Capitolo quarantottesimo

« E così non sei riuscito a tenerti un lavoro nemmeno per una settimana? ».

Stavamo mangiando polpette e spaghetti. I miei problemi venivano sempre discussi all’ora di pranzo. L’ora di pranzo era quasi sempre un’ora infelice.

Non risposi alla domanda di mio padre.

« Che cos’è successo? Perché ti hanno sbattuto fuori? ».

Non risposi.

« Henry, quando tuo padre ti parla, rispondi! », .disse mia madre.

« Non combinava un cazzo, ecco perché l’hanno sbattuto fuori ! ».

« Guardagli la faccia », disse mia madre, « è tutta un livido e un taglio. Il capo ti ha picchiato, Henry? ».

« No, mamma… ».

« Perché non mangi. Henry? Non hai mai fame, non mangi mai niente ».

« Non mangia », disse mio padre, « non lavora, non fa niente, non vale un cazzo! ».

« Non dovresti usare questo linguaggio a tavola, papà », gli disse mia madre.

« Be’, è vero ! ». Mio padre aveva arrotolato sulla forchetta un’enorme palla di spaghetti. Se la infilò in bocca e cominciò a masticare, e mentre masticava infilzò una grossa polpetta e si ficcò in bocca anche quella, insieme a un pezzo di pane francese.

Ricorda» quello che diceva Ivan ne I fratelli Karamazov: « Chi non desidera uccidere il proprio padre? ».

Mio padre continuò a masticare quell’ammasso di cibo, con un lungo spaghetto che gli penzolava all’angolo della bocca. Alla fine se ne accorse e Io risucchiò rumorosamente. Poi si sporse, mise due cucchiaini stracolmi di zucchero nel caffè, alzò la tazza, prese un’enorme sorsata e la risputò subito sul piatto e sulla tovaglia.

« Merda ! È bollente! ».

« Dovresti fare più attenzione, papà », disse mia madre.

Setacciai il mercato del lavoro, come si suol dire, ma era una cosa orrenda e inutile. Bisognava conoscere qualcuno per ottenere anche solo un posto di lavapiatti. E così tutti erano lavapiatti, la città pullulava di lavapiatti disoccupati. Io passavo i pomeriggi con loro in Pershing Square. C’erano anche gli evangelisti. Alcuni col tamburo, altri con la chitarra, e i cespugli e le toilette pullulavano di omosessuali.

« Certi sono pieni di soldi », mi disse un giovane barbone. « Una volta un tizio mi ha tenuto a casa sua per due settimane. Potevo mangiare e bere tutto quello che riuscivo a mandar giù, e mi comperava anche i vestiti… ma ero sfinito, dopo un po’ non riuscivo più a stare in piedi. Una notte mentre dormiva sgattaiolai fuori. Una cosa tremenda. Una volta mi baciò e io lo mandai in fondo alla stanza con un cazzotto. “Non osare mai più fare una cosa del genere”, gli dissi, “altrimenti ti ammazzo!” ».

La Clifton’s Cafeteria era un bel posto. Se uno non aveva abbastanza soldi, si accontentavano. E se uno era proprio al verde, lasciavano perdere. Parecchi barboni ci andavano a mangiare. Era di proprietà di un vecchio filantropo, un tipo molto strano. Non ce la feci mai, a entrare là dentro a riempirmi la pancia gratis. Prendevo un caffè, una fetta di torta di mele, e pagavo con cinque cents. Qualche volta mangiavo un paio di würsteln. Era un posto tranquillo, e pulito. C’era una bella cascata, e ci si poteva sedere vicino all’acqua e far finta che andasse tutto bene. Anche da Philippe il trattamento era ottimo. Un caffè costava tre cents, e ti riempivano la tazza tutte le volte che volevi. Si poteva star seduti lì dentro tutto il giorno a bere caffè, e nessuno ti chiedeva di andartene, anche se eri conciato proprio male. L’unica cosa che non si poteva fare, era portarsi dietro il vino e berlo dentro il locale. Posti come quello ti aiutavano a sperare anche quando non c’era niente in cui sperare.

I frequentatori di Pershing Square discutevano tutto il giorno sull’esistenza di Dio. Non che fossero maghi della dialettica, nella maggior parte dei casi, ma ogni tanto arrivava un Religioso, o un Ateo, e quelli sì che la sapevano lunga, era divertente ascoltarli.

Quando avevo qualche soldo andavo al bar nel sotterraneo del grande cinematografo. Avevo solo diciotto anni, ma mi servivano lo stesso. Avrei potuto avere qualunque età. Qualche volta dimostravo venticinque anni, altre volte me ne sentivo addosso trenta. Il bar era gestito da cinesi che non parlavano mai con nessuno. Dovevo solo pagarmi la prima birra, gli omosessuali pensavano al resto. E allora attaccavo con gli whisky sour. Mungevo loro qualche whisky sour, poi, quando cominciavano a venire al sodo, diventavo cattivo, mi incazzavo e me ne andavo. Dopo un po’ si fecero furbi e il trucchetto non funzionò più.

La biblioteca era il posto più deprimente fra quelli dove potevo andare. Avevo già letto tutti i libri. Dopo un po’ prendevo su un librone qualunque e mi guardavo intorno in cerca di qualche ragazza. Ce n erano sempre un paio in circolazione. Mi sedevo tre o quattro sedie più in là, facevo finta di leggere, con aria intelligente, nella speranza che qualcuna attaccasse discorso. Sapevo di essere brutto, ma forse, se fossi riuscito ad aver l’aria intelligente, avrei avuto qualche possibilità. Non funzionava mai.

Le ragazze continuavano a prendere appunti nei loro quaderni, poi si alzavano e se ne andavano. Io le seguivo con gli occhi, le guardavo muovere ritmicamente quei loro corpi magici sotto i vestiti puliti. Che cosa avrebbe fatto Maxim Gorky in quelle circostanze?

A casa era sempre la stessa storia. Nessuno mi faceva mai domande fino a quando non avevamo mandato giù i primi bocconi del pranzo. Poi mio padre mi chiedeva: « Allora, hai trovato lavoro oggi? ».

« No ».

« L’hai cercato? ».

« Dappertutto. Sono andato in un sacco di posti. Sono perfino tornato due o tre volte nello stesso posto ».

« Non ci credo ».

Invece era vero. Era anche vero che certe aziende mettevano tutti i giorni annunci sul giornale anche se non avevano posti disponibili. Tanto per dare qualcosa da fare agli impiegati dell’ufficio del personale. Ma intanto facevano sprecar tempo a un sacco di gente disperata, per non parlare delle speranze inutili che suscitavano.

« Vedrai che domani troverai lavoro, Henry », diceva sempre mia madre…