Regina

Una mattina di maggio di quaranta, forse cinquanta anni fa la scolaresca di Monte Compatri in gita a Venezia sbarcò dal vaporetto al Lido dopo un viaggio lungo un giorno e facendo molto più chiasso di quello che i professori pensavano di poter tollerare, camminò in eccitata fila per due fino al meublé Regina, che di tutte le pensioni era risultata l'unica che potessero permettersi. Era un edificio in parte chiuso, con le persiane pericolanti sigillate, un'ala ancora praticabile e un piccolo giardino incolto tutto attorno. Le stanze erano immense e Vanna fu accompagnata in una camera grande come la casa dove, in paese, abitava. Era al secondo piano, aveva una finestra più alta di lei che guardava sul mare. Si vedevano le tamerici, la spiaggia deserta, tutta quell'acqua senza fine. Faceva freddo. Vanna pensò che fosse un castello, il più bello che si potesse immaginare e disse a sé stessa che se avesse avuto una figlia l'avrebbe chiamata così. Regina.


Passarono gli anni. Il sesto figlio di Vanna fu un altro maschio. Tre mesi dopo era di nuovo incinta. Esausta, accolse le felicitazioni della suocera e delle vicine con una determinazione sconosciuta. Faccio una femmina, questa volta - disse subito. Regina nacque di maggio.


- Io voglio giocare a rugby.

- Cos'è rugby.

- E un gioco che mi piace. E come il calcio ma con la palla lunga.

- A calcio giocano i maschi.

- Chi l'ha detto? Comunque non è calcio, è diverso.

- Hai detto tu: come il calcio.

- Era per dire, mi sono sbagliata. E molto diverso.

- Va bene per le femmine?

- Sì mamma. Ci vado da sola, non mi devi accompagnare. Costa poco. Ti prego.

- Regina, tanto alla fine fai sempre come vuoi tu. Parlane con tuo padre.

- No mamma. Ne parlo con te. A papà che gliene importa. Vado lunedì, dopo la scuola. Servono venti euro per iscriversi.

- Sono tanti, venti euro.

- Li scali dalla paghetta per due mesi.


A scuola i ragazzi dicevano Regina somiglia a Timon, l'animaletto del Re Leone. Quello che ride sempre, quello con gli occhi grandi, quello che canta Hakuna fiatata. Senza pensieri, la tua vita sarà. Che animale è Timon? Suricata, ha detto la prof. Una specie di topo gigante che sta in piedi. Regina sembra un topo, Regina sembra un topo. Ma lo sai che Regina gioca a rugby? Che roba è? Dài, rugby, una cosa da maschi. E poi lo sai che va a portare da mangiare ai barboni della chiesa e si mette lì a parlare con loro? L'ho vista, ci va la domenica mattina presto. E matta. Regina è matta.


Regina cresceva bellissima, estranea, solitaria. La più brava a scuola, sempre vestita coi vestiti dei fratelli. Mai un suo paio di scarpe, mai un trucco. Capelli lunghi, neri e lucidi, gli occhi più grandi della faccia, il viso bianco, la bocca rosa. Una principessa.


- Mamma, io vado a vivere a Roma.

- Ma che dici?

- Voglio studiare Lingue orientali.

- Che lingue? Lingue di cosa?

- Orientali. Ho trovato un lavoro, mamma. Una ragazza che mi ospita. Io vado.

- Parlane con tuo padre, non capisco cosa dici.

- Non importa mamma. Ho diciotto anni, mi sono diplomata. Qui al paese non resto. Io vado. Con papà ci parli tu.


Assistenza domiciliare. Perfetto. Un lavoro perfetto. Cosa devo fare? Stare con loro, sentire cosa serve. Benissimo. Allora cominci mercoledì. C’è una bambina, Anna, che non parla. Vai tre volte a settimana e le fai compagnia. Ci giochi. Benissimo, vado.


«Anna era una bambina autistica. Al principio non sapevo cosa fare, cosa dirle, dove mettere le mani. Poi piano piano mi sono messa a guardarla, ad ascoltarla. Non devi avere fretta, devi essere pronta all’insuccesso. Un passo avanti, due passi indietro. Però sono belle le cose semplici. Correre, fare le bolle di sapone. Siamo diventate molto amiche. Quando rideva mi sentivo così felice. La gioia pura. Abbiamo fatto milioni di bolle di sapone. Ho lasciato Lingue orientali, ho deciso che volevo capire Anna. Stava in un mondo persino più affascinante e solitario del mio. Mi sono messa a studiare per fare l’operatrice sanitaria. Qualsiasi cosa, avrei studiato, per restare con Anna».


Passò altro tempo. Regina era terza linea della nazionale di Rugby, operatrice sanitaria, Anna la sua migliore amica. In autobus, tornando a casa una sera, conobbe Marco. Sei la ragazza più bella che abbia mai visto. Smettila, non dire scemenze. Ti porto a mangiare una pizza. Smettila, non ti conosco.


A gennaio nacque Pietro. A dicembre dello stesso anno Brando. Due figli in un anno solo.

«Un tunnel. Ero disperata. Volevo partire per l'Africa, mi avevano scelta per una missione che avevo desiderato tantissimo. Ci sarei andata anche con un figlio di sei mesi, ma poi non ci potevo credere: il secondo, subito. Un po’ l'ho odiata, quest'altra gravidanza. Non la volevo. Poi però ora che hanno cinque e quattro anni penso ma che donna sarei senza di loro? Davvero, sono la meraviglia del cielo. Si picchiano tutto il giorno, io li guardo e rido. Urlo, certo, anche. Ma soprattutto rido. Quando Brando aveva tre mesi sono tornata in campo, una partita di campionato. Mi sono rotta il crociato. Non te lo posso raccontare cos’è stato stare ingessata con un figlio di tre mesi e uno di un anno. Non ci sono le parole. Mi sono messa un brillantino nel naso, in quelle settimane. Ho cominciato a studiare swahili, perché prima o poi in Africa ci vado. Ora va meglio. Ora sono grandi».


- Regina è la più brava di tutti, al lavoro, mi hanno detto.

- Ma cosa fa, esattamente?

- Sta coi bambini infelici.

- Cosa ci fa tua figlia coi bambini infelici? Ne ha già due suoi, sani. Che bisogno ha?

- E anche tua figlia, non solo mia figlia.

- Vabbè, tanto sapete tutto voi. Cose di donne, roba vostra. Lasciami in pace, che sono stanco.


«Una sera ho sognato mia nonna. Se potessi riportare in vita una persona vorrei indietro lei. Vorrei mangiare la pizza al taglio sul divano del soggiorno con la tv accesa, e parlare di cose così. Qualsiasi. No non è un pensiero triste. E un pensiero bello. Io non sono mai davvero proprio triste. A momenti, ma mi passa. Mi piace la vita, tutta, proprio così com’è».


L’estate scorsa i bambini erano insieme al campo scuola e Regina pensò guarda: due settimane libere. Cosa potrei fare, d’agosto? Marco le disse ti porto a Venezia, cerchiamo una pensione che costa poco e andiamo a vedere la città sull’acqua. No dài ti prego, Venezia no, andiamo in montagna. Sai cosa mi piacerebbe davvero? Imparare ad arrampicare. Andiamo a scalare, insieme? Con le corde, i chiodi. Non sarebbe fantastico?


«Sai cosa mi è successo? Quando ti insegnano ad arrampicare ti dicono subito che ci sono cose pericolosissime, che non devi fare assolutamente. E io per tutto il tempo pensavo: e se le faccio? E se invece decido di fare proprio quelle? Non te lo so spiegare è strano. Mi immaginavo di precipitare, e avevo paura. Ma non paura di cadere: paura di desiderarlo. Paura di perdere il controllo, di decidere di fare una cosa proibita che mi avrebbe fatto cadere. Era affascinante e fortissima, quella possibilità. Pericolosa da morire. C’è stato un momento che proprio ero in trance. Guardavo giù, uno spettacolo. Poi Marco mi ha chiamata. Urlava. Regina Regina Regina. Tre volte. Non lo so. Detto così sembra inspiegabile. Ma dopo la nascita dei figli, insieme a quello, è stato il momento più bello più vero e più forte della vita».


- Dov'è tua figlia, in montagna? A fare cosa?

- Non lo so, parlaci tu. Chiamala.

- E i bambini? Con chi ha lasciato i bambini?

- Sono al centro estivo.

- Che roba è?

- Non lo so, una vacanza di città. Parlaci tu, ti ho detto.

- Io non ci parlo. E tempo perso. Siete matte. Affari vostri. C'è un guasto, nella testa delle donne.