Pantaloni
Nonna Esa mi ha insegnato a tagliare il prato.
Certi pomeriggi di settembre, quando le ultime cicale ancora chiamavano ma si era ormai stufi di battere i pinoli, troppo stanchi per giocare ancora, il rientro a scuola troppo prossimo, certi pomeriggi in cui tutti i bambini stavano insieme ma distanti, ciascuno seduto a guardare un punto diverso, in terra nei formicai o in cielo, allora la nonna usciva dalla casa - la casa coperta dai rampicanti con quelle bacche blu che quando le schiacci diventano viola e lasciano sulla pietra una macchia che è ancora lì l'anno dopo, ma più pallida, e per molti anni a volte per decenni, può capitare che torni da adulta coi tuoi figli bambini e trovi la macchia ancora proprio lì - ecco allora in quei pomeriggi di settembre che era già quasi ora di tornare ciascuno in una casa diversa di città, la nonna usciva dalla porta e diceva forza, tutti con me a tagliare il prato.
La nonna aveva dei pantaloni blu di tela pesante, larghi, li teneva stretti in vita con una cinta da uomo e la parte sopra la cinta si arricciava e ricadeva in giù, così la cinta non la vedevi ma sapevi che c’era, e che era da uomo perché anche i pantaloni, certo, dovevano essere stati di un uomo. Diceva forza tutti con me, e piano piano i bambini si alzavano da terra e dalle piccole sedie di legno e in disordine ma anche un po’ in fila le andavano dietro senza parlarsi tra loro. Giravano dall’orto, passavano dietro la casa del contadino che quasi sempre, quando c'era, li salutava con un gesto del braccio. Loro rispondevano tutti, pure col braccio.
Per tagliare il prato bisognava avere pantaloni lunghi, era meglio, che sennò la sera si avevano graffi di rovi sui polpacci e costellazioni di ponfi di ortica. Però non si poteva sapere, quando era il giorno del prato, e non sempre si avevano i pantaloni giusti. Allora si tenevano i graffi e nessuno ci faceva caso. Per tagliare il prato bisognava fare molta attenzione alle serpi, battere le mani e pestare i piedi mentre si camminava, e piano piano i bambini si dimenticavano del prato e cominciavano a giocare a chi batteva più forte. La nonna diceva chi ha le falci? E nessuno aveva le falci perché le aveva lei, le teneva infilate nella cinta sulla schiena, ne dava una ciascuno ai cugini più grandi - due maschi e una femmina, Isabella - e noi piccoli dietro a guardare, attenti, che se avessimo imparato a non farci male, a fare proprio così, vedete, col braccio, allora dopo avremmo potuto provare anche noi. Ma piano, e solo con lei.
Nonna Esa ha fatto la guerra.
La guerra ha una patina di segreto. Con la guerra si diventava pratici e coraggiosi. Si mangiava qualunque cosa e non ci si raffreddava solo per un po’ di freddo. Anche le donne avevano i fucili. Questo di certo. Poi c’erano certi fratelli e cugini di cui nessuno dice mai i nomi. Esistono solo nelle foto, quelle di cartoncino con la firma del fotografo in corsivo, davanti. In posa per la prima comunione. Fernando, forse, uno. Dalla guerra dipende anche il fatto che nelle foto di matrimonio di nonna Esa suo padre non c’è, e nemmeno suo zio Lucio che aveva solo due anni più di lei ed erano come fratelli. Nella foto di matrimonio di nonna Esa ci sono solo donne, a parte lo sposo, che è talmente giovane e bello che sembra una ragazza anche lui. Nonna Esa, comunque, si è sposata in pantaloni.
Nonna Esa si è sposata a settantadue anni.
La seconda volta. La prima ne aveva diciotto, era quella della foto. Ebbero tre figlie femmine in tre anni, mia mamma era la seconda. Dopo la terza figlia nonna era già sicura che non voleva stare più con quell’uomo perché non si volevano bene, cioè almeno lei di certo no. Non si parlavano, mi ha raccontato una volta. Era per questo. Si vedevano solo in camera la sera, e lui non diceva mai niente. Però nonna non sapeva fare nessun lavoro a parte quelli di casa e tenere le bambine, allora si è separata in casa. E andata a stare in una stanza da sola, pazienza se lui protestava al principio, ma poco, perché non parlava. Quando le figlie sono andate a scuola e aveva la mattina libera è andata a imparare un mestiere, al paese, e si è messa a lavorare. Poi, quando le figlie hanno finito la scuola, è andata via da casa - anche se non si poteva, a quel tempo, ma a volerlo si poteva - e per molti anni non è tornata più. Erano le figlie che andavano da lei, mi ha detto quando ho chiesto. Da vecchia è andata a vivere in montagna con l’amore della sua vita, Vittorio. Una casa lontanissima da tutto, si può arrivare solo con la jeep. Nonna guida la jeep. Da piccole ci veniva a prendere alla stazione a fondo valle con un sorriso bellissimo, rideva sempre, tutto quello che facevamo la divertiva, quando era felice ci stringeva il braccio forte, ma forte che restava il segno delle sue dita per un po’. Io e le mie cugine il fine settimana volevamo sempre andare da lei, ci accompagnava mamma che delle figlie, secondo me, della nonna è sempre stata un po’ la preferita. Ridevano tantissimo insieme e si abbracciavano tanto. Mamma, comunque, si è sposata in minigonna.
Nonna Esa dice che non c’è obbligo.
A noi, che poi siamo tutte donne in famiglia e ormai siamo grandi, nonna Esa dice sempre: ricordatevi che si può dire di no fino all’altare. Non c’è obbligo. Se non siete sicure quando arrivate lì in fondo al corridoio dite no, mi dispiace, ho cambiato idea. Potete. E comunque, dice, non smettete mai di studiare, di lavorare. L’indipendenza prima di tutto. Nella casa di montagna di nonna Esa ci sono certe foto bellissime di lei e Vittorio in vetta, se le sono fatte da soli col cavalletto e l’autoscatto, meravigliose proprio. Io non ho mai visto due persone guardarsi negli occhi come loro. Ancora adesso, ancora oggi. Quando vedo come si guardano sento quasi come un imbarazzo, un pudore e penso che bisogna abbassare gli occhi perché abbaglia, quando ha quella luce, l’amore.