Capitolo quarantacinquesimo
La cerimonia di consegna dei diplomi. Sfilammo in tocco e toga alle note di « Pomp and Circumstance ». Suppongo che nel corso di tre anni avessimo imparato qualcosa. Probabilmente nessuno faceva più tanti errori di ortografia ed eravamo tutti cresciuti. Io ero ancora vergine. « Ehi, Henry, l’hai già mangiata la mela? », mi chiedevano. « Eh, col cazzo », rispondevo io.
Jimmy Hatcher era seduto vicino a me. Il preside stava facendo il suo discorso, stava veramente tirando fuori gli ultimi residui di stronzate. « L’America è il paese delle Grandi Possibilità, e ogni uomo, o donna, con la volontà di arrivare lontano può riuscire a farcela… ».
« Sguattero », dissi io.
« Accalappiacani », disse Jimmy.
« Scassinatore », dissi io.
« Spazzino », disse Jimmy.
« Infermiere di manicomio », dissi io.
« L’America è un paese coraggioso, l’America è stata costruita da gente coraggiosa… La nostra è una società giusta ».
« Per i pochi che possono permettersela », disse Jimmy.
« … una società giusta, e tutti coloro che si metteranno alla ricerca del tesoro alla fine dell’arcobaleno troveranno… ».
« Un bello stronzo fumante ». suggerii.
« … e posso dire, senza esitazioni, che questa particolare classe 1939, cresciuta durante la terribile depressione che ha sconvolto il paese, questa classe 1939 è più ricca di coraggio, talento e amore di ogni altra che abbia mai avuto il piacere di seguire e osservare! ».
Madri, padri e parenti applaudirono selvaggiamente; qualche studente fece altrettanto.
« Classe 1939, sono orgoglioso del vostro futuro, sono certo che sarà un futuro brillante. E ora, via, verso la vostra grande avventura ! ».
Per la maggior parte di quei ragazzi la prospettiva era quella di almeno altri quattro anni di dolce far niente alla University of Southern California.
« Vi mando le mie preghiere e la mia benedizione! ».
Gli studenti più bravi ricevettero il diploma per primi. Sfilarono a uno a uno. Venne chiamato anche Abe Mortenson. Prese il suo diploma. Applaudii.
« Chissà che fine farà, Abe », disse Jimmy.
« Contabile in una fabbrica di ricambi per auto. Dalle parti di Gardena, California ».
« Un lavoro sicuro, per tutta la vita… », disse Jimmy.
« Una moglie per tutta la vita », aggiunsi io.
« Abe non sarà mai disperato… ».
« Né felice ».
« Un brav’uomo, ubbidiente ».
« Lavoratore ».
« Timorato di Dio ».
« Buon padre di famiglia ».
Dopo gli studenti con lode, toccò a noi. Non mi andava di starmene là seduto. Avevo voglia di andarmene.
« Henry Chinaski! », chiamarono.
« Pubblico funzionario », dissi a Jimmy.
Salii sul palco, lo attraversai, presi il diploma, strinsi la mano al preside. Era viscida come l’interno di un acquario sporco. (Due anni dopo sarebbe stato denunciato per malversazione; sarebbe stato processato, condannato e messo in galera.)
Tornando al mio posto, passai davanti a Mortenson e agli altri diplomati con lode. Abe mi guardò e alzò il medio come per dire: « Te l’ho messo nel culo ». Lo fece di nascosto, in modo che potessi vederlo solo io. Restai di sasso. Proprio non me l’aspettavo.
Tornai al mio posto vicino a Jimmy.
« Mortenson mi ha mandato a fare in culo ! ».
« Non ci credo! ».
« Brutto stronzo! Mi ha rovinato la giornata! Era già una cerimonia del cazzo, ma questa è proprio l’ultima goccia ! ».
« Non posso credere che abbia avuto il coraggio di mandarti a fare in culo ».
« Non è da lui. Credi che si stia svegliando? ».
« Non so cosa pensare ».
« Lo sa che posso stenderlo con un soffio! ».
« Suonagliele ! ».
« Ma non capisci che ha vinto lui ? Mi ha colto di sorpresa! ».
« Tutto quello che devi fare è spaccargli la testa ».
« Credi che quel figlio di buona donna abbia imparato qualcosa da quei libri merdosi? Eppure io lo so che sono merdosi, ho letto una pagina su quattro ».
« Jimmy Hatcher ! ». Lo stavano chiamando.
« Sacerdote », disse lui.
« Allevatore di polli », dissi io.
Jimmv salì sul palco e prese il diploma. Applaudii forte. Chiunque riuscisse a vivere con una madre come la sua si meritava un abbraccio. Jimmy tornò al suo posto e restammo seduti a guardare tutti i ragazzi e le ragazze d’oro ricevere i loro diplomi.
« Non è colpa loro se sono ricchi », disse Jimmy.
« No, la colpa è dei loro genitori ».
« E dei loro nonni », disse Jimmy.
« Sì, mi piacerebbe prendermi le loro macchine nuove e le loro ragazze carine, e non me ne fregherebbe un cazzo della giustizia sociale, se le avessi ».
« Sì », disse Jimmy. « Secondo me la gente pensa alle ingiustizie solo quando toccano a loro ».
I ragazzi e le ragazze d’oro continuavano a sfilare sul palco. Io stavo lì seduto a chiedermi se dovevo spaccare la faccia ad Abe o no. Lo vedevo già steso sul marciapiede in tocco e toga, vittima del mio destro, con tutte le ragazze carine intorno che urlavano, e pensavano, dio mio, quel Chinaski è un toro !
D’altra parte Abe non era granché. Non esisteva, praticamente. Non ci voleva niente a stenderlo. Decisi di non farlo. Gli avevo già rotto un braccio, e i suoi genitori alla fine avevano deciso di non far causa ai miei. Ora, se gli avessi spaccato la testa avrebbero senz’altro deciso di procedere. Avrebbero prosciugato mio padre fino all’ultimo soldo. Non che me ne importasse. Era per mia madre: avrebbe sofferto, da vera stupida, senza scopo e senza ragione.
Poi la cerimonia finì. Gli studenti si alzarono e uscirono. Si mescolarono a genitori e parenti sul prato davanti alla scuola. Grandi abbracci, strette di mano, pacche sulle spalle. Vidi i miei genitori. Mi aspettavano. Mi avvicinai a circa un metro.
« Andiamocene di qua », dissi.
Mia madre mi guardava.
« Henry, sono davvero orgogliosa di te! ».
Poi voltò la testa. « Oh, ecco Abe coi suoi genitori ! Gente tanto perbene ! Oh, Mrs. Mortenson! ».
I Mortenson si fermarono. Mia madre corse ad abbracciare Mrs. Mortenson. Era stata Mrs. Mortenson a decidere di non farci causa, dopo molte, molte ore di conversazione telefonica con mia madre. Avevano deciso che io ero un ragazzo difficile e che mia madre aveva già sofferto abbastanza per questo.
Mio padre strinse la mano a Mr. Mortenson e io mi avvicinai ad Abe.
« O.K., finocchio, com’è che ti è venuta l’idea di mandarmi a fare in culo? ».
« Che cosa? ».
« Hai alzato il medio ! ».
« Non so di cosa tu stia parlando! ».
« Il medio! ».
« Henry, davvero non capisco di cosa tu stia parlando! ».
« Su, Abraham, è ora di andare ! », disse sua madre.
La famiglia Mortenson al completo si allontanò. Io restai a guardarli. Poi ci avviammo alla nostra vecchia macchina. Andammo all’angolo, verso ovest, poi svoltammo a sud.
« Eh, quel ragazzo Mortenson sì che sa applicarsi! », disse mio padre. « E tu come farai? Non ti ho mai visto nemmeno guardare un libro di testo, figuriamoci leggerlo! ».
« Certi libri sono stupidi », dissi io.
« Ah, sono stupidi, eh? E così tu non vuoi studiare? E allora cosa farai? Cosa sai fare? Qualcosa saprai fare, no? Allevarti, nutrirti, vestirti mi è già costato migliaia di dollari ! E se adesso ti lasciassi qui, per strada? Che cosa faresti? ».
« Acchiapperei farfalle ».
Mia madre cominciò a piangere. Mio padre la trascinò via, giù per la strada, fino in fondo all’isolato dov’era parcheggiata la loro macchina vecchia di dieci anni. Io restai lì sul marciapiede, e le altre famiglie mi passarono davanti rombando nelle loro macchine nuove. Chissà dove andavano.
Poi arrivarono Jimmy Hatcher e sua madre. Lei si fermò. « Ehi, aspetta un momento », disse a Jimmy, « voglio congratularmi con Henry ».
Jimmy mi fermò e Clare si avvicinò. Accostò la faccia alla mia. Parlò piano, perché Jimmy non potesse sentire. « Senti, tesoro, se davvero ti vien voglia di diplomarti, sono a tua disposizione, ci penso io ».
« Grazie, Clare, ci vediamo, eh ».
« Ti spezzerò le reni, Henry, vedrai che roba ! ».
« Non ne dubito, Clare ».
Clare tornò da Jimmy e si allontanarono insieme giù per la strada.
Una macchina decrepita si avvicinò, si fermò, il motore si spense. Mia madre stava piangendo, grosse lacrime le scorrevano giù per le guance.
« Henry, sali ! Avanti, sali, ti prego! Tuo padre ha ragione, ma ti voglio bene lo stesso! ».
« Lascia perdere. So dove andare ».
« No, Henry, sali ! », gemette lei. « Se non sali morirò ! ».
Mi avvicinai alla macchina, aprii la portiera posteriore, salii. Il motore si accese e ripartimmo. Io, Henry Chinaski, classe 1939, me ne andavo verso il mio futuro luminoso. No, mi ci portavano. Al primo semaforo rosso la macchina si fermò e il motore si spense. Quando diventò verde, mio padre stava ancora cercando di accenderlo. Dietro di noi qualcuno suonò il clacson. Mio padre riuscì a mettere in moto e ripartimmo. Mia madre aveva smesso di piangere. Continuammo ad andare così, in silenzio.