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Lo pretendo

LA sera stessa, cerco di fare una videochiamata a Steffi su FaceTime, perché voglio mostrarle la mia faccia da ebete, arrossata e radiosa. Lei non risponde, però mi richiama subito dopo. «Scusa, ho un aspetto orribile e non voglio costringerti a vedermi con i capelli unti e le borse sotto gli occhi. È come se avessi volato da una parte all’altra del Paese e ritorno nel giro di un paio di giorni. Oh, aspetta, è proprio quello che ho fatto!»

«In questo caso, ti sono grata per la discrezione.» Metto il vivavoce e, mentre parliamo, mi guardo allo specchio. Di solito non passo tanto tempo a scrutarmi, ma oggi è diverso. Oggi voglio vedermi felice. «Borse e capelli a parte, come stai? Cos’hai in programma questa settimana? Alla fine non mi hai raccontato niente di quello stage…»

«Uh, che noia. Chissenefrega. Voglio sapere come va a te. Sei tu quella che si diverte alla grande.» Dal tono sembra davvero esausta, eppure si sta sforzando di mostrarsi allegra per me.

«Be’… mi spiegheresti come farmi i ricci dell’altra sera? Quando sono andata nella stanza di Esben?»

Segue un attimo di silenzio e, non appena capisce quello che sto tentando di dirle in realtà, sento la soddisfazione nella sua voce. «Sei stata coraggiosa, vero? A Esben sono piaciuti i tuoi capelli e tu sei stata coraggiosa! Hai corso un rischio e sei stata ricompensata.»

Parte subito con una raffica di domande e, dato che insiste un sacco, le faccio il resoconto della giornata, senza tralasciare nulla. Quando riattacchiamo, ormai conosce così tanti dettagli che non sa più nemmeno lei cosa chiedermi.

Martedì sera, sono in modalità studio quando bussano alla mia porta. «Ehi, ciao. Posso entrare?»

Esben indossa una camicia verde scuro sotto una giacca di pelle. Con questi colori, mi ricorda una foresta magica in cui vorrei perdermi. «Ciao.» Indietreggio di un passo, tentando di nascondere quanto sono ipnotizzata da lui.

«Sto andando a trovare Kerry e sono già in ritardo, quindi ho tipo due minuti. Vuole mostrarmi il progetto a cui sta lavorando per il corso di pittura, però prima dovevo passare da te.»

«Ah.» Anche se sono soltanto due lettere, nel pronunciarle mi trema la voce.

«Mi sei mancata oggi. È strano, eh? Forse sì, eppure è vero. Ieri sono stato davvero bene e oggi è stato un mortorio in confronto, perciò volevo vederti.» Si dondola sulle punte dei piedi. «Ti sta bene?»

«Certo.» Mi sta molto più che bene, infatti vorrei mettermi a saltellare come una pazza. Opto invece per un’altra cosa che desidero da morire fare. Molto meno impacciata di quanto pensassi, gli infilo le braccia sotto la giacca e gli cingo la vita. Non riesco a credere a ciò che sto facendo e, anche se tremo come una foglia per il nervoso e l’insicurezza, ho una voglia immensa di questa intimità.

Esben mi tira a sé. «È proprio per questo che sono passato. Ne avevo bisogno.»

Stretta a lui, mi rilasso e, nell’istante in cui mi dà un bacio delicato sui capelli, giro il viso e appoggio una guancia contro il suo petto. Restiamo così uno o due minuti, poi lui dice: «Cavolo, devo andare. Anche se non vorrei».

Gli accarezzo per un attimo la schiena. «Ci vediamo domani a lezione?»

«Assolutamente.»

Una volta sola, gonfio l’unicorno che mi ha spedito Simon. Forse è perché ieri Esben ha parlato di unicorni, non lo so, però sistemo il mostro rosa sulla scrivania nella stanza vuota.

Mercoledì, al corso di Psicologia, Esben si siede accanto a me. Mi sfiora con il braccio per tutto il tempo e capisco forse il dieci per cento della spiegazione del professore. Poi mi accompagna alla lezione successiva, come se vivessimo nel passato e mi stesse corteggiando. Potrei morire per quanto è dolce e rispettoso. In piedi fuori dall’aula, a pochi centimetri di distanza, mi gira troppo la testa per guardarlo, perciò mi metto a giocherellare con la cerniera della sua giacca.

«Allora, posso avere il tuo numero di cellulare?» mi sussurra all’orecchio.

«Sì», rispondo, senza fiato.

Giovedì sera, mi tempesta di messaggi.

Mi manda un selfie in cui, con una smorfia esagerata, indossa uno sgargiante maglione arancio a maglia grossa che gli ha appena spedito la madre. Mi scrive:

Mia madre è impazzita.

Dopodiché mi invia una foto di Chewbecca con la didascalia:

Perché… Chewbecca.

Poi è il turno di una barzelletta su una mucca e un pretzel che non capisco e, prima di avere il tempo di rispondergli, mi scrive:

Sì, non la capisco nemmeno io. Un tipo continua a postarla sulla mia pagina FB con un milione di lol. Aiuto! Aiuto!

Poi ricevo una lista con tre cose importanti che dovrei sapere su di lui:

1. Porto spesso calzini spaiati. 2. Odio le pannocchie di granoturco. So che probabilmente sono l’unico al mondo. Comunque, abbasso le foglie e stacco i chicchi e combino ogni volta un disastro perché volano dappertutto e pochissimi mi finiscono nel piatto. 3. Penso che tu sia incredibile e avrei una gran voglia di correre da te in questo momento per dirtelo di persona e abbracciarti e ascoltarti respirare, ma non vorrei spaventarti.

Fisso il terzo punto e sorrido, poi faccio uno screenshot perché voglio conservare per sempre questo messaggio.

Rispondo:

1. Interessante scelta in fatto di moda. Magari posso insegnarti a fare il bucato. 2. Le pannocchie sono una seccatura e sono con te al 100 per cento. Possiamo vedere se troviamo una specie di cupola per le pannocchie in modo che i chicchi non saltino via. 3. Non ho paura.

Ci ripenso e gli mando un altro messaggio.

Okay, mi sto sforzando di non avere paura.

Dopo pochi minuti, aggiungo:

Va bene, forse ho un po’ paura, però sono anche molto contenta.

Mi risponde:

Lo prendo come un complimento. Sono indietrissimo con un saggio che devo consegnare lunedì, quindi domani sera mi toccherà studiare (beato me!), ma ti va di uscire sabato? Di’ di sì, ti prego, perché è l’unica cosa che possa motivarmi a scrivere sui Fratelli Karamazov. Odio quei fratelli.

Se servirà a farti sopravvivere a Dostoevskij, sono felice di accettare.

Ci vediamo domani a lezione. Dormi bene, bellezza.

Faccio un altro screenshot. Sto per inviare entrambe le immagini a Steffi, ma cambio idea. Voglio tenerle soltanto per me.

E dormo davvero bene, meglio che mai.

Venerdì, Esben si siede in quello che ormai è il suo solito posto, accanto a me, e intreccia le dita alle mie. «Me lo permetti?» mi chiede sottovoce. Adoro quando sorride soltanto con gli occhi.

«Non solo te lo permetto», dico. «Lo pretendo.»

Si porta la mia mano alla bocca e, incantata, osservo le sue labbra sfiorarmi la pelle, le sue palpebre abbassarsi per un istante, la forma della sua bocca, la sua dolcezza… Per poco non svengo. Per tutta la lezione, la mia mano resta nella sua.

Più tardi, telefono a Simon.

«Ciao, splendore. Come stai?»

«Simon? Ti ho chiamato per dirti una cosa.»

«Oh, sul serio? Bene», commenta con una certa esitazione, forse perché non è mia abitudine chiamarlo all’improvviso per scambiare due chiacchiere. Oggi però è diverso. «La tua compagna di stanza ha lasciato perdere le foche leopardo ed è tornata?»

«Meglio.»

«L’unicorno gonfiabile che ti ho spedito è ufficialmente diventato il tuo nuovo compagno di stanza?»

Lancio un’occhiata nella camera vuota e alla ridicola oscenità rosa che se ne sta sulla scrivania già da qualche giorno. «Credo di sì, ma non è questo.»

«Okay, allora qual è questa novità?»

Mi preparo a dirlo a voce alta. «C’è una persona che mi piace.»

«Liam Neeson?»

«No!»

«Ronald McDonald?»

«Simon!»

«Miley Cyrus? Ha di nuovo indossato qualcosa di eccentrico?»

«È il ragazzo a cui ti ho già accennato. Qui al campus.»

«Ti interessa?» Si capisce che sta disperatamente tentando di camuffare la sorpresa. «Be’, wow. Com’è?»

«Mi ha tenuto per mano e ha raccolto dei cubetti di ghiaccio che avevo fatto cadere e ha una macchina piena di spille con su scritte frasi motivazionali.»

«Super, ma ha un unicorno gonfiabile?»

«In effetti, potrebbe.»

«Allora mi piace.»

Mi sdraio sul letto e fisso il soffitto. «Piace molto anche a me, Simon. Si chiama Esben Baylor, cercalo su Google.»

«Lo farò. È mio dovere indagare sugli spasimanti della mia piccola.»

«Era un po’ che aspettavi questo momento, vero?»

«Aspettavo che tu fossi pronta. Tutto qui.» In sottofondo, però, lo sento digitare sulla tastiera.

«Okay. Devo andare a mangiare, ma volevo dirtelo. Ti richiamo presto.»

Sto per uscire, quando ci ripenso e cerco online il numero della stanza di Carmen nell’elenco degli studenti. Due piani più su, mi ritrovo davanti alla sua porta a decidere sul da farsi e, alla fine, busso.

«Allison», mi accoglie con un rapido sorriso. Si è tinta i capelli di rosa confetto. «Come va?»

«Stavo andando in caffetteria. Ti va di venire con me?»

Prende dalla tasca posteriore dei jeans la sua carta studente. «Ci stavo giusto facendo un salto anch’io. Oggi si può ordinare il menu della colazione per cena e voglio strafogarmi di omelette.»

«Allora mi strafogherò di omelette anch’io.»

Battiamo i pugni e lei mi sorride.

Durante la cena a base di omelette, non succede nulla di catastrofico. Carmen è del Wisconsin, ha cinque fratelli, si sta specializzando in biologia e vorrebbe diventare una biologa della conservazione. A casa ha due cincillà, a nove anni ha vinto una gara di corsa con le uova e le piace leggere biografie di piccole celebrità ormai cresciute e non più famose.

Per dolce optiamo per dei waffle con il gelato e, mentre sono alle prese con la panna montata e il cioccolato fuso, mi rendo conto di quanto mi piaccia mangiare in compagnia. Sembro quasi una studentessa integrata, ed è una sensazione strana e meravigliosa.

E Carmen mi è simpatica.

Poi, finalmente, arriva sabato.

Pensavo che Esben avesse in mente un appuntamento per questa sera, invece passerà a prendermi a mezzogiorno. Data la mia scarsa esperienza, non so se un appuntamento per pranzo sottintenda minori intenzioni romantiche rispetto a uno per cena, ma è possibile. È quasi incredibile che stia usando parole come «appuntamento» e «romantico» riferite a me stessa, ma non ho mai provato in vita mia una felicità come quella che mi ha accompagnato nell’ultima settimana e nemmeno io sono tanto stupida da cercare di scacciarla.

Tuttavia, ciò non significa che, in piedi sulle scale del dormitorio a scrutare il viale alberato, non senta le gambe molli e non sia in preda al nervosismo. Aspetto un po’ e controllo l’ora.

È in ritardo di dieci minuti.

Mi siedo. Sotto il cielo di ottobre, le foglie stanno diventando rosse e arancioni e svolazzano in un bel vortice colorato per via del venticello che soffia. Riavvolgo la leggera sciarpa azzurro chiaro intorno al collo e mi sistemo la frangetta. Non sapendo dove andremo, è stata una vera impresa decidere come vestirmi, poi alla fine ho scelto un paio di jeans, stivaletti e una camicia abbinata alla sciarpa. Stringo il pullover che ho in mano e guardo la strada in cerca dell’auto di Esben.

Osservo le scale grigie in pietra e seguo con gli occhi le crepe, poi passo all’aiuola e mi metto a contare gli steli d’erba. Arrivata a novantotto, mi riscuoto.

Adesso è in ritardo di venti minuti.

D’un tratto, il pensiero che mi stia dando buca e che sia stato uno scherzo crudele mi attraversa la mente. Oddio. Mi alzo e mi giro per risalire le scale, quando sento uno stridore di freni e una portiera che sbatte.

«Ehi! Ehi! Allison! Aspetta! Aspetta!»

Ancora di spalle, mi concedo un sospiro di sollievo. Lo scalpiccio dei suoi passi sulle scale è musica per le mie orecchie, eppure non ce la faccio a voltarmi. La sua mano si appoggia sulla mia schiena e me lo ritrovo accanto. «Dove stai andando? Stavi già rinunciando a me?»

«Credevo che forse… non so…» Gli rivolgo un sorriso di scuse.

«Pensavi che ti stessi tirando un bidone?» mi chiede sinceramente sorpreso. «Allison…»

«Potevi benissimo aver cambiato idea», rispondo.

«Impossibile. Scusami per il ritardo, ma la batteria della macchina si era scaricata e ho dovuto ricaricarla.»

«Okay.»

«Vieni.» Mi afferra la mano e mi trascina fino alla sua auto. Subito prima di aprirmi la portiera si blocca. «Non ti darei mai buca. Uno di questi giorni, imparerai a fidarti di me.»

«Non è che non mi fido di te, ma di me e… del mondo. Di tutto. Non di te.»

«Allora, uno di questi giorni, imparerai a fidarti del mondo e di tutto.» Non appena mi siedo, si china verso di me e mi dà un bacio sulla guancia. «Prima, però, mangiamo. Sei pronta per una gita in macchina?»

«Certo. Dove andiamo?»

Accende il motore. «Siamo nel Maine, giusto? Quindi, cosa dobbiamo mangiare?»

«Cibo messicano.»

Scoppia a ridere. «Nooo.»

«Sushi? Pastinache? Pizza surgelata?»

«Tu sei fuori come un melone.»

«Un melone? Okay, dunque mangeremo vegetariano…»

È difficile staccare gli occhi dal suo profilo mentre ride, e infatti non ci riesco.

«Non sei tanto brava a indovinare», scherza. «Siamo nel Maine! Dobbiamo mangiare le vongole fritte. Be’, a meno che tu non detesti i frutti di mare, e in quel caso dovremo fare un discorsetto molto serio.»

«In realtà, adoro le vongole fritte. E tutti i frutti di mare. Io e Simon andiamo spesso in un posto buonissimo a Boston. È a Faneuil Hall, l’Union…»

«Oyster House!» conclude lui. «Ti piace anche il pesce crudo?»

«Assolutamente.»

«Dio, sapevo che mi saresti piaciuta.» Si concede un sospiro di soddisfazione e, quando imbocca la strada principale, mi stringe la mano. «Preparati, perché questo posto ti farà impazzire. Ci vuole quasi un’ora per arrivarci, però ti giuro che ne vale la pena. E poi pensavo di andare in un bellissimo frutteto a raccogliere mele e zucche. Sai, una gita a tema New England. Ti va?»

Esben non vuole portarmi fuori per un pranzo veloce: vuole trascorrere l’intera giornata insieme a me. «Sì.»