Skype

Della mattina di maggio in cui arrivarono nella casa lontana tre settimane di viaggio dalla sua, Zahra ricorda che faceva freddo. C’era il sole, ma non come quello che bruciava le pietre del suo giardino. Non c’era neppure niente che somigliasse alla sua pietra. La pietra di Zahra era una piccola montagna liscia e grigia, usciva dalla terra come il dorso di un animale in letargo. Sua madre poteva vederla dalla finestra della cucina: ogni pomeriggio al ritorno da scuola la bambina andava a toccarla, sembrava parlarle, in ogni caso parlava da sola, poi si tendeva a pancia in su con i piedi ancora poggiati a terra, la schiena lungo il sasso e la testa all’indietro, gli occhi verso il cielo. Il sole restava nella pietra anche la sera, fino a buio. La bambina tornava sempre, prima di andare a dormire, a toccarla con il palmo della mano. Era tiepida, quando le dava la buonanotte.


- Dove sono le pietre in questa città, mamma?

- Le hanno usate tutte per costruire le case.

- E quando le pietre vanno nelle case diventano fredde?

- Sì, se le togli da terra si raffreddano.

- E perché il sole non brucia sulla pelle?

- Perché c’è vento. Il vento che viene dal mare raffredda il sole.


Nel viaggio lungo tre settimane Zahra aveva perso il suo orso. Aveva pianto a lungo in silenzio, nel bus carico di donne di odori e di pacchi stretti con la corda. Perché piange la bambina, aveva chiesto dopo molte ore suo padre a sua madre. Perché ha perso il suo pupazzo. Ormai è grande, dille di non piangere - aveva risposto il padre.

Passarono molti anni, certamente più di dieci. La bambina aveva compiuto sedici anni, era una ragazza con gli occhi neri truccati di kajal, le ciglia lunghe di rimmel. Jeans scoloriti, scarpe da tennis con la suola verde. Al liceo di Molfetta c'era il suo nome in bacheca, nell’atrio: due anni di seguito prima nella gara di matematica. Per il mio compleanno vorrei Skype, aveva chiesto alla madre. Basta che non sia pericoloso, aveva risposto la donna. No mamma, è una piccola telecamera da montare sul computer. A cosa ti serve una telecamera? Per parlare coi miei amici. Una telecamera per parlare? Sì mamma ce l’hanno tutti, fidati. E quanto costa? Zahra indossava il suo velo, quello con la rosa bianca di raso sull'orecchio sinistro.

- Costa, ma ho messo i soldi da parte. Me ne mancano pochi, magari quelli puoi aggiungerli tu. Andiamo insieme?

La madre pensò a quante banconote aveva nel marsupio di tela sotto l'abito. Abbastanza, le aveva ritirate quel giorno e non le aveva ancora messe via nell’armadio. Per un momento ricordò la grande pietra dietro la cucina della vecchia casa, in Iran. Sua figlia stesa sul sasso, la vedeva dietro il vetro. Ricordò la vecchia cucina, le sue pentole di rame. Davano un altro sapore alla minestra.

- Mamma, allora? Mi ascolti?

- Va bene Zahra, andiamo, ma non mi far parlare al negozio. Lo sai che mi vergogno quando non capisco la lingua.

«Mia madre si vergogna di come parla l’italiano. Si vergogna di quello che gli altri pensano di lei, invece io mi vergogno per gli altri. Per come la guardano. Mi vergogno quando le vecchie che stanno sedute sulle loro sedie di paglia, per strada, fuori dalla porta di casa mi dicono “togliti quel velo ragazzina”. Loro, a me, dicono che sono schiava. Penso alle loro vite e alla mia, lo vedo come vivono. Prigioniere dei mariti e dei figli, delle tre stanze scure che si vedono alle loro spalle. Mi fa anche un po’ sorridere, certe volte, l’ignoranza. Mi fa sentire molto fortunata e mi viene una specie di allegria. Mi fa venire voglia di tornare a studiare perché poi voglio partire, voglio viaggiare, e dopo voglio tornare e allora sì, magari, da grande, quando avrò tutte le parole per farlo - me lo immagino sempre -andrò in piazza, sui gradini della chiesa, e spiegherò bene la storia della libertà, della tradizione, di Maria Vergine e del suo velo, della bellezza. Adesso no, non ancora. Non sono pronta. Fra un po’».


- Non ho fame stasera sono stanco. Vado a dormire. Cosa fa la ragazza tutto il giorno chiusa in camera, con quel computer?

- I compiti.

- Fa i compiti al computer?

- Sì, i ragazzi adesso fanno così.

- E l’ora di smetterla con la scuola. Ne ha fatta abbastanza. Quest’anno è l’ultimo. Deve prendere marito o sarà troppo vecchia. Deve sposarsi e tornare in Iran.

- Dice che non vuole sposarsi.

- Ho detto che sono stanco. Non posso sentire stupidaggini.


«Sono contro il matrimonio. Per le donne è troppo faticoso. Blocca. Poi devono occuparsi del marito, dei figli e non sono più libere. O meglio: sono a favore del matrimonio ma solo quando è il momento giusto, e sicuramente con delle regole diverse. Sono a favore anche del divorzio, comunque. Se due persone non si amano più devono essere libere di lasciarsi.

Voglio fare l’università. Voglio visitare l’Iran, ma poi tornare. La mia prof di matematica dice che dovrei andare in una università del Nord. Io non penso che dipenda dal posto, anche qui al Sud si può studiare. C’è Internet. Parlo con tutto il mondo, sono sempre dappertutto. Ho moltissimi amici, ci scriviamo in tante lingue. Ecco questo bisogna prima di tutto insegnare ai bambini fin da piccoli: le lingue».


A settembre il nome di Zahra non era nell’elenco del concorso di matematica della scuola. E partita, preside. E tornata in Iran. Come in Iran? Si è sposata con un ragazzo, è andata a vivere là. Sposata? Ma con chi? Con un ragazzo iraniano. Ha lasciato un indirizzo? Una mail? Sì, ha lasciato questo. Può cercarla su Skype.


- Avevi detto che non volevi sposarti, Zahra.

- No, avevo detto che mi sarei sposata al momento giusto, prof. E arrivato. Dovevo andare via da casa, mio padre non mi avrebbe permesso di continuare a studiare.

- Ma stai studiando lì?

- Certo, mi sono iscritta all’università. Il primo anno lo faccio qui a Teheran, poi vediamo. Vado un po’ lenta perché, ci può credere, ho qualche problema con la lingua. Ma risolvo con l’inglese.

- Con chi ti sei sposata?

- Con un ragazzo che conoscevo da due anni.

- Iraniano?

- Sì.

- E dove l'hai conosciuto? A Molfetta?

- No, su Skype.

- Ma gli vuoi bene? Lui ti vuole bene? Ti tratta bene?

- Prof ma che domande mi fa? Certo che mi tratta bene. E un ingegnere. Lavora per una ditta che ha una sede anche a Londra. Viaggia spesso in Europa. Mi fa molto ridere. E poi è bellissimo. Gentile. Appena torniamo glielo presento.


«Io voglio fare la politica. Ma quella dei Greci e dei Romani, la politica che si occupa del bene degli altri e che è fatta di responsabilità. Voglio aiutare le persone a combattere l'ignoranza, a vivere in pace. L'ho detto, al mio ragazzo, prima di sposarlo: vengo, resto a studiare lì, poi torniamo in Europa. Lui è d'accordo. Ha un ottimo lavoro, può trovare un posto dappertutto: persino in Italia dove è proprio difficile. Gli ho spiegato: ti sposo, ma poi guarda che anche se avremo dei figli vorrò fare la politica. Lui ha detto va bene. Basta che mi sposi, dopo puoi fare anche la presidente. Sì certo che rideva, però non scherzava. Adesso per i figli è presto, non ci pensiamo. Prima mi devo laureare. Poi torneremo a Molfetta, gliel'ho detto. O in qualche altro paese al Sud, basta che non sia lontano da mia madre. In Italia, certo. E a casa mia che voglio tornare. Io, quello che voglio, è fare il sindaco».