gente da lontano, come a teatro. Solo che loro erano gli attori, e io il pubblico, un pubblico di una sola persona. Non ero mai stato un drago, con le ragazze, ma ora con l’acne non potevo nemmeno avvicinarle. Mi sembravano più inaccessibili che mai. Alcune erano veramente belle… bei capelli, begli occhi, bei vestiti, e quel modo di muoversi… Mi sarebbe bastato poco, anche solo camminare per la strada un pomeriggio con una di loro, e parlare, di tutto e di niente, davvero mi sarebbe bastato.

E poi c’era qualcosa, in me, che mi metteva continuamente nei guai. Non piacevo agli insegnanti, che non si fidavano di me, le donne soprattutto. Non dicevo mai niente, ma loro sostenevano che il mio « atteggiamento » era insopportabile. Il modo in cui mi stravaccavo sul banco, e il tono della mia voce. Mi accusavano di « insolenza », anche se io non mi rendevo conto di niente. Durante le lezioni, mi mandavano spesso fuori in corridoio o dal preside. Il preside faceva sempre la stessa cosa. C’era una cabina telefonica, nel suo ufficio, e lui mi infilava lì dentro, in piedi, con la porta chiusa. Passai molte ore in quella cabina telefonica. L’unica cosa da leggere lì dentro era il « Ladies Home Journal ». Una vera e propria tortura. Io comunque lo leggevo, il « Ladies Home Journal ». Non persi un numero. Speravo di imparare qualcosa sulle donne, in quel modo.

Avevo collezionato almeno 5.000 demeriti, ma questo non mi impedì di diplomarmi. Volevano liberarsi di me. Il giorno della cerimonia di consegna dei diplomi, ero in fila con tutti gli altri, fuori dell’aula magna. Avevamo tutti’ il tocco e la toga, roba a buon mercato che le classi di diplomandi si passavano di anno in anno da tempo immemorabile. Ci chiamavano a uno a uno dal palco. Una fottutissima cerimonia, per il conferimento di uno stupido diploma come quello. La banda suonava la canzone della scuola:

Oh Mt. Justin, oh, Mt. Justin,
Sempre ti ricorderemo,
Con cuore contento
Per il mondo noi andremo…

Eravamo tutti in fila, in attesa di esser chiamati sul palco. Il pubblico era composto da genitori, parenti e amici.

« Adesso vomito », disse uno dei ragazzi.

« Ci tocca mangiare sempre più merda », disse un altro.

Le ragazze sembravano prenderla più seriamente, la cerimonia. Ecco perché non potevamo fidarci veramente di loro. Stavano sempre dalla parte sbagliata. Stavano dalla parte della scuola.

« Questa roba mi deprime », disse uno dei ragazzi. « Vorrei poter fumare ».

« Ecco qua… ».

Un altro ragazzo gli diede una sigaretta. Ce la passammo in quattro o cinque. Io presi una boccata ed esalai dalle narici. Poi vidi arrivare Ricciolone Wagner.

« Buttala via! », dissi. « Arriva testa di cazzo! ».

Wagner puntò dritto su di me. Indossava la tuta da ginnastica grigia, esattamente come la prima volta che l’avevo visto e tutte le altre volte da allora. Si fermò davanti a me.

« Senti », disse, « tu credi di potermi sfuggire perché te ne vai di qui, ma ti sbagli! Ti perseguiterò per il resto dei tuoi giorni. Ti seguirò fino in capo al mondo e alla fine ti prenderò! ».

Io mi limitai a guardarlo senza dire niente, e lui se ne andò. Il discorsetto commemorativo di Wagner riuscì solo a farmi sembrare un dio agli occhi dei ragazzi. Credettero tutti che avessi fatto chissà cosa, per farlo incazzare a quel modo. Ma non era vero. Wagner era semplicemente pazzo.

La fila si muoveva verso la porta dell’aula magna. Ora non solo sentivamo i nomi, e gli applausi, ma riuscivamo anche a vedere il pubblico.

Poi toccò a me.

« Henry Chinaski », disse il preside al microfono. E io mi feci avanti. Non ci furono applausi. Poi qualche anima gentile tra il pubblico accennò a un battimani.

C’erano parecchie file di sedili sul palco, per i diplomandi. Stavamo tutti seduti ad aspettare. Il preside fece il suo discorso sulle possibilità di successo in America. Poi la cerimonia finì. La banda attaccò di nuovo la canzone della scuola. Gli studenti, i genitori e gli amici si alzarono dalle sedie e si mescolarono. Io mi aggirai tra la folla in cerca dei miei genitori. Non cerano. Mi accertai che non ci fossero davvero. Girai tra la gente guardando tutti i convenuti a uno a uno per essere ben sicuro che non ci fossero.

Non me ne importava niente. Un vero duro non aveva bisogno dei genitori. Mi tolsi quel tocco e quella toga da antiquariato e li consegnai al tizio in fondo al corridoio… il bidello. Lui li ripiegò e li mise via per l’anno dopo.

Uscii fuori. Fui il primo a uscir fuori. Ma dove potevo andare? Avevo undici cents in tasca. Tornai a casa.