57
Ora Nancy sentiva la mancanza delle montagne, tutte quelle strade a tornanti ben protetti che i tedeschi non erano più disposti a pattugliare grazie al lavoro dei suoi uomini. Da Saint-Amand a Châteauroux i tedeschi erano presenti in gran numero e non sembravano per niente agitati. Riuscì a schivare due posti di blocco, perché vedendoli in tempo poté deviare dal percorso senza attirare l’attenzione, però il terzo era stato messo dopo una curva sulla strada secondaria tra Maron e Diors. Andò a sbattere dritta su di loro che naturalmente, essendo lontani dalla strada maestra, erano piuttosto annoiati, e quindi accolsero una donna che traballava in bici dopo dodici ore in sella come una distrazione gradita.
«I suoi documenti, signora! Dov’è diretta?»
Lei fissò il tedesco senza dire nulla, sgranando gli occhi. Probabilmente avrebbe potuto ucciderlo, un colpo alla gola come quello riservato alla guardia del trasmettitore, però ce n’erano altri due, uno dei quali già con la mano sul revolver. Lei non era armata. Con la pistola del primo fai fuori il caporale, speri che il terzo venga preso dal panico lasciandoti il tempo di sparare anche a lui... oppure gli salti addosso? Probabilità di successo... forse il venti per cento.
Perciò scoppiò in lacrime.
«Signore, la prego, signore, deve lasciarmi passare. Non ho i documenti. Mentre lavoro c’è mia madre a badare al mio bambino a Châteauroux e ho saputo che sta male!»
Il soldato scosse la testa. Sembrava maturo, per il suo grado. Maturo abbastanza da avere anche lui dei figli e una moglie che si preoccupava per loro.
«La prego, signore! Ha soltanto cinque anni, si chiama Jacques ed è proprio un bravo bambino, mia madre mi ha mandato a dire che sta malissimo e continua a chiamare la mamma.» Sarà stato forse per lo sfinimento, ma Nancy ebbe una chiara immagine del bambino malato, della nonna spaventata, del minuscolo appartamento pieno di spifferi in cui vivevano. Singhiozzava, e non fingeva. Indicò le misere verdure nella reticella.
«La buona Madame Carrell, che è la moglie del mio padrone, me le ha date per fargli il brodo, e Monsieur ha detto: ’Paulette, cara, devi andare dal piccolo Jacques, per un giorno possiamo fare a meno di te, se proprio devi, non possiamo lasciare morire tuo figlio senza l’amore della sua mamma!’»
Il tono di Nancy era disperato e il caporale girò la testa per guardare gli altri due. Sembravano tutti perplessi. Tra i singhiozzi, Nancy gridò un paio di volte il nome del figlio immaginario, attenta a cogliere l’occasione di colpire il tedesco più vicino sul pomo di Adamo, se non avesse funzionato.
Lui si schiarì la gola e le diede una pacca sulla spalla.
«Coraggio, signora, sono sicuro che il piccolo Jacques starà bene. Vada pure.»
Nancy si riposizionò sui pedali profondendosi in ringraziamenti non meno espansivi della disperazione. Le era venuto persino il singhiozzo.
«Pregherò per lei, signore!» riuscì a dire, e si avviò con pedalate malferme.
La cittadina, tutte case basse sparse su un ampio territorio, aveva un centro storico che era un groviglio di passaggi stretti intorno a una piazza aperta. Dovette fermarsi due volte a chiedere informazioni, ed entrambe le volte lesse sui volti delle persone con cui parlava sospetto e paura. Nessuna delle pattuglie che incontrò la fermò, ma il pomeriggio stava avanzando e di lì a un paio d’ore il numero delle persone in strada si sarebbe ridotto, rendendola più esposta.
A Beaulieu avevano ripetuto più volte che incontrando una pattuglia, francese o tedesca, la cosa migliore da fare era avvicinarsi. Per chiedere un fiammifero, o l’ora. Ti rendeva immediatamente meno sospetto. Ma Nancy non osava avvicinarsi. Da lontano poteva sembrare una francese come tante, ma da vicino avrebbero sentito su di lei l’odore del sangue e del sudore e notato il suo affaticamento. Il sole caldo del pomeriggio gettava lunghe ombre tra le case, perciò si tenne vicina ai muri, cercando di farsi piccola piccola.
Finalmente in uno degli angoli più miseri della cittadina trovò la casa che cercava. Aggirò l’edificio, lasciò la bici in fondo al vicolo e attraversò il cortile come un’amica in visita. Bussò, quindi si scostò leggermente dalla porta per permettere a chi sbirciasse dalle tendine di pizzo o dalle persiane di vederla. Era una casa minuscola: in pratica due stanze, una sopra l’altra.
Avvertì che qualcuno la stava guardando e si augurò che fosse Emmanuel e non un assassino della Gestapo già con la Luger in mano. Passarono alcuni secondi. Forse non c’era nessuno. Qualsiasi bravo agente in una cittadina di quelle dimensioni doveva avere almeno due o tre nascondigli. Forse avrebbe fatto meglio a rannicchiarsi dietro il cumulo di rifiuti e mettersi a dormire, in attesa di vedere chi sarebbe uscito per primo, se un amico o un nemico. La trovò una buona idea.
«Non ci posso credere, cazzo.» Una voce familiare.
Socchiusa la porta, Nancy si trovò davanti la faccia lentigginosa di Marshall, l’uomo dai capelli rossi di Inverness. L’ultima volta che lo aveva visto era legato all’asta della bandiera davanti alla caserma principale, con i pantaloni abbassati intorno alle caviglie e imbavagliato con le bende che lei aveva usato per fasciarsi il petto durante gli allenamenti.
Fu sul punto di voltarsi e andarsene. Marshall non l’avrebbe mai aiutata, dopo che lo aveva umiliato ben due volte. Forse Dio esisteva, in fondo, e questo era il suo ultimo scherzetto, mandarle sul cammino quell’uomo e i loro trascorsi proprio quando le speranze erano al minimo.
Ma non aveva nemmeno la forza di muoversi.
Uno. Due. Tre. Non aveva niente da dire, nessun posto dove andare.
Dopo un’eternità lui aprì la porta e indietreggiò. Lei lo seguì come un automa nella cucina bassa e sudicia e si chiuse la porta alle spalle.
«Marshall» disse con un filo di voce. «Mi serve la radio per i maquisard del Cantal. Abbiamo subito una pesante sconfitta e abbiamo disperatamente bisogno di rifornimenti. Mi hanno detto che ne hai una di scorta.»
Lui si lasciò cadere su una sedia di legno e la fissò. Lei percepiva la rabbia, l’odio, come l’elettricità statica prima del temporale.
«Sei proprio una grande stronza. Pensi di poterti presentare qui, dopo quello che hai fatto, e avere delle pretese? Ti denuncio io alla Gestapo!»
Nancy sedette di fronte a lui. Le gambe non l’avrebbero comunque sostenuta ancora per molto. «Fa’ quel che vuoi. Però manda un messaggio a Londra per i miei uomini. Il nome in codice del punto di lancio, Magenta, dovrebbe essere ancora valido. Se possono lanciare lì, forse i miei riusciranno a recuperare tutto prima dei tedeschi.»
Nancy appoggiò i gomiti sul tavolo e si prese la testa tra le mani, in attesa di una reazione. Marshall non si mosse, non se ne andò, non parlò. Lei pensava a Tardivat, a Fournier, a Jean-Clair, e a Franc. Valeva la pena fare quest’ultimo tentativo per loro. Ne valeva assolutamente la pena.
Forza, Nancy.
«Non c’entra quello che c’è stato fra noi due, Marshall, c’entra la guerra. Il tuo problema con me può aspettare la sconfitta definitiva dei nazisti.»
Se avesse mai voluto una prova che Dio non esisteva, eccola. Dopo quello che aveva fatto, dopo quello che era costato ai suoi uomini seguirla nella sanguinosa vendetta personale contro Böhm, qualunque essere divino l’avrebbe fulminata all’istante per l’ipocrisia di quel discorso. Aspettò... E, no. Nessun fulmine. Nessuna saetta fatale o niente demoni che la trascinavano all’inferno. Solo Marshall che la fissava.
«Mi hai fatto perdere un mese, con quella bravata. Sono riuscito a tornare in Francia soltanto una settimana prima del D-Day.»
Com’era possibile che un essere umano stanco com’era lei adesso fosse ancora in grado di parlare e di muoversi?
«Oh, mi piange il cuore! Dopo tutte le stronzate che mi hai fatto passare, ti è andata ancora bene. Avrei dovuto infilarti quella rosa nel culo, invece di mettertela dietro l’orecchio.» Alla faccia della diplomazia. Conta i respiri, Nancy. «Vuoi che ti chieda scusa, Marshall? D’accordo. Mi dispiace, anche se sappiamo tutti e due che te lo meritavi. Adesso, però, aiutami.»
Spostò il peso del corpo sulla sedia, cercando di trovare una posizione più comoda, ma era inutile. Una fitta di dolore le attraversò le gambe. Aveva l’interno delle cosce scorticato, e crampi in tutta la schiena. Chiuse gli occhi aspettando che passasse, e quando li riaprì incontrò lo sguardo di Marshall.
«Da dove arrivi?»
«Ci siamo riorganizzati vicino a Aurillac, ho preso la strada di montagna per Saint-Amand. Lì il mio contatto non poteva aiutarmi e mi ha mandato da te.»
«Hai fatto quelle strade in camion senza che i tedeschi ti sparassero addosso?» Marshall la guardava perplesso.
«Nell’attacco abbiamo perso tutti i mezzi di trasporto. Sono venuta in bicicletta.»
Lui si alzò di scatto e Nancy pensò che fosse sul punto di picchiarla, invece aprì l’anta di una credenza sgangherata e tirò fuori una bottiglia e un paio di bicchieri impolverati. Vino rosso. La panacea di ogni male. Riempì i biccheri e entrambi li svuotarono. L’alcol le scese dritto nello stomaco e una dolce esplosione di calore le si diffuse nel ventre.
«La radio è qui e puoi prenderla» disse lui. «E stasera mi collego, perciò posso far arrivare il tuo messaggio in Baker Street. Che frase vuoi che usino?»
Lei pensò che Denden avrebbe trovato una radio normale da qualche parte per ascoltare Ici Londres, ma la mancanza di una ricetrasmittente non gli avrebbe permesso di replicare.
«La frase è ’Hélène ha preso il tè con le amiche’.» Denden avrebbe riconosciuto il suo nome in codice, e almeno sarebbero stati all’erta per un eventuale lancio.
Marshall emise una specie di grugnito e riempì di nuovo i bicchieri, poi guardò l’ora. «Da queste parti è più sicuro viaggiare di notte, anche con il coprifuoco. Di sopra c’è un letto. Puoi riposarti per un paio d’ore.»
Lui aveva deciso per una tregua, dunque. Bene.
«Grazie» gli disse.
Con un cenno le indicò di salire di sopra. Lei finì di bere e cominciò la lenta e dolorosa scalata della breve rampa che portava al primo piano. Non si era mai sentita così stremata dal primo giorno di addestramento di lancio con il paracadute. Quando Marshall l’aveva spinta dalla piattaforma giù nel lago, lei aveva fatto la figura di una vera idiota.
Aprì la porta in cima alle scale e si sedette sul bordo del letto, sentendosi travolgere dal sollievo e dalla spossatezza come onde su una spiaggia del Mediterraneo. Si guardò i piedi. Levati le scarpe, Nancy, le disse una voce risoluta nella sua testa. Rifletté. No, non levartele. Muovendo le dita si accorse che erano appiccicate fra loro dal sangue e capì di avere i talloni a pezzi, ma non voleva passare il poco tempo prezioso che le restava a fasciarli. Le scarpe rimasero al loro posto. Comunque aveva ancora in tasca un grande fazzoletto di seta, un residuo del paracadute. Lo tirò fuori, lo strappò in due pezzi e si alzò la gonna fino alla vita. La parte superiore delle cosce era davvero messa male. Legò un pezzo del fazzoletto intorno a ogni gamba, spostandosi sul letto. La stoffa era fresca e, benché poco adatta per una fasciatura, avrebbe almeno impedito lo sfregamento delle piaghe mentre dormiva.
Stava per appoggiarsi lentamente all’indietro, gli occhi già chiusi, quando sentì aprirsi la porta sul retro e delle voci, basse e pressanti, seguite da passi che salivano le scale di corsa. No, no. Andate via.
Marshall fece irruzione nella stanza. «Cambio di programma, Wake.»
«Uccidimi e facciamola finita.»
«La tentazione c’è, non credere» ribatté lui. Stava tirando un vecchio armadio fuori dall’alcova all’altro lato della stanza. «Muovi il culo e aiutami, se vuoi la radio.»
Carino. Lei si alzò e avanzò barcollando, afferrò l’altra estremità dell’armadio e spinse.
«Cos’è successo?»
«È appena passato uno dei gendarmi che non ci sono ostili. Pare che un pazzo abbia distrutto il quartier generale della Gestapo a Montluçon. Quelli del posto si sono presi paura e stanno torchiando tutti per farli cantare. Qualcuno finirà col dare il nostro indirizzo.»
Marshall si infilò nello spazio dietro l’armadio tastando lungo il muro, quindi usò il pugnale che portava alla cintola per tagliare una sezione della carta da parati. Nancy la vide cadere, e poi lui allungò la mano nel buco tra le travi e prese la radio. O almeno lei sperò che fosse la radio... una grossa custodia di pelle marrone, simile a una cartella fuori misura. «Devi andartene subito.»
«Le cinghie?» gli chiese Nancy.
Lui aprì il fondo dell’armadio e gettò sul letto un paio di cinghie di tela arrotolate e provviste di fibbie. Nancy le legò ai passanti della custodia, mentre lui rimetteva a posto l’armadio. Fuori un clacson suonò due volte.
«Arrivano» disse Marshall. «Sei armata?»
«No.»
Fuori ci fu un improvviso scambio di colpi, poi delle grida in tedesco.
Nancy si avvicinò alla finestra. «Quattro della Gestapo, e con loro tre miliziani. Altri due stanno inseguendo la tua vedetta.»
«Sparisci, Wake.» Aveva squarciato il materasso, e come un mago estrae i fazzoletti dal cilindro, stava estraendo una cintura di granate.
«No, dammi una pistola. Sai che so sparare. Possiamo farli fuori tutti e scappare.» Tese la mano.
Lui si fissò la cintura intorno alla vita.
«Avremmo ben poche speranze. Adesso vai, prima che la casa venga circondata.»
La vide esitare e si chinò in avanti, appoggiando la fronte sul bordo del materasso. «Nancy, ho avuto paura a Inverness. Quando ti ho vista ho temuto che avresti detto a tutti come mi ero comportato da vigliacco sui Pirenei. Ma adesso non ho paura.» Si rialzò. «Ecco. Fuori dalle palle!»
Qualcuno batteva i pugni sulla porta d’ingresso.
Nancy raccolse l’apparecchio e se lo caricò sulle spalle come uno zaino. Per poco non cadde sotto il suo peso. Marshall alzò il vetro della finestra, tirò la linguetta della granata e la lanciò.
«Attenta!»
Arrivò il fragore dell’esplosione. La casa tremò e in strada qualcuno gridò. I proiettili colpirono il telaio della finestra, spaccando gli infissi di legno.
Marshall barcollò all’indietro, ma non cadde.
«Marshall?»
«Non è niente» disse. «Muoviti.»
Stivali al pianterreno. Altre grida. Marshall che tirava un’altra granata.
Lei si accorse di avere le mani sul telaio della finestra sul retro. Lo alzò, scavalcò, si girò e per un attimo rimase appesa, poi si lasciò cadere nel cortile. La porta sul retro si aprì nel momento stesso in cui lei scattava verso il cancello posteriore.
«Ferma! Ferma o sparo!»
Non si fermò. Sentì il sibilo del proiettile vicino all’orecchio, e si lanciò nel vicolo. Lì non c’era ancora nessuno. Alle sue spalle sentì esplodere una terza granata, e altri colpi di arma da fuoco. Inutile tornare indietro. Inutile aspettare. Marshall era un topo in trappola e lei doveva allontanarsi prima che la Gestapo o la milizia chiamassero i rinforzi. La bicicletta era ancora dove l’aveva lasciata. Montò in sella e restò senza fiato per il dolore. Poi cominciò a pedalare.