16
Risentimento
QUALCHE tempo dopo, sono con Esben e sua sorella Kerry davanti all’affollata caffetteria del campus. È la settimana prima di Halloween e, sotto un tetro cielo grigio, rabbrividiamo per il vento freddo. Anche se indossiamo felpe pesanti o giacche, probabilmente questa è l’ultima giornata con un tempo tollerabile prima che la temperatura diventi troppo rigida. La parte settentrionale del Maine non è certo famosa per gli inverni gradevoli. Da giorni Steffi mi manda foto al sole e la cosa potrebbe anche infastidirmi, se non fosse che la marea di emoji di occhiali da sole e cocktail che aggiunge sono troppo divertenti.
Esben è tutto preso dal suo cellulare e io reggo la macchina fotografica a Kerry, mentre lei tira fuori dalla borsa una lavagnetta bianca e un sacchetto di pennarelli cancellabili. «Questo è il primo esperimento che fai con lui?» mi chiede.
«Sì.» Mi sto sforzando di non mostrarmi nervosa e insicura, ma probabilmente non ci riesco troppo bene.
Esben e Kerry sono qui per domandare agli studenti di parlare dei loro migliori amici e, seppur con una certa riluttanza, ho accettato di accompagnarli. Una parte di me è curiosa di rivederlo in azione, mentre l’altra desidera solo isolarsi da tutto.
Vorrei scappare. Vorrei restare. Vorrei fare entrambe le cose.
Però resto.
Kerry mi rivolge un sorriso caloroso, come quello del fratello. «Sembri nervosa. Non devi.» Si alza, mi prende la macchina fotografica di mano e mi consegna la lavagnetta. «Sono contenta che tu sia qui. Non ti ho più visto da quel giorno.» Non c’è bisogno che aggiunga nulla. Sappiamo benissimo a quale giorno si riferisce. «Diciamo che te ne sei andata via in fretta.»
«Giusto un tantino», concordo. «Non ero… pronta. Penserai che sono fuori di testa.»
«No, niente affatto. È facile sentirsi scossi da una cosa del genere. Tu più della maggior parte della gente, ma è stato… non so. Non mi era mai capitato. Cioè, non l’avevo mai visto accadere a lui, okay? Di solito non resta tanto colpito.»
«Dici… be’, mi chiedevo…» Sono decisamente al di fuori della mia zona di comfort ma, anche se Esben ne ha già abbattute molte, mi rimane ancora qualche difesa. «Non sapevo se è sempre così… reattivo.»
Kerry scuote la testa. «Quel giorno… è stata la prima volta. Filmo e fotografo tutti i progetti di mio fratello, e mi piace un sacco farlo, ogni singolo minuto. Esben mi ha parlato talmente tanto di te che mi pare di conoscerti, ma non è così. Non ancora.» Kerry è diretta proprio come lui. «Però mi piacerebbe, perché è stato bellissimo e hai fatto qualcosa a mio fratello. Gli sei entrata dentro. In modo pazzesco.»
«Quel giorno è stato un po’ pazzesco.»
«Pazzesco in senso buono», specifica lei. «Comunque ti devo delle scuse. Ti ho coinvolta senza darti la possibilità di tirarti indietro. Qualche volta mi entusiasmo troppo per i progetti di Esben e avrei dovuto stare più attenta al fatto che tu non eri convinta. Ci serviva una persona, tu eri lì e…»
La interrompo. «Sono contenta che tu mi abbia fatto sedere su quella sedia.» Lancio a Esben un’occhiata piena di affetto. «Probabilmente è la cosa migliore che mi sia mai capitata, quindi grazie.»
Una folata di vento le sposta sul viso i capelli color miele e, con un sorriso, lei li scosta e si tiene una mano sulla testa. «Mio fratello è elettrizzato da te, sai? Però vuole tenerti nascosta, perciò sono felice di poter stare insieme a te oggi.»
Mi sento in obbligo di spiegarle, di chiarire che la colpa di questa situazione è mia. «Esben non mi tiene nascosta. È che sono un po’ timida e…» Per quanto sia imbarazzante, le racconto la verità. «Se non fosse per lui, probabilmente sarei ancora chiusa nella mia stanza al dormitorio. Mi sta insegnando a sciogliermi un po’ e a essere socievole, credo.» Mi stringo nelle spalle. «Con molta pazienza», aggiungo, ridendo.
«Esben è proprio paziente, questo è sicuro.» Poi si volta verso di lui e strilla: «Ed è anche completamente disorganizzato e lento! Staccati dal telefono, Bambino Blu! È ora di darsi una mossa! Non ci sono mica venticinque gradi qua fuori.»
Esben alza lo sguardo. «Scusa, scusa. Sono pronto.»
«Se non fosse per me, non si farebbe mai niente.» Kerry mi dà una pacca sul braccio. «Ehi, il mese prossimo partecipo a una mostra d’arte. Ti va di venire?» mi chiede. «Non è nulla di entusiasmante, soltanto una serata tranquilla nel dipartimento di arte. Ci saranno terribili stuzzichini, ma la galleria è bella. Magari puoi venire con Esben, no?»
«Mi piacerebbe un sacco», accetto. E lo penso davvero.
«Il trucco», ci spiega Esben venendoci incontro, «è scegliere gente che non muoia dalla voglia di parlare con me. Lo vedete quel gruppetto laggiù che ci sta guardando? Sono ragazze che non vedono l’ora di raccontare con la loro voce stridula dell’amica che hanno conosciuto due settimane fa. Lo so che detto così è brutto, però è la verità. Quindi mettiamoci al lavoro.»
Con la lavagnetta in mano, Esben punta uno studente che sta camminando da solo. Io distolgo subito lo sguardo, perché l’idea di avvicinare un estraneo per me è inconcepibile. Inoltre, il ragazzo ha un cappellino calcato fin quasi sugli occhi, che di certo non incoraggia a importunarlo.
«Ehi, amico. Puoi aiutarci con una cosa?» sento la voce di Esben.
Tento di isolarmi dalla conversazione ma, quando alla fine sbircio, vedo lo studente davanti alla videocamera di Kerry. «Mi chiamo Chea e il mio migliore amico è Andy.»
«Come l’hai conosciuto? Che cosa lo rende tanto speciale?» lo incalza Esben.
«Be’…» Chea lancia un’occhiata di lato. «Sono nato in Cambogia e mi sono trasferito negli Stati Uniti a undici anni. Non parlavo inglese e a scuola era durissima. Oltre alle lezioni normali, frequentavo anche un mucchio di corsi di inglese. Nessuno voleva stare con me e non c’erano molti altri studenti cambogiani.» Si concede una risata, ma carica di dolore. «Mi prendevano in giro con cattiveria. Gli adolescenti sanno essere meschini. All’epoca me ne stavo sempre solo. Impiegavo un po’ a capire le frasi e, quando commettevo qualche errore, mi passava la voglia di provarci. Mi mancavano casa mia, i miei amici. Odiavo il cibo. Odiavo tutto.» Si interrompe e fissa per terra. Quando rialza lo sguardo, si passa una manica sul naso. «Che cavolo, mi sto commuovendo. Erano anni che non ripensavo a quel periodo.»
«È tutto a posto.» Esben gli dà una pacca sul braccio.
Chea tira su con il naso e scuote la testa. «Poi però un ragazzino della mia classe a pranzo ha cominciato a sedersi accanto a me. Era Andy. È stato lui a farmi provare le patatine ed è stato il primo cibo americano che mi sia piaciuto. Lui mi indicava le cose e diceva il loro nome in inglese, e io lo ripetevo. E, a un certo punto, ho capito che voleva sapere il loro nome in cambogiano. Era negato, ve lo garantisco. Aveva un accento terribile. Andy mi ha insegnato a leggere molto meglio di quanto abbiano fatto le insegnanti. Quell’anno è stato il mio unico amico. Gli altri ragazzini non capivano perché stesse con uno sfigato come me e lo tormentavano.» Guarda dritto verso l’obiettivo. «Ma a lui non importava. Era mio amico, ecco tutto. Eravamo noi due contro il resto del mondo.»
«Siete ancora amici?» s’informa Esben. L’ha ascoltato con attenzione, non soltanto per intervistarlo e rivolgergli delle domande. È partecipe, ha stabilito un legame con lui ed è sinceramente interessato. È una cosa bellissima.
«Sì, sì, certo!» annuisce Chea risoluto. «Va ad Harvard. Ci credete? Sono così fiero di lui.» Si batte una mano sul petto e sorride. «Harvard! Caspita, quanto mi manca.»
Esben scrive sulla lavagnetta #miglioreamico #andy e la passa a Chea, che la solleva mentre Kerry scatta qualche foto.
«Grazie», aggiunge il ragazzo. «Dovrei dirgli più spesso quanto ha fatto per me, e quanto sta ancora facendo. Non esiste persona migliore di lui.» D’un tratto, abbraccia Esben e gli dà alcune pacche calorose sulla schiena. «Grazie, amico.» Poi si sistema il cappellino e si allontana.
Sono a bocca aperta.
Esben si volta di scatto. «Niente male come inizio, eh?» Dopodiché va in cerca del prossimo soggetto.
Io mi incammino accanto a Kerry. «È magico…» commento, quasi senza fiato.
«Vero? Riesce a commuovermi ogni volta.»
Le cinque interviste successive vanno abbastanza bene, ma si tratta perlopiù di ragazze che vogliono soltanto mettersi in mostra per la telecamera. Ascoltiamo comunque qualche ringraziamento sincero e Kerry scatta delle belle foto. Lei parla di «tappabuchi», però secondo me è sempre piacevole sentir parlare di amicizia e mi fa pensare a Steffi e a tutte le cose che potrei raccontare su di lei se oggi toccasse a me.
Dopo altre quattro interviste, Esben comincia a essere frustrato. Vuole qualcosa di più intenso, è evidente.
«Allison? Ti va di scegliere qualcuno al posto mio?» mi chiede.
«Io?» Non ho idea di come fare.
«Sì. Te la caverai bene, perché hai uno sguardo inesperto. Sei una consulente vergine.» Mi fa l’occhiolino.
Oh, signore. Non sa ancora quanto abbia ragione, ma accetto comunque.
Tutti e tre scrutiamo le opzioni intorno a noi. Oggi ci sono tantissimi studenti e impiego un po’ per osservarli uno per uno. Non lontano, scorgo un uomo anziano dai capelli bianchi con un lungo giaccone di lana e una sciarpa scozzese infilata con cura sotto al bavero. Ha un bastone riccamente intagliato, anche se cammina senza appoggiarcisi più di tanto. D’un tratto, ho il forte impulso di scoprire chi sia il migliore amico di questo signore.
«Lui», dichiaro, indicandolo senza farmi notare.
«Il professor Gaylon? Scelta coraggiosa.» Esben si concede un sospiro. «Auguratemi buona fortuna.» Raddrizza le spalle e si avvia verso di lui.
«Chi è il professor Gaylon?» domando a Kerry in un sussurro.
Lei si sta sforzando di non ridere, visto che regge la telecamera. «Insegna economia ed è noto per la sua natura poco affabile. Sono cooooosì contenta che tu abbia scelto lui!» Si affretta dietro al fratello.
Quando li raggiungo, Esben sta cercando di convincere il professore a parlare. «Mi sta dicendo che lei non ha un migliore amico? Mi aiuterebbe davvero tanto. Solo qualche parola?»
«Non credi che impiegheresti meglio il tuo tempo studiando anziché girare questi stupidi video?»
«E se stringessimo un patto?» Esben sta sfruttando il suo fascino. «Lei adesso fa questa intervista brevissima e io stasera studierò due ore in più del solito.»
Il professor Gaylon strizza gli occhi e gli punta contro il bastone. «Affare fatto. Sbrigati.»
Esben fa un cenno a Kerry, che comincia a riprendere.
«Allora, ci parli del suo migliore amico.»
«Non ce l’ho. Finito. Ecco la tua intervista!» sbotta l’uomo.
Sta per andarsene, ma Esben lo blocca.
«Ehi, ehi, aspetti! Non ha nessun amico? Chi chiamerebbe in un momento di crisi?»
«Il pronto intervento.»
«E sua moglie? Dei parenti?»
«No, non ho mai voluto una moglie e i miei parenti sono morti.»
«Okay. Allora chi chiama di solito per scambiare quattro chiacchiere? Quando ha bisogno del sostegno di qualcuno? Quando ha voglia di uscire a cena?»
All’improvviso, il professore si zittisce. Troppo a lungo, infatti Esben pare a disagio.
Non sarò scontrosa come quest’uomo, ma direi che ne so abbastanza di amarezza e rabbia. Senza pensarci due volte, avanzo di un passo. «E un vecchio amico? Chi chiamava una volta?»
L’uomo mi dà un colpetto con il bastone. «Questa ragazza è più furba di te.»
«Come si chiamava?» insisto.
«Jerry DuBois. Razza di figlio di puttana.»
Esben abbassa la testa per nascondere un sorriso. «Oddio.»
«Avete litigato?» m’informo.
Il professore mi risponde duro: «Litigato? L’ho tagliato fuori dalla mia vita».
«Perché?»
«Mi sono messo in affari con DuBois per una trattativa immobiliare che secondo lui ci avrebbe fruttato una fortuna. Io avevo i miei dubbi, ma Jerry era un buon amico e mi sono fidato. Lui mi ha fregato e io ho perso tutto.» Agita il bastone. «Mai fare affari con un amico, figliolo.»
«Cos’è successo? Si è preso i suoi soldi e non le ha dato la sua parte di guadagni?»
«Cosa? No, niente di simile.» Il professore cerca le parole per spiegarsi. «È stato un cattivo affare. Il mercato non ha reagito come immaginavamo. Io mi sono ritrovato al verde e la mia fidanzata mi ha lasciato.»
«Ma è stato solo un pessimo affare. Quell’uomo non l’ha fatto di proposito…» provo a rabbonirlo.
«Ho perso comunque tutto», ribatte lui.
«E quando le cose andavano bene?» lo incalzo, incuriosita. «Perché era il suo migliore amico?»
«Giocavamo a carte, andavamo a bere. Jerry prendeva un whisky sour bello forte, mentre io un martini. Liscio, con la scorza di limone. Jerry insegnava inglese all’università del Maine e cercava sempre di convincermi a leggere Shakespeare e altri autori. Ci ho anche provato, per lui…» Accenna un sorriso. «Una volta mi ha persino portato a vedere Come vi piace e sapete una cosa? Mi è pure piaciuto! Jerry raccontava pessime barzellette e aveva gusti terribili in fatto di donne, ma… era mio amico. Quando mio fratello è morto, Jerry era a Chicago e ha guidato per tutto il Paese pur di stare con me. Era al mio fianco il giorno in cui l’abbiamo seppellito.»
«Quindi Jerry non era del tutto cattivo», commento.
Il professor Gaylon mi fissa. «No, non era del tutto cattivo.»
«Da quanto non vi parlate?» gli chiedo.
«Oddio… sarà una trentina d’anni.» Riflette a lungo. «Trentasei a giugno.»
«Le manca?»
«Forse. Forse.» Ora il suo tono è più dolce, pacato.
«Sarebbe disposto a perdonarlo?»
«Eravamo giovani e con i soldi non ci sapevamo fare. E lui aveva ragione quando ha detto che alla mia ragazza interessava soltanto arricchirsi. Sosteneva che lei sarebbe dovuta rimanere, a prescindere dal resto, ed era vero. Forse potrei anche perdonarlo, quel bastardo.»
«Le va di chiamarlo?» chiede Esben.
«Sei proprio un bel tipo, figliolo.» Il professor Gaylon è divertito all’idea. «Non saprei dove trovarlo. Potrebbe essere ovunque.»
Esben è in grado di scrivere al cellulare più in fretta di chiunque abbia mai visto e, nel giro di dieci secondi, gira lo schermo verso il vecchio. «Jerry DuBois. Professore di inglese all’università di Boston. Numero di telefono: 617…»
«Vive a Boston? Diamine, ha sempre voluto insegnare lì.» L’uomo si illumina e allunga una mano verso lo schermo. «Guardate. Ha più rughe di me.»
«Proviamo in ufficio?»
Il professor Gaylon annuisce.
Esben gli passa il telefono e, con una certa ansia, restiamo in attesa.
«Jerry DuBois?» sbotta il professore. «Sono Carter Gaylon. Quindi sei a Boston, razza di vecchia canaglia. Ti ho chiamato per dirti che, se mi offri una costosa cena con un menu mare e monti, sono pronto a perdonarti.» Con una smorfia, rimane in ascolto. «Be’… possiamo parlarne. Sì, va bene. Sabato, d’accordo… No, non mi servono le indicazioni. Sono capace di usare Google Maps.» Ripassa il cellulare a Esben. «Forse non sei così sciocco, dopotutto.»
Kerry indica la lavagnetta e il fratello scrive #jerry #miglioreamico e scatta una foto.
In silenzio, il professor Gaylon si gira e si allontana. Questa volta, però, con passo lievemente più spigliato.