Tigri
Una mattina di novembre del 2002 il padre stava per dare il via alle riprese della nuova puntata della famosa serie tv quando da qualche parte nel giaccone verde, una vecchia giacca da pescatore, squillò il cellulare. Aveva di nuovo dimenticato di metterlo in modalità silenziosa, lo guardò severo l’aiuto regista fermando il set con un gesto. L’attrice approfittò per specchiarsi nel finestrino del camion: tutta quell’umidità le afflosciava i capelli. Il padre tastò con entrambe le mani prima le due tasche sul petto, poi quelle laterali sui fianchi. Aprì la zip del giaccone e cercò nella busta interna di rete, a sinistra, poi finalmente nella cerniera in basso a destra. Nuvole nere e basse toccavano i tetti del Corviale. Numero anonimo. Rispose. La voce metallica e spazientita della segretaria della scuola elementare «Trento e Trieste» lo informava che qualcuno doveva andare a prendere la bambina: si era chiusa a chiave nel gabbiotto delle caldaie, erano riusciti a forzare la porta e farla uscire ma lei adesso si rifiutava di tornare in classe e non parlava con nessuno. Come mai il locale delle caldaie a scuola è accessibile ai bambini e ha una chiave, chiese il padre, la segretaria non rispose o non capì. Chiamate la madre, disse allora lui. La madre non c’è e al numero di casa scatta la segreteria. Sua figlia in questo momento è seduta per terra nell’atrio con la testa tra le ginocchia e non si muove. Il padre si guardò attorno, incrociò lo sguardo di attori e tecnici. - Interrompiamo, viene a piovere, - disse. Tastò nella tasca dei pantaloni le chiavi dell’auto. L’attrice pensò: meglio, stamattina i capelli mi stavano da schifo.
La sesta e ultima figlia del regista tv, Lorenza, voleva essere un maschio. I quattro fratelli di uno, tre, quattro e sei anni più grandi - Giovanni, Giacomo, Federico, Francesco - le avevano sempre fatto credere che poteva, volendo. Bastava tagliarsi i capelli corti come loro e fare la lotta normalmente. Bastava mettersi sempre maglietta felpa e pantaloni, cosa che del resto accadeva. Lorenza non aveva mai avuto niente di suo, solo vestiti e scarpe dei fratelli. La sorella primogenita, Giulia, sedici anni, aveva lunghi boccoli neri una stanza tutta per sé una chitarra un fidanzato e nessun interesse per i fratelli, parola che anche dopo la nascita di Lorenza aveva continuato a declinare al maschile, plurale. Anche i genitori: «Noi usciamo, togliti le cuffie e stai attenta ai fratelli». Lorenza dormiva nel letto a castello sotto Giovanni, in stanza con Giacomo. Quando la madre aveva capito che non poteva - in sua assenza - difenderla dalle botte dei più grandi le aveva costruito una specie di armatura coi cuscini, legata sul corpo con le cinghie dei pantaloni del padre. Andava a lavorare e la lasciava bardata come una tartaruga Ninja. Fino alla fine della scuola materna Lorenza era stata felice. Ora, però, c’era questo problema.
I nuovi compagni, in prima elementare, l’avevano individuata come femmina, e insieme a loro la maestra. Le era stato assegnato un posto al primo banco accanto alla bambina Sofia, elastici con le ciliegie a fermare le due code ai lati della testa. A ricreazione i maschi non la accettavano nei giochi, giacché era femmina. Le femmine neppure, sembrava un maschio. Dopo meno di due mesi si era chiusa nel gabbiotto. A chiave.
«Me lo ricordo benissimo quel giorno. Ero disperata. Non volevo tornare in classe. Non volevo in generale tornare più a scuola, mai più. Mi ricordo l’odore della stanza delle caldaie. Come di polvere di umido e di gesso. Buio, penombra. E la porta di ferro, con la chiave dentro. Loro fuori che mi chiamavano, e io zitta. E bello quando ti chiamano e non rispondi. Senti nelle voci l’ansia che sale, i passi che vanno e vengono fitti fitti, senti che si preoccupano, che se stai zitta chissà cosa pensano. Pensi che loro pensino che sei morta, e sei contenta: così, almeno, imparano».
- Non è che lavori solo tu, sai. Non è importante solo quello che fai tu. Se non rispondo è perché non posso. I figli sono anche tuoi. Oppure pensi che siccome sono sei sarebbe meglio che io restassi a casa. Sei tu che li hai voluti, te lo ricordi? Sono belli tanti. Facciamone tanti. Ok, allora ora occupatene, però.
- Smettila, me ne occupo. Lo sai che me ne occupo.
- No tu non te ne occupi. Tu fai le cose. Li porti a scuola in macchina, ok. Li vai a vedere quando giocano la domenica, ok. Gli dài i soldi quando li chiedono. Ma di come stanno, cosa ne sai? Ci parli tu? Quando ci parli? Lo sai che Giulia prende la pillola? Lo sai che Giacomo dorme ancora col dito in bocca? E che Giovanni odia il calcio e viene allo stadio solo per farti piacere? Lo sai questo?
- Smettila, dài, non alzare la voce.
- No che non lo sai. E questo fatto di Lorenza che si fa chiamare Lorenzo non è una scemenza, non fa ridere. Lei, a tutti quelli che non la conoscono, si presenta come un maschio. Questo lo sai tu? Quando ne parliamo io e te, dimmelo. Quando?
- Sentiamo uno psicologo, magari.
- Ma lascia perdere va’. Ma quale psicologo.
«Mi ricordo che mia madre mi diceva guarda che è bello anche essere una femmina, cosa c’è che non ti piace, spiegami. Ma io non riuscivo. I maschi mi piacevano sempre, mi facevano sentire comoda. Le femmine mi facevano paura. Coi maschi non si litigava mai sul serio, si giocava. Poi passava. Anche le femmine facevano finta, ma in un altro modo. Più complicato, un modo che non capivo. Un giorno ho detto a mia madre: se non posso essere un maschio allora voglio essere un cane. E così che è arrivata Bionda. Non puoi essere un cane, Lorenza, ma puoi avere un cane. Bionda era piccolissima. Me la sono messa subito nel letto. Quando è cresciuta ed è diventata enorme abbiamo continuato a dormire insieme, però per terra, sul tappeto. Mi prendevo il cuscino e dormivo con lei. Poi è successo all’improvviso, avrò avuto quindici o sedici anni: un giorno mi sono guardata allo specchio prima di andare a scuola e ho detto ok, dai, sei una ragazza fai la ragazza. Almeno provaci. Magari ti diverti».
- Lorenza dice che si è innamorata.
- Ah.
- Ha un ragazzo, dice che vuole andare in vacanza con lui.
- Dove?
- In barca coi genitori di lui. Vanno in Grecia. Li conosco. Sono persone gentili. Tu che dici?
- Ma non lo so, se sono gentili va bene, invitiamoli a cena. Il ragazzo com’è?
- Un ragazzo. Un amico di Giacomo. Ha diciassette anni. Carino, mi pare.
- Va bene allora. No?
- Non lo so, in barca... E se poi vuole tornare e non può?
- La fai sempre tragica. Se vuole tornare prende un aereo e torna.
«Al ritorno dalla Grecia, a settembre, ci siamo lasciati. Pensavo: allora lo vedi che avevo ragione, la vita da ragazza è un inferno. Sono entrata in depressione. Non volevo più uscire di casa. Poi ho pensato: parto. Me ne vado all’altro capo del mondo, vado in Nuova Zelanda. C’erano i programmi per fare un anno di liceo all’estero, non lo so se ci sono ancora. Mia madre ha detto va bene, vai. Mi è cambiata la vita. Tutti in Nuova Zelanda mi dicevano che ero bella, io che mi sono sempre sentita un burattino: legnosa, muscolosa, troppo alta e troppo magra. Mi dicevano: wow, thè italian girli II ragazzo della fattoria dove vivevo mi ha insegnato ad andare a cavallo senza sella, siamo diventati molto amici, e poi friends with benefits, hai presente? Amici che dormono anche insieme ma senza impegno, con il beneficio del tepore, del contatto. Qui va meno. E una cosa dei Paesi anglosassoni. Qui ti fai subito la cattiva fama, stanno tutti lì a giudicare, è un disastro. Poi effettivamente per restare friends with benefits bisogna che nessuno dei due si innamori, se no diventa un rapporto squilibrato e finisce che uno dei due soffre. Ma è un fatto di abitudine. Lui mi diceva tu sei fantastica perché non conosci il pussy power. Le strategie, le manfrine. Le cose da femmina. Io non so fare la fragile per finta, che poi hai tutta un’altra intenzione. Non piango mai, non faccio mai silenzio per farmi chiedere a cosa pensi, non inclino la testa da un lato quando parlo e non rido rovesciandola all'indietro. Proprio non sono capace. Parlo a voce alta, dico sempre la mia, faccio un casino. Però m'innamoro anche io, eh? Sai quando il pensiero della persona è una specie di carta da parati del cervello, che anche se non ci pensi è sempre lì? Sì, sì: m’innamoro. Ma qui in Italia, da quando sono tornata, vado malissimo. La concorrenza è spietata. Bisogna saperci fare. E la legge della giungla. Le profumiere rovinano la piazza. Le profumiere. Quelle che fanno sentire il profumo e poi spariscono. Io coi ragazzi ci gioco come facevo da piccola, a spintoni e parolacce. Non ho futuro, non mi prendono sul serio. Posso solo essere un’amica. Non ci provano mai, con me. Devo provarci io, ma quelle cose tipo lasciar cadere un oggetto per chinarsi insieme e poi baciarlo io non le so fare. Le guardo, le mie amiche, quando staccano il telefono e si fanno inseguire e dico pazzesco: sono veramente bravissime. Ma chi glielo avrà insegnato? Ma dove hanno imparato?»
- Lorenza dice che vuole andare in Africa.
- Bene, bello. Africa dove?
- Dice che va a lavorare in un ospedale, un reparto maternità, in Tanzania.
- Bellissimo, quando?
- A Natale. Dice che vuole donare all’ospedale i soldi che le ha lasciato tua madre.
- Tutti?
- Quasi tutti. Tanti.
- Bello. Una bella idea, no? Vuoi che andiamo anche noi? Vuoi che la accompagniamo? Io a Natale non lavoro, ho finito.
- Tu no ma io sì. Io a Natale lavoro.
«Ci vado, in Tanzania, un po’ anche perché c’è Mattia. Devo essere onesta. Ho deciso anche per quello. Ma siamo solo amici, solo amici. Lui è proprio uno super. Mi ha fatto riflettere su certe cose tipo: perché quando finisce una cena dove siamo in dieci manco te ne accorgi e ti metti a sparecchiare e fare i piatti? Lo vedi che non sei coerente? Nessuno te lo chiede, e tu lo fai, spontaneamente. Perché accetti di andare in discoteca se non ti fanno pagare e i maschi invece pagano dieci euro? Non vedi che informazione occulta c’è dietro il fatto che le donne non pagano? E perché le donne accettano di non pagare? Ribellati. Pretendi di pagare in discoteca. Ha ragione, cazzo. Non ci avevo mai pensato. Voglio pagare quando vado in discoteca. Mattia mi piace un sacco, ma siamo solo amici e per la prima volta non mi va tanto provare a essere friends with benefits. Che poi lui chissà cosa pensa. Mi sa che un giorno di questi glielo dico: mi sono innamorata. Glielo dico e basta. Magari in Africa. Anche lui, come me, pensa la cosa più grave è che stiamo devastando il pianeta. Ma tu lo sai che un giorno potrebbero non esserci più le tigri? A me, se ci penso, mi dispiace che i miei figli non potranno vedere le tigri vive dal vero. Che poi a loro nemmeno dispiacerebbe, perché non le hanno mai viste. Ma a me mancheranno le tigri. Mi mancheranno un casino. E sarà anche colpa mia, se spariscono le tigri. Io, se potessi, ci parlerei con le tigri. Ci dormirei distesa accanto, attaccata, per sentire come respirano. Come facevo con Bionda. Era bellissima, te l’ho detto?, Bionda. Ti ho già raccontato di Bionda?»