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Il maggiore Markus Fredrick Böhm riappoggiò il ricevitore sulla forcella. Gli avevano telefonato per dirgli che avrebbe trovato il rapporto sulla distruzione e il rastrellamento del quartiere vecchio ad attenderlo nel suo ufficio in Rue Paradis. Evidentemente l’operazione era stata un successo.
Prima del suo arrivo a Marsiglia, pareva che in quel covo di topi le forze d’occupazione perdessero ogni giorno degli uomini. Seguivi una persona sospetta in una di quelle stradine e ne uscivi, sempre che ne uscissi vivo, a mani vuote, e magari coperto di merda tirata da una finestra, fra le risate degli operai che vagabondavano per i vicoli. Böhm aveva letto i rapporti e ascoltato le lamentele di tutti, nonché le giustificazioni delle autorità francesi, e infine aveva impartito i suoi ordini.
Quand’erano comparsi i manifesti con l’avviso di sfratto, circa metà della popolazione del quartiere vecchio aveva dovuto raccogliere gli stracci e andarsene. Quelli che avevano scelto di rimanere erano stati arrestati e caricati sui treni diretti ai campi di internamento francesi. Il gran numero di stranieri e di ebrei francesi scoperti nel quartiere fornirono la prova definitiva, semmai ve ne fosse stato bisogno, dell’approssimazione con cui nei mesi precedenti l’arrivo del maggiore erano state fatte rispettare le nuove leggi. Lui, Böhm, era un Ercole che nel giro di tre giorni aveva ripulito la città da tutta quella feccia.
Si guardò allo specchio appeso sopra il tavolinetto con il telefono e si ravviò i capelli. Vide dietro di sé la porta socchiusa della stanza di sua figlia. Si avvicinò senza far rumore e guardò dentro.
La telefonata non l’aveva svegliata. Rannicchiata sotto le coperte, il coniglio di peluche tra le braccia, Sonia sognava ancora. Il suo viso dolce e candido aveva la stessa espressione concentrata di quando disegnava seduta al tavolo prima di cena, o quando, nella sua larga grafia inclinata, scriveva lettere alle amiche di Berlino. La fragile innocenza di una bimba. Correndo il rischio di svegliarla entrò nella stanza, le scostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e le diede un bacio sulla fronte. Si augurò che fosse al sicuro, che potesse vivere protetta e in pace.
Poi chiuse la porta senza far rumore e tornò in salotto. Al suo arrivo in città con la famiglia gli era stato assegnato quell’alloggio, un bell’appartamento poco distante dal quartier generale della Gestapo in Rue Paradis; un lusso molto apprezzato, dopo i disagi che aveva dovuto sopportare in Polonia. La famiglia occupava cinque stanze ben arredate, un omaggio ai successi conseguiti a Parigi nello smantellamento della rete spionistica, e nell’Est dell’Europa, dove era riuscito a imporre un po’ di disciplina alle Einsatzgruppen. Molto pesavano anche, e non temeva di ammetterlo, gli eccellenti contatti di sua moglie nel partito.
Al bagliore fioco del camino, intenta a un complesso lavoro di ricamo, anche sua moglie sembrava una bambina. Vedendolo arrivare appoggiò il ricamo e andò verso la credenza a versargli da bere. Lui si accomodò sull’altra poltrona davanti al fuoco, ammirando la figura snella di lei e le gambe ben tornite.
«Eva, il capitano Heller mi ha chiesto di presentarti le sue scuse per aver chiamato così tardi. Si augura di non averci disturbati.»
Lei gli porse il bicchiere con il whiskey, e si chinò a baciarlo. «Cortese da parte sua, ma non mi ha disturbata affatto. Lo sai.»
Lui si era innamorato per prima cosa della sua voce: bassa e armoniosa, sicura senza essere insolente. Le afferrò una mano e sfiorò con le labbra le dita affusolate.
«Perché sorridi?» gli chiese lei mentre tornava a sedersi e riprendeva il cestino del ricamo.
«Sono grato alla Provvidenza che mi ha inviato un aiuto così valido.» Bevve un sorso di whiskey. Aveva imparato a berlo in Inghilterra, quando studiava per il dottorato, e quel sapore lo riportava alle stanze del college e alle lunghe conversazioni serali con i colleghi.
«Parli di me o di Heller?» chiese Eva guardandolo di sottecchi. Lui alzò il bicchiere verso di lei. «In questo caso mi riferivo a te.» Lei annuì, compiaciuta per il complimento, poi in tono serio aggiunse: «Comunque Heller è un buon aiutante, secondo me». Böhm rifletté su Heller sorseggiando il whiskey. Il suo aiutante portava un paio di occhialetti dalla montatura rotonda, ma per il resto aveva un’aria sana. Era un ragazzo dalla pelle chiara, muscoloso ma non sovrappeso. Böhm aveva lavorato con lui fin dal suo arrivo a Marsiglia, e lo aveva trovato qualificato e competente. Aveva imparato il francese alla perfezione mentre studiava giurisprudenza a Grenoble, e naturalmente era un fervente sostenitore del credo nazista. I suoi occhialini gli davano l’aria di uno studioso, eppure negli interrogatori sapeva diventare feroce e fantasioso. Böhm ammirava il fatto che un uomo dall’aria così mite avesse dentro di sé una tale carica di violenza. La scoperta che quell’apparente topo di biblioteca potesse infliggere supplizi tanto atroci aveva colto di sorpresa più di un prigioniero, inducendolo a parlare forse più per la sorpresa che per il dolore.
«Sì. Molto capace.»
Eva spezzò un filo e poi diede una leggera scrollatina alla stoffa che stava ricamando. L’immagine era quella di una piccola fattoria: galline nell’aia, verdi montagne sullo sfondo. A lui ricordò il paesaggio intorno a Würzburg. Forse, se dopo la guerra non fosse tornato a Cambridge, avrebbe completato lassù la ricerca, acquistando per moglie e figlia una casetta come quella del ricamo.
«Non credi che dovremmo fare qualcosa?» chiese Eva. «Scriverò a zio Gottfried, facendo il suo nome.» Poi si accorse che il marito stava guardando il ricamo. «È l’ultimo capolavoro di Sonia, sto dando qualche ritocchino qua e là. Vuole incorniciarlo e regalartelo, quindi ricordati di fare la faccia sorpresa.»
«Senz’altro.»
Eva ripose aghi e fili nel cestino, e quando riprese a parlare mostrò un tono esitante. «In effetti oggi è arrivata una lettera di Gottfried. Scrive che non c’è speranza per la 6a Armata, a Stalingrado. Dovresti sentire cosa scrive del loro sacrificio. È commovente.»
Böhm finì il whiskey. Un terribile sacrificio davvero. Appoggiò il bicchiere vuoto sul tavolino lucido. Comunque lui non dubitava mai che alla fine la Germania avrebbe trionfato. Gli inglesi avrebbero capito, prima o poi, che la loro unica speranza di sconfiggere il comunismo consisteva nell’unirsi alla Germania contro la Russia. Eventuali battute d’arresto in quel Paese sconfinato e selvaggio erano solamente temporanee. Gli slavi erano gente irrecuperabile, la cui unica qualità era la capacità di soffrire.
«Non è una grande fortuna» disse Eva sempre con gli occhi bassi, «essere tutti insieme qui in Francia invece che all’Est?»
Lui provò un moto di affetto per la moglie. «Sì, amore mio. Possiamo onorare il loro sacrificio anche senza volerlo condividere.»
«Vuoi un altro whiskey?»
La tentazione era forte. «No, grazie. Devo avere la mente lucida, ho ancora molte questioni da sbrigare.»
Le aveva risposto in tono lieve, ma era la verità. Il repulisti del quartiere vecchio era stato un ottimo inizio, però Böhm sapeva che a Marsiglia la Resistenza affondava le sue radici ovunque e molto in profondità. Forse i francesi non erano irredimibili come gli slavi, tuttavia erano indubbiamente diventati decadenti e corrotti. I tedeschi avevano assorbito la saggezza dell’Estremo Oriente, e la usavano per comprendere appieno il destino, mentre i francesi si erano abbandonati alle sue visioni lascive, che li avevano indeboliti.
«La tua cena dev’essere pronta. Sei riuscito a catturare il topo che cercavi?»
Quel topo leggendario aveva fatto scappare in Spagna un numero incredibile di fuggiaschi e profughi, e aperto moltissimi buchi nella rete che i tedeschi avevano teso intorno al Sud della Francia.
«Forse. Ce lo dirà il tempo.»